L’albero della cuccagna e il furto dell’innocenza –
Breve storia d’un “certo” Cinema calabrese (o meglio di quello “relativo alla” Calabria), nel centenario della nascita di Vittorio De Seta (Palermo, 15 ottobre 1923 - Sellia Marina, 28 novembre 2011)
Palermitano di nascita, seliese d’adozione, orgolese onorario, Vittorio De Seta è stato antesignano del cinema ‘socio-politico’ (“Salvatore Giuliano” di Francesco Rosi è del 1962, “La battaglia di Algeri” di Gillo Pontecorvo del 1966), anche se poi va ricordato giustamente tra i registi italiani considerati più radicati nel filone del ‘neorealismo’ (a partire dai cortometraggi sui minatori, la pesca, la pastorizia, ecc. della metà degli anni ’50, in tempi ancora definibili quasi da pionieri; “Sulfarara” è del 1955, come “Pasqua in Sicilia” e “Parabola d’oro”; dello stesso anno “Contadini del mare”, “Pescherecci” invece del 1958), e poi da quel tipo di rigorosa documentazione evolutisi in opere preminentemente e decisamente ‘autoriali’, senza mai minimamente disconoscere però il senso d’indubbia continuità intellettuale che hanno avuto con la generazione precedente - e, di fatto, per questi artisti, il piano comune sarà sempre proprio quello del Neorealismo, la cui durata il celebre critico francese Georges Sadoul (1904-1967) tendeva a espandere cronologicamente fino alle soglie degli anni sessanta, con quella «grande tragédie néo-réaliste», “Rocco e i suoi fratelli” (1960), di Luchino Visconti, il quale tra l’altro del neorealismo era stato pure precursore (“Ossessione”, 1943).
Abigeatari sardi
Aristocratico come Visconti, dopo l’esperienza sul campo di “Un giorno in Barbagia”, proseguita con “Pastori di Orgosolo” (1958), - tra le cose migliori d’ogni tempo sulla Sardegna, e non soltanto dal punto di vista della memoria cinematografica, ma anche da quello dell’analisi antropologica, o più precisamente etnografica - De Seta ha trasposto l’asciuttezza della sua narrazione filmica in quel capolavoro che a ben ragione potrebbe oggi essere giudicato proprio uno degli ultimi esempi del neorealismo storico di cui parlava Sadoul (allungato d’un altro anno), nonché rara sintesi di racconto e di documentario insieme; il suo primo lungometraggio girato interamente con gente del luogo, "Banditi a Orgosolo" (1961), indaga su chi un tempo era abituato a vivere la precaria e solitaria esistenza dei pastori, e che, a causa di avvenimenti dominati da un destino avverso, ma pure da ignoranza, impotenza e da una demoralizzante sfiducia nelle leggi dello stato, si trova suo malgrado coinvolto in qualcosa che da insignificante, sospetto di abigeato, diventa più grande, palese accusa d’omicidio, e lo costringe, da innocente, all’inevitabilità di doversi dare alla macchia, trasformandosi quindi in spudorato ladro di bestiame. Insomma, un film tipico del secondo dopoguerra, costruito in chiave di ricerca sociale e già carico di quell'impegno ‘politico’ che ha caratterizzato gli anni che, come scrisse Ernesto de Martino, segnarono l'«irruzione nella storia delle classi strumentali e subalterne», per il meridione testimoniata sugli schermi da «La terra trema» (1948) di Visconti (come “Banditi a Orgosolo”, interpretato solo da attori non professionisti e girato nel medesimo paese de “I Malavoglia”) e, in letteratura, dall'opera di scrittori quali Carlo Levi («Cristo si è fermato a Eboli», 1945), o P. P. Pasolini (“Una vita violenta”, 1959), ma contemporaneamente anche da politologi impietosi, alla Edward C. Banfield (“The Moral Basis of a Backward Society”, 1958).
Quell’esordio nel lungometraggio ebbe una tale eco internazionale da suggerire all’antropologo Franco Cagnetta, nel licenziare alle stampe, presso l’editore parigino Buchet-Chastel, la raccolta dei suoi scritti sulla Barbagia, di richiamare espressamente il titolo dell’ormai celebre film (Bandits d'Orgosolo, 1963), riconfermandolo l’anno dopo nella traduzione tedesca (Die banditen von Orgosolo, Econ-Verlag, Düsseldorf/Wien).
