Non è affatto chiaro per l’affetto di Chiara
La famiglia Guerrasio invita degli amici per festeggiare la maggiore età della primogenita. Ma siamo (ancora!) a Gioia Tauro e non è affatto insolito che un'auto esploda (come in effetti le cronache ci hanno a volte segnalato; e insegnato ad accettare?) e qualcuno si dia alla fuga, o svanisca nel nulla. La tensione sale all’arrivo di alcuni sconosciuti (rivali o forze dell’ordine?); in un primo momento, il padre, che, incapace di trovare dentro di sé l’allegria consona all’atmosfera, s’era poco prima commosso per gli auguri da porgere alla figlia appena maggiorenne, va via, o così sembra, poi torna, e di nuovo scappa, di nascosto, dal retro dell’abitazione: insomma scompare, ufficialmente latitante (all’apparenza), ma in realtà (e nella sostanza) rintanato in un rifugio (a tutti sconosciuto?). - Fosse stato un horror, avrebbe avuto per titolo: Non aprite quella “botola” (traduzione di “The Texas Chain Saw Massacre”, 1974) di Tobe Hooper.
La madre che sa che ci sono cose che è meglio non sapere e altre che è meglio non dire, si comporta come se non fosse successo niente, mentre la quindicenne Chiara, che quest’antica saggezza non conosce, non riesce a star zitta e non smette di cercare risposte, finché scopre in soggiorno quel “segreto”: «un bunker sotto casa», - non equivalente certo alla tana del Bianconiglio di Alice nel Paese delle meraviglie, inesplorato quasi quanto “Il buco” (2021) di Michelangelo Frammartino, sotterraneo come l’economia di quella “famiglia” e d’un’intera società intorno – un luogo che incuriosisce circa certi legami poco “chiari” (perché è forse la limpidezza la vera protagonista di questa storia intitolata al nome della santa che, “ropp’arrubbata, facetter ‘e porte ‘e fierro”!), intrisi come sono di quell’alone untuoso di malavita che si respira in ogni angolo della Piana delle ‘ndrine. L’intervento dello Stato (abbastanza inconcludente, se non proprio inconsistente) si concretizza in un blando affidamento da parte dei servizi sociali teso a proteggere la minorenne da quella “problematicità” domestica, ma senza tenere nel debito conto quale rapporto si possa venire a costruire tra il futuro che si desidererebbe e la verità che non ci si aspetta.
Segreti di famiglia?
La disfunzionalità familiare s’accosterebbe un po’ a quella indagata in “Louder Than Bombs” (2015) da Joachim Trier, ma nel clima nordeuropeo sono le ricadute del disagio sull’intero destino dei vari componenti quel nucleo parentale che sembrano scompensarsi nell'inautenticità. Mentre, qui al Sud, i problemi della legalità non sono esclusivi della schiatta di Chiara, né solo della sua piccola comunità, perché, -che lo si voglia ammettere o rifiutare, quando si sentenzia con definizione tranchant che questa regione è irredimibile, - la Calabria fa parte integrante d’un sistema “nazione”, dove forse è lo Stato a mostrare le sue carenze e le sue falle, per cui l’alibi di ricercare responsabilità in arcaici legami di sangue e di cultura arretrata (“familismo amorale”) servirebbe esclusivamente a evitare d’affrontare questioni ben più scottanti di connivenze e complicità ormai strutturate in tutta quella rete che mantiene ben salde le fila del potere, che non logora solo chi lo detiene.
Quello dei “Segreti di famiglia” potrebbe costituire un “sottogenere” filmico a sé stante, in questo nostro caso, contaminato, o commisto, a una categoria altrettanto rassicurante e alla moda, quale il "crime": “Laguna” (2001) di Dennis Berry, “Tetro” (2009) di Francis Ford Coppola, “Her Last Will” (2016) di Anthony Di Blasi; anche se l’annosa questione di queste categorizzazioni non può prescindere da quella ben più antica dei generi letterari, meritevole d’un corposo saggio a parte. Queste convenzioni nella catalogazione cinematografica non le hanno sfidate pure Fabio Grassadonia e Antonio Piazza in “Sicilian Ghost Story” (2017), tragedia di mafia e insieme fantastico onirico-fiabesco?
