Il viaggio del cuore tra Venezuela e Calabria alla ricerca di sé stessi
La scrittrice America Liuzzo si racconta ai lettori di Calabriapost
America Liuzzo è una bella signora di origine calabrese, coraggiosa e determinata, con una meravigliosa propensione verso la narrazione. Scrive molto bene e riesce a trasmettere al lettore emozioni forti attraverso parole che accarezzano il cuore, sia che si tratti di prosa che di poesia. Ha un animo gentile ed una personalità spiccata. Ha fatto delle scelte importanti nella sua vita, come decidere di trasferirsi dal Venezuela a San Lorenzo superiore, un paesino del versante jonico in provincia di Reggio Calabria, nel luogo appartenuto ai suoi avi. America ha mille interessi, lavorativi e culturali. Ha studiato geologia all’università, è amante della natura e della biodiversità.
È anche la presidente dell’Associazione culturale “Il Pettirosso”, che si occupa di recuperare la memoria storica di un territorio purtroppo spopolatosi nel tempo, per via della forte spinta all’emigrazione iniziata a ridosso degli anni ’50 -’60.
Trovo molto affascinante, in qualche modo anche romantica, la sua scelta di vivere in un luogo così diverso da una metropoli pulsante energia vitale come Caracas. Ma i due mondi geograficamente lontani, nel cuore e nella mente di America Liuzzo non sono così distanti e si integrano tra di loro, ed è questo forse l’aspetto che più mi ha intrigata. Per comprendere meglio la sua personalità poliedrica, le ho rivolto direttamente alcune domande che delineano a chiare lettere una storia personale bellissima fatta di tanti ricordi ma anche di impegno sociale e di una immutata voglia di combattere per il futuro della propria terra.
- America, lei è nata a Caracas da genitori calabresi. Ci racconti di come e di quando ha deciso di lasciare il Venezuela per andare a vivere nella terra delle sue origini.
In realtà, il pensiero di vivere in Italia in maniera definitiva era ben lontano dalla mia mente. I miei genitori si erano integrati bene in una nazione che non era la loro, ma che li aveva accolti a braccia aperte, come a tanti altri emigranti provenienti dai paesi di un’Europa che cercava di rialzarsi dalle conseguenze devastanti della Seconda guerra mondiale. Da quel che so, da San Lorenzo sono partiti a dozzine negli anni 50-60, per la Germania, per la Svizzera, per l’Argentina, per l’Australia... I miei, partiti in treno per Napoli, si imbarcarono su una nave della Flotta Lauro verso terre lontane e allora poco conosciute, raggiungendo il porto di La Guaira - Caracas (Venezuela).
Papà faceva il sarto, mia madre la casalinga tuttofare e aiutava nella sartoria quando era necessario. Erano benvoluti e rispettati, e io ero "la hija mayor del sastre", una bambina felice.
Si veniva a San Lorenzo in vacanza, alla fine dell'anno scolastico, per trovare i nonni, ma anche per assaporare dal vivo tutte quelle cose che papà e mamma ci raccontavano spesso: usanze, luoghi, personaggi. Facevamo a turno perché di figli siamo tre e a quel tempo i prezzi dei biglietti dell'aereo non erano a portata di mano.
Lo spirito dell'emigrante è scandito da un richiamo costante. I miei sognavano sempre un ritorno in patria, ma gli anni passavano, e passavano in fretta.
La prematura e inaspettata morte di mia madre nel 1982, fece sì che mio padre negli anni successivi maturasse l'idea di rientrare definitivamente in Italia, e così fu. Tra il 1986 e il 1989 ci trovammo stabiliti qui. Confesso che me ne andai più volte. Questa volta "il richiamo della foresta" era per me. Mi mancavano il sole della mia città, i miei amici, l'aria tiepida del Sudamerica, la gioia dei Caraibi, la vita a cui ero abituata. Ma anche il mio paese stava cambiando. E il Venezuela di oggi non è quello della mia infanzia e della mia gioventù. Nel 1992, al rientro da uno dei miei viaggi all'incontrario, decisi, una volta per tutte, di restare qui, nella casa di famiglia e, da questo punto focale, ubriacarmi delle meraviglie della Natura che vedo intorno a me e che per molti versi mi fa sentire vicina a quella della mia terra; applicare i miei studi di geologia per conoscere il territorio; cercare risposte a tante domande e comprendere... Sì, comprendere. Perché se non comprendi non hai pace.
Sono curiosa per natura, e credo sia stata questa mia curiosità che mi ha aperto gli occhi verso tutto quello che mi circonda per imparare ad amarlo. Amo questa terra, questo territorio, allo stesso modo in cui amo la terra dove sono nata e alla quale la mia anima appartiene: Caracas, mi "sucursal del cielo!".