Cinema di verità - Verità del cinema
Il dibattito tra il cinema di verità e la verità del cinema non poteva prescindere dalla ripresa in “strada”, o dal prendere da essa per poi rimetterla in scena. E in quegli anni, un tale discrimine avrebbe assunto toni da teorizzazione sofisticatamente analitica o da caparbia contestazione pratica; nel primo caso, nei confronti d’una concettualizzazione che non fosse esclusivamente stilistica, e nel secondo, invece, di quel tanto di canonico da accettare comunque supinamente, e pure in funzione d’uno schema narrativo che si proponesse quale visione del mondo “nuova”, e d’implicita appendice alla “Nouvelle vague” francese, di appena qualche anno precedente (“Le beau Serge” di Claude Chabrol è del 1958; “Les Quatre Cents Coups” di François R. Truffaut, “A bout de souffle” di Jean-Luc Godard, e “Hiroshima mon amour” di Alain Resnais, tutti del 1959), o d’anticipo alla di poco successiva “New Hollywood” (“The Graduate” di Mike Nichols e “Gangster Story” di Arthur Penn, del 1967; “Easy Rider” di e con Dennis Hopper e “The Rain People” di Francis Ford Coppola, del 1969; “Five Easy Pieces” di Bob Rafelson, “Soldier Blue” di Ralph Nelson, e “M*A*S*H” di Robert Altman, del 1970).
Il cinema italiano di quegli anni che vanno dai ’60 ai ’70 è il risultato d’una serie di processi storici che hanno investito il nostro paese sin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e della conseguente, e inevitabile, influenza statunitense: il processo d’industrializzazione, l’emigrazione dal Sud al Nord, la perdita d’identità delle classi sociali, l’aumento dei consumi di massa, la maturazione d’una coscienza politica, la nascita d’un governo di sinistra, i nuovi modelli di vita, l’inedita distribuzione del tempo libero, il cambiamento dei comportamenti sessuali…
Un’analisi interrotta
Dopo circa un lustro dall’opera prima premiata a Venezia, De Seta offre di nuovo prova, questa volta, d'una delicata indagine psicologica in "Un uomo a metà" (1966); e non solo, forse, per aver vissuto un periodo di ricerca di impellenti nuove fonti di ispirazione, ma pure di malessere interiore, tant’è che la dedica va allo psicanalista junghiano Ernst Bernhard (1896-1965), il quale aveva avuto in analisi anche Federico Fellini: “Non nascondere le tue piaghe agli occhi tuoi e degli altri poiché verranno a cancrena e sarà la morte. Esponile piuttosto alla luce del sole e sarà la salute”.
In “Mitobiografia”, il medico ed esoterista berlinese avrebbe lasciato l’annotazione: «La nevrosi generale, in mezzo a cui siamo costretti a vivere, ci ha infettati e ci infetta continuamente. [...] Ciò che dovremmo fare sarebbe: riconoscere [...] che siamo malati, quindi isolamento, per sfuggire alle continue nuove infezioni e risanare interamente in solitudine. In questo tempo si dovrebbe anche acquistare una efficace immunità – una delimitazione, a modo di mandala, della personalità, che ci permetta una specie di continuo isolamento, nonostante il rinnovato rapporto col mondo nevrotico».