Il cinema di Jonas Carpignano ha tuttavia maggiore affinità con le indagini complesse di Sean Baker (“Red Rocket”, 2021; “The Florida Project”, 2017; “Tangerine”, 2015), Alice Diop (“Nous”, 2021), o Jean-Charles Hue (“Tijuana Bible”, 2019; “Mange tes morts: Tu ne diras point”, 2014; “La BM du Seigneur”, 2011), rispettivamente sui bassifondi delle città statunitensi, nell’attraversamento delle banlieue parigine, per le strade messicane e sulla vita degli Yéniches, impropriamente assimilati ai Rom, poiché seminomadi, ma che non parlano “rromani ćhib”. Per altri versi, poi, ricorda pure la prova autoriale d’esordio del filippino Petersen Vargas di “2 Cool 2 Be 4gotten” (2016) o l’impostazione del franco-tunisino Abdellatif Kechiche (“Mektoub, My Love: intermezzo”, 2019).
Quinceañera
Un’adolescente che scopre più cose di quanto le sarebbe consentito non corrisponde sempre all’ostensione d’una qualche innocenza originaria, e alla conseguente sua perdita?
Una transizione, comunque, una crescita imposta e maturazione forzata, non coincidente con la maggiore età prestabilita alle nostre latitudini, dove però si può intraprendere una gravidanza indesiderata ben prima.
Tra l’inizio e la fine di questo svolgimento tematico quasi da “giallo sociale”, una festa per i diciotto anni, che, in certi ambienti della “locale” aristocrazia delinquenziale, ha assunto la solenne valenza della Quinceañera latino-americana. Un altro riferimento andrebbe dunque d’obbligo all’omonimo film del 2006, scritto e diretto da Richard Glatzer e Wash Westmoreland, più incentrato sugli argomenti relativi all’emarginazione e allo stigma sociale.
Qui in mezzo, invece, tra l’inizio e la fine, c’è un malinconico cambiamento di “prospettiva” e di vita, sia per un'esperienza di consapevolezza sia per una “scelta” non condivisa, e non condivisibile, sull’onda degli affetti, emotivi, sentimentali e giammai razionali: illazioni e ricordi, passato e presente, illusioni o pseudo-allucinazioni, ciò che c’è e ciò che sembra, quello che sta sopra e quello che sta sotto, un “passaggio” che dall’abitato conduce in aperta campagna e uno spazio “in negativo” intuito “fuori”, ma che prima d’essere “scovato” è stato interiorizzato e “scavato” “dentro”; situazioni opposte si specchiano rimarcandone l’abissale distanza nel riflesso delle memorie più intime, con quella sorta di brindisi iniziale del titolo: “A Chiara”, che non allude certo all’albume dell’uovo, pronto semmai a rapprendersi e intorbidirsi (e spero neanche alla nota blogger), bensì al verbo che indica e sancisce un’attività di chiarimento perseguita per tutta la narrazione (e da far proseguire, volendo, anche oltre, e fuori dalla narrazione stessa).
“Chiariamoci subito”
E sì, perché “A Swamy” avrebbe potuto stridere come un gessetto che slitta e vibra su una lavagna in ardesia. La maggior parte degli altri interpreti appartenenti alla famiglia Rotolo, Guerrasio nella finzione, hanno mantenuto i loro veri nomi (Claudio, Carmela, Giorgio, Antonio, Enzo…), ma Grecia (semmai Greca!), è costretta a diventare Giulia, in quanto, come Swamy, suona un po’ troppo eccentrico (anche per una capitale dell’organizzazione mafiosa o piccolo centro del meridione e del declino economico, oltre che ostaggio della criminalità, in cui i ragazzi vorrebbero condurre un' esistenza simile a quella di tutti gli altri?), dove, neppure se indiani o giapponesi (suamii vuol dire marito), dei genitori conformisti, o di buon senso che dir si voglia, si sognerebbero di chiamare con un sostantivo sanscrito maschile (svāmī, appellativo da brahmano; in indonesiano suami vale ancora sposo) le loro figlie, né con né senza la “y”, anche perché proprio scorretto, un errore d’ortografia, sbagliato, alla stregua della cacofonica italianizzazione Suafca dello slavo Slavka (Славка), nonché abbastanza inopportuno e quasi ridicolo in un ambiente in cui, tranne nella scuola dell’obbligo, si parla sempre in dialetto stretto e per questo sarebbero meglio i congeniali tradizionalissimi Maria, Anna, Teresa, Rosa, Annunziata, Caterina, Concetta, Catena, Itria … e certamente non Sue Ellen o Jessika, col kappa, come Swamy con la “double-u”.
Tra apparenza e sostanza
Di nuovo una doppiezza, e non solo della “u”, tra apparenza e sostanza; una discrepanza intercettata tra una sorta d’ante litteram e un’imprevista “extra-extra-diegesi”, in locandina e nei titoli, addirittura al di fuori della scrittura, che però rimarca la contraddizione onomastico/local-globalistica dell’intera impostazione d’una mimesi “neo-neo-verista”, dimostrando come sia proprio la realtà di Swamy ben lontana dalla finzione di Chiara.