- Il viaggio verso la Calabria può essere visto come metafora del viaggio interiore. Quanto è stato difficile affrontarlo? Può considerarsi concluso?
Sicuramente. Ma dobbiamo essere consapevoli che i viaggi interiori non si concludono mai. C’è sempre qualcosa più in là, c’è sempre qualcosa da aggiungere a quella sete di sapere e di comprensione a cui facevo riferimento. Approfondire la conoscenza del luogo in cui stai vivendo, accomunare lo spirito di ciò che ti circonda con il tuo, confrontare e confrontarsi, questo è il senso reale del guardarsi dentro e "viaggiare". Le radici sono profonde e ogni giorno è una nuova scoperta. Molte persone quando mi conoscono e vengono a trovarmi a San Lorenzo si meravigliano che io abbia deciso di vivere qui e mi fanno un mare di domande. Quando hai dentro di te un mondo tutto tuo, capace di adeguarsi a qualsiasi tempo, a qualsiasi luogo, puoi vivere ovunque ed essere felice. Io qui, vi assicuro, non mi annoio.
- Il suo grande amore per la Calabria ed in particolare per il paese di San Lorenzo superiore, dove vive ed opera a livello culturale e sociale, si è tradotto anche nella realizzazione di opere letterarie di grande valore ed impatto emotivo. Ricordiamo lo splendido “Quando ritorno ti porto un fiore” (Città del Sole edizioni), nel quale ripercorre la storia del suo bisnonno partito per la Prima guerra mondiale ed immolatosi, come migliaia di giovani del Sud, per una causa difficile da comprendere. Che cosa l’ha spinta a scrivere di questa vicenda struggente e delicata che rappresenta uno spaccato di storia della nostra terra?
Cosa mi ha spinto? Potrei fare una lista di motivi per cui ho scritto questa storia, ma in realtà è stata la storia stessa -se posso dirlo così- che mi ha chiesto di scriverla. Trovare quel mazzo di lettere inviate dal fronte di guerra dal mio bisnonno e capire che cosa fossero... Beh! Non potevo non fare nulla. Quei cartoncini centenari mi accompagnavano ovunque e la voglia di sapere che cosa fosse successo realmente mi martellava in testa ogni giorno. Addirittura, in uno dei miei viaggi in Venezuela, nel mio andirivieni, portai le lettere con me nel bagaglio. Man mano che le leggevo, il ritratto di Francesco Scordo veniva fuori. Sempre con più chiarezza. Ho sentito l'impulso forte di dare una voce a quel volto, di aggiungere un suono a ciascuna delle parole scritte, di dare vita ad una storia che fino a quel momento si trovava sepolta nell'oblio. Fancesco rappresentava la fascia più numerosa di uomini chiamati al fronte: i contadini. E di questi uomini, il sud, la Calabria, erano strapopolati.
- Nella bellissima raccolta poetica “Parole inchiodate tra mari e monti” (Montedit edizioni), si fa riferimento ad un ponte magico di parole che funge da collegamento tra la dimensione fisica e quella interiore, in bilico tra immanenza e trascendenza. Il rapporto viscerale con la terra calabra dei padri ma anche con la città di Caracas, in cui ha trascorso parte della sua vita, emerge evidente. Si possono amare in egual misura due luoghi fisici che sono anche i luoghi dell’anima? Esiste un fil rouge che li unisce?
Certamente. Per fortuna viviamo in un’epoca in cui è facile spostarsi da un punto all’altro del pianeta e comunicare in tanti modi per mantenere i contatti e non far svanire gli affetti. Le nuove tecnologie e i social negli ultimi due decenni mi sono stati molto utili. Benché fisicamente lo sia, non mi sento lontana dal Venezuela. Il ponte naturalmente esiste nel mio immaginario, come un arcobaleno che si sposta da un punto all’altro sull'Atlantico. Nelle mie "parole" intreccio un legame tra el mar Caribe e l'Aspromonte, tra il mar Jonio e il cerro del Avila, tra la fiumara del Tuccio e il Caronì... In tutto ciò che scrivo c'è sempre (e non può venire a mancare) la dualità nel pensiero che viene espresso. Non può essere altrimenti. Il confronto tra i due mondi che abitano in me non è basato su un paragone competitivo ma, al contrario, è qualcosa di inclusivo, di complementare. Per me non può esistere l’uno senza l'altro. E poi, Caracas e Calabria, non iniziano entrambe con la lettera "c"? E aggiungerei: la lettera "c" del cuore!
- Parliamo del suo impegno sociale e culturale per il territorio jonico attraverso le attività dell’Associazione “Il Pettirosso” che lei presiede. Quanto è difficile fare cultura in Calabria?