In "Un uomo a metà", De Seta abbandona gli spazi aperti delle isole e segue, dentro l’ambiente limitato e angusto d’una clinica per malattie mentali, la mera soggettività in quelle tracce d’una sempre più diffusa e serpeggiante nevrosi, tra il caratteriale e il generalizzato, e a metà strada tra ossessione edipica (ingombrante presenza d’una madre “fallica” – nella realtà la nobildonna socialite e collaborazionista Maria Elia - che gli predilige il fratello maggiore), assenza paterna e “complesso di Caino” (senso d’inferiorità nei confronti della figura altrettanto ingombrante del primogenito, che ha maggior fortuna con le ragazze, ma non viene mai chiamato per nome, come se fosse un’Ombra collettiva della famiglia incombente sulla stessa), tutte condizioni d’impedimento alla possibilità d’essere felici e precludenti la più piena e completa espressione dell’amore tra persone sane e concrete. La ferita narcisistica inferta dalle “sue” donne viene simboleggiata da strumenti affilati, come forbici, che alludono, oltre che alla tematica castrante, o a quella de “le roi magagne”, feconda di vitalità, alla nauseabonda cancrena d’un Filottete a Lemno, che lo sta conducendo verso un'irreversibile autodistruzione. L’incapacità d’avere rapporti equilibrati gli fa vivere in modo persecutorio ogni interessamento verso quella sofferenza senza temenos (τέμενος da τέμνω, tagliare), e tuttavia limitante. La “scena capitale” la rivive a ogni occasione nell'esperienza d’invidioso spettatore, geloso del rapporto sessuale tra la ragazza da lui amata e il proprio fratello. In quel frangente, come al presente, non si nasconde ma s’avvicina alla coppia in amore come rapito da un doloroso stupore scopofilico. E la regressione risulta talmente invadente da non fargli percepire la differenza temporale, e neppure quella tra le persone coinvolte allora e adesso, quando in presunti inseguimenti e scontri, quando in una caccia gratuita. Gli uccelli che precipitano sembrano una citazione quasi dello stato d’animo procurato da “The Birds” (1963) di Alfred Hitchcock.
Un po’ tutti i personaggi si pongono come doppio di qualcun’altro, sia per il ruolo che svolgono sia per una loro intrinseca configurazione psicologica: l’amico viene visto come il fratello, l’amata come la madre, e materna gli si offre la bambina; a protezione della propria porzione sana, la scissione interiore non solo è profonda, ma addirittura arcaica. In sintonia con questo malessere, evidente la suggestione delle immagini: il volto del protagonista viene spesso ripreso in primo piano, ma dal basso; in un'inquadratura compare attraverso i tasti della sua macchina da scrivere, che forma come una grata sullo schermo; oppure viene strettamente incorniciato e fortemente delimitato da linee scure, o compresso di lato dai rami dell’albero sul quale s’è rifugiato. L'effetto estetico che ne risulta simbolicamente rappresenta l'impossibilità d’avere un orizzonte adeguatamente ampio, in quanto soffocato dalla situazione complessuale, e ricorderebbe dei quadri astratti alla Kandinskij o Mondrian, in cui elementi paesaggistici, architettonici o geometrici circoscrivono pesantemente l’intero spazio. E questo in contraddizione con la citazione di C. G. Jung, dal «Commento al "Segreto del fiore d'oro"» con cui si chiude il film: «Ciò che prima dava origine a feroci conflitti e a paurose tempeste affettive, appare ora come una tempesta nella valle, vista dalla cima d’un'alta montagna. Non per questo la tempesta è meno reale, ma si è sopra, non dentro di essa»; la quale citazione semmai avrebbe avuto lo scopo di aiutare a elaborare quel lutto reale dell’autore, sopraggiunto nel frattempo per via della morte del suo analista.
Stavolta De Seta aveva potuto contare su un cast composto da attori professionisti; ciononostante, non bissa il precedente successo, sia di pubblico sia di critica (a Venezia, comunque, Jacques Perrin vinse la coppa Volpi), e si limita semplicemente a incassare la sincera stima e solidarietà di Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini. Del resto, è il periodo delle più celebri sperimentazioni stilistiche di Ingmar Bergman (“Persona” è dello stesso anno, 1966), successivo all’introversione felliniana di “8½” (1963). Un’indagine sulla psiche umana, ritraendola con campi stretti e scelte registiche a tratti claustrofobiche e concentrando le energie su un'unica personalità disturbata, difficilmente poteva reggere a un serrato confronto con i due capolavori coevi. Dalla psicanalisi Fellini era riuscito a estrarre con sublime grottesca leggerezza una rinnovata creatività, mentre De Seta era rimasto impigliato in argomentazioni prettamente autobiografiche che, come gli avevano nuociuto nella vita, si rivelarono altrettanto cervellotiche nell’opera cinematografica. Maggiori parallelismi sono forse riscontrabili con “Persona” di Ingmar Bergman per quei primissimi piani di volti inquadrati in modalità sfumata, a volte persino fuori fuoco, o in contrapposta asimmetria tra loro; entrambe le pellicole si soffermano sulla problematica dell’individualità, sia pur centrata in maniera differente, come profondamente diversi sono stati i due registi. Eppure, in alcune sequenze di quelle due opere dello stesso anno, il linguaggio delle immagini, oltre a mostrare impressionanti analogie, sembra convergere nel riuscire a cogliere la complessa essenzialità dei concetti che va a esprimere in chiave del tutto moderna.