“Non è un paese per quindicenni”
Lo scollamento è tale che ciò che s’indaga come un thriller non dimostra d’avere neppure adeguate proporzioni con il narco-traffico messicano e i racconti di Cormac McCarthy, - ma qui in Calabria il titolo del film dei fratelli Coen del 2007 sarebbe divenuto “Non è un paese per quindicenni”; il pensiero ovviamente va a “The Counselor” di Ridley Scott (2013), “Sicario” di Denis Villeneuve (2015), e il sequel di Stefano Sollima del 2018, oppure alla trilogia “Pusher” di Nicolas Winding Refn (1996, 2004, 2005), ma ancor più a “Cidade de Deus” di Fernando Meirelles (2002) o “Tropa de Elite” di Josè Padilha (2007). In comune forse l’appariscente fasto di famiglie benestanti, l’atmosfera festaiola della Quinceañera e un vetero-continentale ingresso in società (baile de debutantes, "Crillon Ball" o Debütanten-Walzer beim Opernball), slittato in avanti di tre anni?
Realtà o Reality?
Ma soprattutto poco credibile (ancora a Gioia Tauro!) tale antroponimìa, quasi come non riuscire a intuire nulla della vita quotidiana dei propri cari, delle loro attività legali, o illegali che siano, e dover intraprendere un angoscioso iter d’agnizione in merito (allora sì che Gioia Tauro non sarebbe “un paese per quindicenni”?); l’orrore è per questa assurda ignoranza circa il pericolosissimo clima che si agita nei paraggi, senza saperlo riconoscere come tale, piuttosto che per la messa in scena, o il sonoro, che l’accompagna in sincrono. Eppure, quella odierna dovrebbe essere una generazione privilegiata da una grande forza (nient’affatto succube e ben difesa dalle malie della vita facile e degli altrettanto facili guadagni?), poiché appartenente a un mondo “globalizzato”, nel bene e nel male, e totalmente aperto (sempre “nel bene e nel male”); una generazione non immersa in una mentalità ristretta, bensì in grado d’incorporare altri punti di vista, che non si limitino però a un kitch posticcio, alle feste esagerate, alle scelte musicali, ai selfies e ai nomi esotici da attribuire ai figli quando non si sono ancora esauriti quelli comuni, e soprattutto che non confondano la realtà con il “Reality”, come succede nel film di Matteo Garrone del 2012.
Non parlo non sento e soprattutto (non) vedo
Il dilemma è rispettare, o non rispettare, le regole (e di quale società, la civile, la familistica, o l’«onorata»?), accettare o meno il destino già segnato, dribblando, nonostante la lacerazione affettiva, le profezie auto-avverantesi; aprire gli occhi di fronte alle cose come sono o rifiutarsi di vederle perché non sono come vorremmo che fossero?
È a questo snodo che subentra l’importanza di appartenere a una comunità o di riuscire ad abbandonarla per trovare una propria strada, il che non corrisponde quasi mai a poter fare delle libere scelte. Ci sono persone che non riescono a lasciarsi completamente dietro le loro radici, cui comunque si sentono d’appartenere per nascita, per affetto, per problemi identitari, altre che le strappano senza particolare fatica, e altre ancora le quali si ritrovano a percorrere delle vie mediane. Resta la difficoltà e l’imbarazzo d’essersi scoperti immersi in un contesto del quale non si condividono valutazioni e preferenze.
Io, Chiara e l'Oscuro
La Quinceañera/quindicenne “Chiara” del titolo, sicuramente più ammissibile della Swamy nella vita, è «l'occhio» attraverso cui dovremmo intravvedere la realtà di un paese “non adatto alla sua età” (e ripeto: Gioia Tauro “Non è un paese per quindicenni”?), e leggere, comprendere, “chiarire” quella dimensione che le rivela il suo lato inquietante e “oscuro”, - senza avere per questo punti di contatto, se non casuali e comicamente involontari, con il film di Maurizio Ponzi, del 1983, interpretato da Francesco Nuti (Io, Chiara e lo Scuro) o con la trasmissione radiofonica in onda sulle frequenze di Radio 2 (Io, Chiara e l'Oscuro), impostata sul mood dei romanzi di Chiara Gamberale: “L'amore quando c'era” (2011), “Le luci nelle case degli altri” (2010), “La zona cieca” (2008).
“La zona cieca”
E una “zona cieca” persiste anche nel nostro film, dove, fin dall’inizio, tutto possiede una dimensione intima e lo “sperimentale” astrattismo delle prime immagini, così tanto ravvicinate, le rende quasi incomprensibili, restituendoci un campo di tipo microscopico, eppure del tutto soggettivo, mentre l’assoluta prossimità ai protagonisti personalizza ulteriormente il punto di vista col farcene percepire persino l’ansimare.