Come ho detto già in altre occasioni, non è facile fare cultura in Calabria. Specialmente nella Calabria meridionale, che è quella di cui ci occupiamo in maniera più specifica nella nostra Associazione "Il Pettirosso". Ad essere sincera, credo che siamo sopravvissuti in tutti questi anni (abbiamo un quarto di secolo di attività ininterrota alle spalle) proprio perché ci siamo autosostenuti senza aspettarci nulla dai vari enti territoriali o regionali che però, spesso, si sono appoggiati a noi per promuovere i propri interessi e attività. Ormai è nota la nostra raccolta di oggetti, immagini, racconti, video e tant'altro che ci ha permesso di creare un piccolo museo all'interno della nostra sede operativa, e un archivio dati che documenta l'importanza di Valletuccio nell'area grecanica reggina. Dal 2007 siamo pure gemellati con il Circolo di Servola (Trieste).
Purtroppo, le difficoltà sono numerose. La collaborazione scarsa. La parola "Cultura" sembra qualcosa di astratto e spesso viene svenduta assieme alla parola "Tradizione" senza capire il valore reale di ciò che significa. Uno degli impegni più grandi di chi dice di interessarsi allo sviluppo dell'entroterra calabrese dovrebbe essere quello di "educare alla cultura" e, tra questo, promuovere l'importanza del "bene comune"; vale a dire, che "bene comune" non significa che è proprietà di tutti, ma "responsabilità" di ciascuno. La vera cultura incomincia lì, con il rispetto per ciò che ci circonda, con la cura della bellezza nella comunità in cui viviamo, a cui apparteniamo, piccola o grande che essa sia. Il vero cambiamento incomincia qui e non bisogna andare oltre. Le piccole cose, i piccoli gesti fanno la differenza. Noi come "Pettirosso" continueremo a far sentire la nostra voce e, come l'Olmo secolare della piazza, a cui abbiamo dedicato una delle nostre recenti attività, restare in piedi malgrado tutto. Resilienza!
- L’impegno ambientalista è un altro dei capisaldi del suo quotidiano. La scorsa estate ha vissuto in prima persona la tragedia dei roghi nella zona aspromontana ed ha visto con i suoi occhi ettari di boschi e vegetazione secolare andare distrutti. Dopo un primo interesse a livello nazionale sulla vicenda, l’attenzione dei media inevitabilmente è scemata. Che cosa sta facendo la politica, nazionale, regionale e locale per evitare che questo disastro si ripeta in futuro?
La risposta è breve e concisa: di concreto, niente.
L'estate scorsa è stata -a dir poco- terrificante. Abbiamo visto roghi attorno a noi e respirato fumo per settimane. Per chi come me ha abbastanza conoscenza del territorio, della sua morfologia e della biodiversità che custodisce, dei piccoli imprenditori che hanno le loro aziende o fondi agricoli in lungo e a largo del Tuccio e dell'Amendolea, l'abbandono a noi stessi resta palpabile.
La tristezza più grande è notare che la politica in generale si muove verso l’approvazione di megaprogetti la cui applicazione in questo territorio non sta né in cielo né in terra, invece di promuovere semplici e singoli progetti mirati allo sviluppo di ogni piccolo luogo secondo le necessità di chi lo abita e che con grandi sforzi cerca di restare. Si dovrebbe dare più importanza alle soluzioni alternative, proponendo progetti all'avanguardia che rispettino la conservazione dello stato naturale dei luoghi, evitando pure la cementificazione massiccia che sta infestando pianure e montagne in maniera esorbitante e per la quale, prima o poi, Madre Natura ci passerà il conto.
- La sua esperienza di vita è la dimostrazione di come sia gratificante ma anche difficile impegnarsi in prima persona per realizzare il cambiamento culturale. Che cosa si sente di dire alle nuove generazioni, per esortarle a non abbandonare la speranza di una rinascita del proprio territorio e nel contempo per rimanere custodi della memoria individuale e collettiva?
I giovani dovrebbero capire che non devono nutrirla, la speranza; ma prendere consapevolezza che sono loro la Speranza! Incominciando da qui, dal posto in cui siamo, dalla Calabria, dalla casa in cui viviamo.
Se le nuove generazioni si rendessero conto di questo, il primo passo verso un vero e radicale cambiamento sarebbe già in atto. Io parto sempre dal presupposto che la miglior lezione è dare l'esempio, e questo tocca a noi, della vecchia generazione. Lo ripeto sempre: bisogna dare l'esempio, bisogna "fare" più che "parlare". La forza della gioventù è un'arma potentissima, ma va indirizzata nel verso giusto. Proprio per questo voglio essere fiduciosa che qualcosa di buono possa accadere in qualsiasi momento. I giovani sono il nostro terreno fertile che va coltivato con amore e saggezza. Altrimenti di quale futuro si potrebbe parlare? Esso va costruito a poco a poco, stagione dopo stagione. Solo così, in piena coscienza potremmo ripondere alla domanda in prima persona: "Ma io, merito veramente di vivere in un mondo migliore?".