L'ospite esistenzialista
Tre anni dopo, sull’onda lunga di quel cambiamento ormai dilagante e di provenienza d’oltralpe, decide di trasferirsi direttamente in Francia per girare, a colori, senza troppo mordente però, la storia intimistica d’una crisi coniugale: “L'invitée” (1969), nel cui cast si fronteggiano, di nuovo, Jacques Perrin con Michel Piccoli (già conteso da Godard - Le Mépris/Il Disprezzo -, Buñuel - Le journal d'une femme de chambre -, Ferreri - Dillinger è morto), Clotilde Joano (che aveva già lavorato con Claude Chabrol, ne Les bonnes femmes) e Joanna Shimkus (all’apice della carriera, dopo essere stata diretta da Joseph Losey in Boom!, tratto da The Milk Train Doesn't Stop Here Anymore di Tennessee Williams).
Una donna intuisce la tresca del marito e lo “contraccambia” facendosi ospitare da un amico, a sua volta ammogliato; e questa specularità riscoperta è sufficiente a risolvere il nodo del dilemma relazionale, e a riportare simmetria in quello che non sarebbe altro se non un banale triangolo amoroso; la visita alla Cappella di Le Corbusier a Ronchamp ha forse valore metaforico, visto che la funzione strutturale per l’edificio, nonostante le apparenze, non è svolta dai muri perimetrali che lasciano delle intercapedini luminaristes, equivalenti alle falle tra i legami affettivi delle coppie; le sculture appena abbozzate potrebbero dire qualcosa degli accenni a sentimenti che non trovano uno sviluppo definitivo. Ma oltre a non essere un troppo intricato scambio di tradimenti, l’esperienza francese di De Seta offre solo spunto alla riflessione sul perbenismo stantio della coppia borghese, su ipocrisie e pregiudizi radicati. Anche questo lavoro nasce stanco e non in sincrono con le opere affini: “Le margheritine” (Sedmikrásky) di Věra Chytilová è del 1966, Jules et Jim di François Truffaut del 1962, il bergmaniano “Sorrisi di una notte d'estate” (Sommarnattens leende) di ben 14 anni prima, “Partita a quattro” (Design for Living) di Ernst Lubitsch ancora precedente (1933).
Al ’43 risale il romanzo di Simone de Beauvoir che, alludendo alla relazione del compagno Jean-Paul Sartre con Olga Kosakiewicz (dal 1935 al 1937, e prima, dal 1934 al 1935, con la stessa autrice), cerca d’esplorare le concezioni conflittuali di libertà e risentimento, secondo l’ottica esistenzialista. Nel romanzo, la figura dell’ucraina viene fusa insieme con quella della sorella minore, Wanda, al fine di comporre un unico personaggio nell'amichetta Xavière, che va a formare il ménage à trois con l'attrice Françoise e il regista Pierre. Nella realtà, l’intreccio si rese ancora più contorto, per via d’un comune interessamento anche per Wanda da parte di Sartre e contemporaneamente di Camus, il che avrebbe costituito la vera causa della lite tra i due filosofi. Una relazione “aperta” è destinata ad andare in fibrillazione nel momento in cui si vengono a inserire ulteriori partner più giovani, e per giunta così contese.
Didattica di prossimità
Al di là della logica e connaturata polisemia d’una modalità di raccontare delle storie, e all’intrinseco valore descrittivo e di testimonianza d’un’epoca, la questione dello stile cinematografico riguarda anche e soprattutto la forza espressiva d’un’opera in sé, sia sull’eventuale versante sperimentale e quindi pertinente a scelte e pratiche realizzative, sia per quanto attiene la creatività dell’autore. Ed è allora che De Seta dimostra pure di saper padroneggiare lo sceneggiato televisivo a puntate, e non ancora consumisticamente seriale ("Diario di un maestro", 1973; mentre sarà meno felice l’inchiesta in quattro parti “Quando la scuola cambia” del lustro seguente).