Coming of age
Dopo Mediterranea (“A Chjàna”, 2015), sugli immigrati africani, e A Ciambra (2017), sulla comunità di rom stanziali, il completamento della “Trilogia della Piana” è rappresentato da un “coming of age”, stavolta riproposto al femminile, che si eleva a metafora d’un occulto “traffico” (di stupefacenti), quale “transizione” dall'infanzia all'essere adulti. È allora l’adolescenza a determinare la natura della trasformazione (in bene o in male) e dell’assunzione di diritti (reclamati e non goduti) e delle responsabilità (rifiutate o attribuite), sempre in rotta di collisione con le convenzioni legali, e culturali (conformiste e medio-borghesi o rigidamente osservanti un fondamentalismo da branco), che poi stabiliscono cosa è meglio e cosa è peggio “per gli altri” (a seconda della posizione in cui si trovano, da distinguere dal familistico noialtri), nonché i punti di rèpere approssimativi intorno a una tarda giovinezza o una prima maturità, a cui demandare l’affiliazione iniziatico-malavitosa?
Racconto di formazione o “finto” documentario?
Quindi un “racconto di formazione” «crudo» quanto basta per non allontanarsi troppo dal genere “finto” documentario, molto più che mockumentary. Il bildung qui indica ciò che sta producendosi, in una ben determinata stagione esistenziale, nella magia dell’«apparire» delle immagini di continue scoperte, non necessariamente «magnifiche … e progressive», d’un percorso non del tutto efficacemente formativo, bensì sufficientemente dubitativo.
A Chjàna, A Ciambra, A Chiara
In comune, i protagonisti della trilogia A Chjàna, A Ciambra, A Chiara, non hanno solo l’iniziale del titolo (che nell’ultimo potrebbe essere interpretata sia come complemento di termine, sia come articolo determinativo gergale), ma soprattutto la ricerca d’una propria bussola etica (tale da modificare in “morale” il proprio familismo), attraverso la comprensione di quanto sarebbero disposti ad accettare o meno del mondo in cui si trovano, ma del quale provano a mettere in discussione le regole senza tuttavia rifiutarle del tutto.
Non dimenticare di santificare le feste… di compleanno!
La presenza del migrante del Burkina Faso (Koudous Seihon) di “Mediterranea/ A Chjàna” ci rammenta che stiamo seguendo un unico filo conduttore nel percorrere le medesime strade d’una “trilogia” - ma questa memoria sembra più una citazione da “Dekalog”, la serie dei 10 mediometraggi prodotti tra l’88 e l’89 da Krzysztof Kieslowski: jeden, dwa, trzy… (Non avrai altro Dio…, Non nominare il nome invano, Non dimenticare di santificare le feste… di compleanno!).
A sottolineare invece maggiormente una “dualità”, solo apparentemente contrapposta rispetto ai Rom del film precedente, la presenza di Amato Pio, quel “pulcino” pronto al salto della quaglia per indossare i panni del Pulcinella, che, da controcanto, avvia decisamente all’ampliamento d’uno sguardo riportato sempre sulla medesima realtà, anche se poi ogni paese ha le sue peculiarità, come la sua “locale” di ‘ndrina, che sarebbe quanto di più anti-globalista si possa pretendere, se non si riproducesse allo stesso modo in tutto il mondo “conosciuto”, e “in-globato”, da “loro” (distinto o assimilato a “noialtri”?).
L’ibridazione di localismi e globalizzazione (di più in Mediterranea), stanzialità e nomadismo (maggiore in A Ciambra) si ripercuote su un andamento a metà strada tra fiction e docufilm, proprio per quel particolare stile d'osservazione, da “neo-neorealismo immersivo”, o neo-verismo fluido di stampo rosselliniano, con grande uso, e forse anche un po’ abuso, della macchina a spalla, come pure per la scelta di seguire un determinato luogo (e la Piana per più d’un lustro) a cui applicare uno sguardo simil-antropologico, popolato da personaggi confusi con gli attori presi dalla strada, e dalla vita, per interpretare sullo schermo storie giocate su un indistinguibile confine fra realtà e finzione.
Ierace G. M. S. Cinefili e film d’essai: così è il Sud? Narrativamente si aspira al riscatto, ma la rappresentazione documentaria resta senza scampo, Calabria letteraria, 266, 67-71, gennaio/marzo 2020
Ierace G. M. S. In terra di santi (morti) beata è chi resta “santista” (peccatrice, viva)! Calabria letteraria, 269, 81-83, ottobre/dicembre 2020