Il cantante cosentino all’ABARC con Giacomo Triglia per parlare di musica e immagini
Un sodalizio artistico e un’amicizia di lungo corso, il legame tra il regista Giacomo Triglia e il cantante Dario Brunori, in arte Brunori sas. Due carriere in parallelo, iniziate sulla scena indie della musica italiana, il primo come regista di videoclip, il secondo come cantautore, oggi due artisti affermati e riconosciuti. Lo scorso 23 maggio, Brunori è stato ospite dell’Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria, dove Triglia insegna “Tecniche di ripresa”, in un seminario dal titolo “Musica e immagini in movimento”.
Con grande complicità, hanno tenuto una lunga e partecipata conversazione - senza pause - con gli allievi, a partire dal lavoro compiuto insieme. Nel cinema, la musica può assumere il ruolo del “gorilla” - l’espediente fantasioso che spiazza lo spettatore -, può ribaltare l’atmosfera di una scena, anziché semplicemente accompagnarla. Così il videoclip può usare le immagini in maniera non didascalica rispetto alla canzone, per attraversare direzioni diverse e posizionarsi poi sullo stesso orizzonte di senso.
È il caso particolare di due dei video presentati, due brani iconici del repertorio brunoriano, entrambi firmati dalla regia di Triglia. “Come stai”, 2009, è stato realizzato all’inizio della carriera a costo zero. Semplice, pochi mezzi, dal sapore vintage: il cantante in bicicletta, strade e spiagge deserte, un pallone, una statuina di Padre Pio dissotterrata dalla sabbia. “Un video che - precisano - voleva muoversi sui canoni dell’ironia, non prendersi troppo sul serio”, ma che invece pennella l’amarezza del brano e del lutto che lo ha ispirato, e soprattutto in una ripresa - che in questa occasione scopriamo essere stata casuale: il protagonista dietro a un bancone, che guarda in camera e non lo sa, il suo completo scuro e uno smarrimento non mascherato. Il secondo, “La verità”, 2017, testo consacrazione di Brunori, in cui la storia inaspettata è volutamente staccata dal brano, un breve film forse a lieto fine o forse no, che lascia intatto il taglio esistenziale del testo, e che vince il Premio PIVI come miglior videoclip indipendente dell’anno.
Dalle prime produzioni a bassissimo o nessun budget - “Guardia ’82”, “Rosa” - realizzate nei luoghi di infanzia, con amici e parenti in vena di giocare, ne è passato di tempo. Il successo è dato, la critica e il pubblico sono d’accordo per una volta, e gli artisti possono dirsi soddisfatti… Oppure no?
Cosa rende oggi un artista tale? Quanto pesa l’uso della strumentazione digitale, “nell’epoca della riproducibilità tecnica”? Quanto dirsi ancora genuini? In un consesso accademico, tra docenti e aspiranti artisti, non sono domande da poco.
Occorre assecondare il pubblico, evitare le polemiche in nome del politicamente corretto, anche con una forma di autocensura? Raccontano il caso di un altro videoclip mai pubblicato – quello di “Lamezia- Milano”, con l’attore Neri Marcorè - che metteva in scena un attentato dinamitardo in aeroporto, cassato per la vicinanza temporale a un grave episodio terroristico, e quindi considerato inopportuno al momento.
La genuinità, la simpatia, l’ironia corrono nelle canzoni e nei video del cantante e sono le caratteristiche di un autore che non teme di esporsi con onestà intellettuale, anche in un’aula universitaria. Conosciamo un Brunori dalle atmosfere malinconiche e interrogative, date proprio da racconti di vita minima, che attinge al paese, alla famiglia, agli affetti, anche ai lutti. Un Darione dalla fedele parlata cosentina, che mantiene solidamente anche in tv e radio. Che vuole essere “popolare”, cercando anche la risata e la simpatia del pubblico con bonaria ironia, ma non manca di farsi più pungente, a svelare che l’altra faccia della genuinità non sempre fa rima con semplicità.
“Non è facile tenere a bada le sovrastrutture che si creano, quando si cresce, considerando che quelle sovrastrutture sono frutto di un percorso indispensabile”, riferendosi all’uso degli strumenti tecnologici, ma non solo. Se la tecnologia serve a togliere il senso d’inadeguatezza, l’essere popolari, ottenere il riconoscimento generale, anche? C’è una magia nella paura di sbagliare, dice, è la magia degli esordi, ma anche quella del limite: avere poche risorse, poche certezze, sentire su di sé il peso dell’imperfezione. Che chi cresce a sud, nei piccoli paesi, nelle periferie, conosce benissimo. “C’è un valore nell’essere periferici. Ma non basta. Sentire il limite su di sé per convincersi a superarlo. Al sud abbiamo interiorizzato una cultura della subalternità e questo può portare al vittimismo o a un malinteso senso di superiorità altrettanto dannoso. Ma è il contesto che ci ha formati - sottolinea in chiusura -, che diventa il principio della scrittura, che dà la possibilità alla forma d’arte”.
Il contesto con i suoi limiti, le sue imperfezioni. Il contesto che si deve rompere, per scrollarsi di dosso anche tutti i sedimenti della propria storia. La rottura – afferma il cantante – è arrivata con l’album “A casa tutto bene”, 2017. Irrompe sulle radio nazionali il brano del disvelamento: c’è un “pazzo” che canta “La verità”, proprio quella amara, di tutti i fraintendimenti più intimi, tra il sé e il sé, le verità inconfessabili delle rinunce e piccole miserie. In questo disco ci sono canzoni che graffiano, profonde e pensose, che non cercano la facilità e arrivano al grande pubblico: “L’uomo nero”, la canzone politica che prende posizione, con cui ha vinto il Premio Amnesty International 2018; e la murder ballad “Un colpo di pistola”, il punto di vista dell’assassino, del violento, scorretta, disturbante nel rendere “vicina” anche quella “parte sbagliata”.
Sono canzoni “vere”, grimaldelli pesanti che rompono il muro, quello personale prima di tutto, o “canzoni contro la paura”, per riprendere un altro brano-manifesto, che si possono permettere di essere semplicemente consolatorie.
Emerge alla fine di questo incontro uno spiraglio di senso: superando la vecchia diatriba tra l’essere elitario o popolare, forse il compito del vero artista, del vero poeta, è regalare uno sguardo oltre, non addomesticato al gusto dei più, ma neanche necessariamente contro; cercare un altro modo di parlare con gli altri, di narrare verità imperfette e anche brutte - per non farci morire a causa di esse, direbbe Nietzsche; e lasciarci credere che, al di là dei linguaggi decodificati e dei canoni, comprendersi è ancora possibile.
Chi lo ha detto che una verità non si raggiunga dalla spiaggia di Guardia Piemontese, da un’inquadratura casuale, dal limite di nascere a sud? Fare di quella piccola o grande imperfezione un’arte, questa poi sì che diventa una magia.