La tradizione dichiaratamente, e smaccatamente, nazional-popolare della RAI di quegli anni, non incideva profondamente soltanto sull’informazione ingessata da un’intoccabile ufficialità, ma si rifletteva inevitabilmente pure sulla resa finale dei prodotti dello spettacolo d’intrattenimento. La sobria eleganza di allora è comunque andata irrimediabilmente perduta, forse quanto l’impegno serio alla divulgazione e a un disinteressato stimolo culturale non finalizzato a scopi pragmaticamente contestuali. Lo svago che l’evento televisivo avrebbe dovuto perseguire poteva forse da solo riscattare dalla rigida disciplina didattica, ancora avvoltolata negli inutili barocchismi d’un nozionismo accademico e dalle difficoltà esistenziali giornaliere, venendo financo incontro alle diversificate esigenze degli spettatori, in specie più giovani e sensibili?
Tratto dal libro autobiografico “Un anno a Pietralata” (1968) di Albino Bernardini, la trasposizione televisiva “Diario di un maestro”, divenne anche un segnale ‘politico’, tra i più comprensibili ed elementari, meno cerebrali, di quell’esigenza narrativa scaturita dagli scampoli dell’imprescindibile rivoluzione sessantottesca. Si può affermare persino che in quest’occasione, sperimentando un percorso non ancora solcato, se non a livello ipotetico, De Seta abbia contribuito a reinventare la comunicazione contemporanea sul piccolo schermo, elevando il senso del racconto e le finalità del mezzo a un livello molto più maturo.
Mantenendo il gusto del vero, non tradusse tout court la narrazione letteraria in uno dei soliti sceneggiati; non inseguì cioè la fiction, semmai la superò nel momento medesimo in cui la concepì come “cinema verità”; anzi, la prosecuzione al di là del suo naturale tempo storico (il ventennio che segna il passaggio dal cinema calligrafista di Soldati e Chiarini, attraverso il neorealismo rosa di Castellani e Comencini, alla Commedia all’italiana di Germi e Monicelli) di questo “neorealismo” ormai stagionato s’andò indirizzando verso quella poetica per immagini che già era stata definitivamente sancita dall’irrompere nella settima arte di PPP (“Accattone” è del 1961, stesso anno d’esordio di De Seta, “Mamma Roma” del 1962, “La Ricotta” 1963).
Il lavoro televisivo di De Seta s’era reso più organico, concedendosi solo un leggero lasciarsi fluttuare al ritmo stesso del respiro o d’un palpito, a volte più frequente altre meno, ma sempre in sintonia con tutto il contorno. È questa naturale affabulazione, umanamente commovente nell’esposizione dei sentimenti più lineari, a rendere la cifra stilistica di De Seta, e dove maggiormente insiste quell’impegno, meramente ed etimologicamente, ‘politico’, mai trascurato, neppure nella conferma d’una prospettiva propedeutica di guida culturale da innestare sulla didattica. E proprio questa sua didattica coincide con quella che prova a fornire risposte pratiche e sociali agli allievi, invitandoli a farsi protagonisti dell’apprendimento, non più suddiviso in chi sta di qua e insegna e chi di là deve imparare, ma immerso nell’attualità della vita d’ogni giorno, e di chiunque. Il regista segue il maestro in quest’operazione di rivoluzionaria inversione educativa e si comporta in modo che sia la vera scena a farsi racconto ed, escludendo la rappresentazione credibile spinge alla diretta e immediata induzione della verità. Sta proprio in questo ricercato effetto la forza espressiva delle immagini, con l’insistenza sui primi piani e i movimenti di macchina che, all’interno della classe, si fanno quasi abbracciare dalle pareti dell’aula, accompagnate da una scrittura autentica in sintonia con la realtà descritta di volta in volta, nel raccogliere debolezze, riconoscere bisogni, e relazionarsi con abbandoni di quanti sono vittime delle ghettizzazioni, a volte ingenue altre volte sfrontate e indispettite.
A distanza di più di trent’anni, nel 2008, l’esemplare lezione di De Seta viene seguita da Laurent Cantet, in “Entre les murs”, tratto dal diario d’un insegnante di francese in una scuola media della periferia parigina, il professor François Bégaudeau (co-sceneggiatore e interprete).
