Domenica, 01 Ottobre 2023

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CARA CULTURA, DI CHI SEI DAVVERO?

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Quel diritto costituzionale alla cultura, arrivato tra capo e collo dopo bui anni di Istituto LUCE, ha chiarito come la stessa debba somigliare al soddisfacimento dei bisogni primari. La cultura è entrata nelle case di chiunque grazie alla cautela e al garbo dei grandi professionisti del mestiere; diventando pane dell’anima. Mia madre non ha potuto studiare, la guerra aveva depositato addosso di tutti l’incubo della fame e da bambini toccava lavorare per salvarsi dai danni della vita. Eppure mi parlava del suo Ulisse come amore esclusivo, forsennato. Ha pianto per Verga, tremato per Cronin, sospirato per Stevenson. Le contavo i sussulti del cuore mentre le dormivo addosso quando Don Giovanni incontrava la statua parlante, le chiedevo perché Persefone non avesse abbracciato la sua mamma così forte, tanto da nascondersi da Ade. Lei mi diceva che a volte le cose vanno come devono andare. Mia madre non ha potuto studiare, eppure conosceva Oblomov, il Conte di Montecristo e Salgari. Ha lasciato pezzi di cuore dietro Albertazzi e Corrado Pani che recitavano in diretta; gesti e voci che televisione e radio RAI passavano con semplicità.

Oggi l’onda lunga degli anni ’90 ci fa svegliare dentro una minaccia diventata realtà: la normalizzazione di una sfera chiassosa fintamente creativa in cui, nei luoghi sacri di cultura, si mescola palcoscenico e platea, professionismo e dilettantismo, attori e spettatori. Naturalmente il pericolo che il pur necessario intrattenimento venga scambiato con la cultura e percepito come crescita è concreto. Andiamo a teatro, leggiamo libri, ascoltiamo musica e ci basta questo. Non pretendiamo più il meglio sfamando le nostre anime con la miseria da quattro soldi di basso intrattenimento; paghiamo ticket, compriamo libri senza pretendere qualità, senza chiederci paradossalmente chi è che ci sta sfamando; come se – parimenti – pagassimo il biglietto per assistere alla partita di calcetto del venerdì sera dei nostri amici convinti di assistere ai Mondiali ‛82. Ma il vicino di casa non è Dino Zoff e quel nostro amico, per quanto bravino a crossare, ecco: di Cabrini non ha questo granché. Ché a Cabrini poi, coi suoi anni di lavoro, sangue e fatica, perdoni anche un rigore sbagliato.

Ma il teatro, l’anfiteatro, l’auditorium, la biblioteca, il cinema, non sono che luoghi vacanti. Spettri di cemento. Il teatro non lo fa il palcoscenico. Al contrario: sono la ricerca, il professionismo, la passione smodata di significanze e archetipi a fare il luogo. Un attore, un performer, un musicista, se si esibisce in un marciapiede, sui gradini di periferia, in un anfratto muffito, ecco che come in una magia primitiva genera il Teatro, lo partorisce con la sua pelle, con il suo sangue, con i pezzetti di anima che ha sbattuto per anni dentro le soffitte, tra le pagine di libri ingialliti dal tempo, nella saletta prove da tremila lire l’ora, respirandone la polvere e scegliendo ancora, per ogni sera, davanti a un cartoccio freddo da mangiare, la stessa identica vita. Pagando lo stesso feroce scotto. Ricominciando il suo cammino, senza tregua, per seminare quelle ridicole briciole lucenti per il bosco sperando – prima o poi – di ritrovare la strada di casa. Questa è la cultura che sfama, che bramiamo, che le nostre gole chiedono ormai quasi senza voce. E l’ospitata di un mattatore sul palco non è altro che show.


 

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