L’epistolario di Kurtz
All’indiscusso successo del 1973, che aveva dimostrato come il basso costo d’una produzione potesse coincidere con un elevato valore sociale e comunicativo, segue un periodo, un po’ sotto tono, in cui De Seta continua a realizzare per la televisione quei documentari (tra cui “La Sicilia rivisitata”, “Hong Kong, città di profughi”, 1980; “Un carnevale per Venezia”, 1983) che sono sempre stati la sua costante e più sincera dimensione operativa, e non di solo “mestiere”. Il corto “Mano” risale al 2000, quello dedicato all’antropologo e poeta Antonino Uccello è del 2003.
L’ultimo cortometraggio è del 2008: “Articolo 23- Pentedattilo”, qualche anno dopo aver lasciato, in “Lettere dal Sahara” (2004), quell’amara considerazione d’una qualche etnografia comparata che addita, quale unica possibile vera integrazione per gli immigrati, il saper rinunciare alla cultura di provenienza. Esemplari sono i pregiudizi nutriti all’estero su quello che si considera un eccesso di emancipazione da parte d’una cugina indossatrice e la sommaria sentenza consolatoria al rientro in Senegal: “Ma noi non siamo inferiori... siamo diversi nel modo di sentire, di vivere e non vogliamo diventare come loro (come i bianchi)”. Restando in sospeso tra due concezioni opposte dell'esistenza, dove val la pena di far propendere la propria identità, col rischio però di perdere radici e fede religiosa?
Superati gli ottant’anni, l’impegno politico di De Seta non sembra affatto mutato, sono però completamente diversi i tempi (il primo film aderente al manifesto Dogma 95, Festen di Thomas Vinterberg, risale a sei anni prima, come L’assedio di Bernardo Bertolucci; Lamerica di Gianni Amelio è del 1994, La nera di... con cui Ousmane Sembène inaugurò il cinema senegalese del 1966, Moi, un noir di Jean Rouch risale addirittura al 1958); e la sceneggiatura è come se questo cambiamento non solo non lo percepisse, ma neanche riuscisse minimamente a elaborarlo, almeno in parte. La vittima delle discriminazioni non può essere inquadrata nell’ottica della retorica manichea del buonismo acritico. La primitivista nostalgia per il “buon selvaggio” stride con l’adusa dimestichezza alle tecnologie più avanzate; e il terzo millennio non lascia spazio all’abuso d’un ormai didascalismo d’antan, a cui applicare schemi moraleggianti fin troppo abusati; l’integrazione è cosa molto complessa e richiede sforzi da entrambe le parti degli eventuali contraenti un patto di solidarietà da stipulare durante la “navigazione” su una stessa barca, che rischia di fare affondare tutti, chi prima (i poveri immigrati che affrontano il rischio forse consapevolmente), chi dopo (e nostro malgrado, anche perché coscienti d’una reale impotenza).
“Lettere dal Sahara” fu il titolo d’un libro in cui Alberto Moravia, nel 1981, raccolse i suoi reportages giornalistici sull’Africa Nera, alla ricerca di riscontri letterari conradiani (Heart of Darkness, 1899) e di suggestioni estetico-contemplative alla Gauguin, senza trascurare annotazioni di tipo socio-antropologico.
Il cosiddetto cinéma vérité d’origine etnografica, sviluppato da Jean Rouch (“Les Maïtres fous”, 1955), che aveva fortemente influenzato la Nouvelle Vague, proponeva l’incrocio tra lo sguardo dell'osservato e quello dell'osservatore, al fine di far emergere, per mezzo del supporto filmico, una terza voce mediatrice tra le due realtà dell'incontro, che comunque non annulla l'autore qualora si faccia proponente d’una sua personale lettura dei fatti e della loro narrazione. Ma, adesso, non è più sufficiente citare Majakovskij e dichiarare di credere fermamente nella "funzione" sociale (leggi pure: saccente) del cinema e della televisione, maritando la passione di questa civile e sbandierata declamazione con il realismo delle immagini girate in Africa di puro afflato spirituale, che facciano da controcanto ad ambienti sofisticatamente moderni e occidentalmente smaliziati.
Una risposta al dilemma sembra sia stata parzialmente abbozzata, tredici anni dopo, da Jonas Carpignano, in “A Ciambra”, dove lo sguardo esterno su una comunità rom “stanziale”, che privilegia la bieca determinazione malavitosa della ‘ndrangheta locale, pur restando a stretto contatto con immigrati africani, genericamente e indistintamente classificati “marocchini”, si mantiene lucido e freddo, escludendo dalla narrazione i facili sofismi d’una partigianeria piagnona.
Chi resta è perduto!
Lo stile neorealista, in cui è rimasto incontrovertibilmente insuperato, anche in chiave “aristocratica” (e in senso altamente positivo), è quello in cui De Seta s’è soffermato a inquadrare la vita quotidiana di piccole realtà agropastorali. Bastino i due classici, con cui s’è occupato di Alessandria del Carretto, nel Parco nazionale del Pollino, e l’altro (“In Calabria”), quando già la migliore produzione televisiva della RAI appariva inesorabilmente in forte declino.
Il primo cortometraggio, soltanto 20 minuti, ma di quanto potremmo definire un vero e proprio “reportage narrativo” (“I dimenticati”, del 1959), riguarda un piccolissimo comune della provincia di Cosenza, in tal modo immortalato a futura memoria, e drammaticamente ne rivela un impensabile, al giorno d’oggi, totale isolamento, privo infatti, com’era allora, d’una strada d’accesso al paese e di comunicazione con quelli più vicini, tanto che ci pare possa essere stato, almeno in qualche tratto, d’ispirazione per l’Africo descritto da Pietro Criaco (“Via dall'Aspromonte”, 2017), abbarbicato sulle montagne, nel più recente “Aspromonte terra degli ultimi” (2019) del polistenese Mimmo Calopresti.
Non più sforzo d’una difficile “restanza”, bensì premonitore d’un exodus impulsivo, ancora incontrastato, se non dal sollecito a cercare un posto “bello dove morire”, o da una tuttora irrisolta questione meridionale, appena sfiorata dai vari Salvemini e Zanotti Bianco, e forse man mano sempre più trascurata, lo slancio ad aprirsi una strada per andarsene via, senza comunque più fare ritorno, si rivela, nelle parole messe in bocca al personaggio interpretato da Marcello Fonte, una sorta di richiesta simbolica, non tanto d’un qualche riscatto, quanto d’un’opportunità, per chi “non ha altro” a cui appigliarsi, se non la poesia, visto che la bellezza da sola non s’è rivelata sufficientemente salvifica, né per le persone, né per le cose che vi rimangono, per lo più come avanzi e rifiuti.
Una volta giunto faticosamente sul posto (Alessandria del Carretto del 1959), a De Seta fu raccontata l'esistenza della "Festa dell'abete" (Pitë), ch’egli, rimastone affascinato, documentò per intero; così come, a distanza di oltre cinquant’anni, avrebbe fatto Michelangelo Frammartino (da Milano, ma di genitori cauloniesi), in uno degli episodi del suo secondo lungometraggio, “Le Quattro volte” (2010), dove la sintassi cinematografica si trasforma addirittura in puro lirismo metafisico.
Per una sorta d’imperscrutabile karma, or sono più di due lustri, la prova di Frammartino fu presentata a Cannes, dove la palma d’oro venne assegnata a “Lo zio Boonme che si ricorda le vite precedenti”, in cui anche il sopravvalutato thailandese Apichatpong Weerasethakul rifletteva sul ruolo dell'uomo all'interno d’un universo composto da animali e da altri elementi della natura. Entrambi i film affrontano il tema della metempsicosi, ripercorrendo il viaggio della vita attraverso un filo conduttore unico tra ciò che è, ciò che è stato e lo sprazzo di sbiadite immagini d’un racconto che non può essere mostrato continuare altrimenti.
La propedeuticità degli umili
Come il personaggio di Bruno D’Angelo, nel “Diario d'un maestro”, il quale va acquisendo saggezza dagli scugnizzi che non rispettano l’obbligo scolastico, De Seta rimase pur sempre un “fanciullino” che volle fino all’ultimo imparare a insegnare. “In Calabria” (1993) andrebbe quindi definito come il suo più doloroso diario intimo, per chi questa regione l’aveva eletta, oltre che a psicoterapeutico trattamento, innanzitutto a difesa, da quella contagiosa malattia che il cinema gli aveva trasmesso e dalla quale non sapeva come altrimenti proteggersi.
La committenza del piccolo schermo poneva un falso problema, quello della didattica pseudo-propedeutica dell’immagine nuda e cruda, inaccettabile dunque, da far arrivare a un pubblico “nazional-popolare” (leggi pure: addomesticato), senza l’assordante ricorso a tanta musica in grado d’ottenebrare l’ingenuità delle menti sprovvedute e a quegli sproloqui di fin troppe parole sciorinatevi di sopra. De Seta non s’è mai sentito obbligato a dei doveri convenzionali nei confronti di alcuno, ma neppure assunse in nessuna circostanza l’atteggiamento del regista consacrato dalla critica, anzi andava ancora in età matura in cerca di lezioni, richiedeva che gli venissero segnalati eventuali errori, e uno grave riteneva fosse proprio quell’improvvido commento fuori campo a fornire un ausilio non richiesto a spiegazioni d’una sincerità di inquadrature, a volte scambiate quasi per l’usurpazione di intimità inviolabili da parte d’un alieno invasore.
A dimostrarsi assoluta protagonista di “In Calabria” sembra essere così un’assenza, quella cioè della speranza delusa dalle promesse di modernizzazione. I ritmi rispettosi dei tempi legati alle stagioni hanno purtroppo ugualmente subìto l’impatto d’un’industrializzazione forzata e selvaggia, e pertanto non certo foriera di sviluppo economico, ma inevitabilmente fonte di degrado ambientale e bruta criminalità. Invece d’alleviare le fatiche degli uomini, la tecnologia s’è rivelata controproducente, limitandosi, come – non sappiamo quanto inaspettatamente - in effetti ha fatto, a formare loro attorno un profondo vuoto culturale e morale.
Quella stessa fatiscenza, che impregna un’intera comunità meridionale, la provincia reggina, divisa tra arcaici retaggi e ansie di consumistica modernità, respirata in “Corpo celeste” (2011) di Alice Rohrwacher (fiesolana, di padre tedesco), anch’ella al suo debutto registico. Un catechismo deprivato di qualsiasi valore spirituale s’alterna anacronisticamente alle fatue aspirazioni a provini e “saggi di danza” organizzati per “piccole donne”, ancora per poco, innocenti (cresceranno!) destinate ad ambire alla spregiudicatezza (di varie coreografiche veline, letterine, vallette, più delle parodistiche ragazze coccodè), sull’ispirazione della peggiore televisione commerciale degli ultimi decenni. E qui lo spopolamento di Africo vecchio appare piuttosto come un’àncora di salvezza.
Un lascito ereditario parziale
A metà strada tra il “Diario d’un maestro” del primo canale della Rai, e la svolta innovativa rappresentata dalla trasposizione cinematografica del racconto breve di Cesare Giulio Viola, “Pricò” (1928, poi “I bambini ci guardano”, 1943) o del romanzo di Luigi Bartolini (“Ladri di biciclette”, 1946; mentre il film è di due anni dopo) da parte d’un De Sica, dapprima anticipatore, e poi classica conferma del neorealismo, il quarto lungometraggio, "Il ladro di bambini" (1992), del magisanese (nativo di San Pietro Magisano, in provincia di Catanzaro) Gianni Amelio, già operatore e aiuto di Vittorio De Seta, è la descrizione d'un viaggio attraverso la penisola da parte dei piccoli Valentina e Giuseppe, con lo spaccato d’una sofferta pausa nell’estremo lembo dello stivale, prima d’attraversare lo stretto, e giusto dove, trentotto anni prima, lo stesso De Seta s’era soffermato su “Lu tempu di li pisci spata” (1954), ancor prima di “Isole di fuoco” (dello stesso anno), incontrando fortuitamente le simpatie degli etnomusicologi Alan Lomax e Diego Carpitella, intenti a raccogliere sul campo le testimonianze sonore della nostra terra, per molti altri versi, non solo solitaria, ma pure tanto silenziosa da dimostrarsi addirittura fragorosamente muta.
Bibliografia essenziale:
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Ierace G. M. S. La vita segreta dei colori, https://calabriapost.net/libri/la-vita-segreta-dei-colori-storie-di-passione-arte-e-altre-sfumature
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Sadoul G. Histoire du Cinema Mondial, des Origines à nos Jours, Flammarion, Paris 1966
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