Il dibattito relativo all’Italian Thought, o Theory (dall’eredità gramsciana al pensiero “debole” di Vattimo e Rovatti), e in particolare all’Agamben Effect (Alison Ross), si dipana su assi focali la cui tematica eterogeneità appare paradigmatica, ma se dalla sua dimensione “storica” si dovesse enucleare un qualche comun denominatore esso sarebbe prossimo alla categoria dicotomica agambeniana “vita/politica”, per cui il ripensamento del concetto di “rivista” proposto in senso esteso, come “qualcosa di diverso da una realtà fisica”, al di là dei possibili dibattiti interni ed esterni che se ne potrebbero sviluppare, s’avvicinerebbe di più all’idea moderna d’una «cassetta degli attrezzi» (Enrica Lisciani-Petrini) e, soprattutto, d’un «modo di pensare» analitico, che approfondisca costruttivamente, rivolgendo nel contempo lo sguardo a un orizzonte teorico chiaramente definito di ricerche “nuove” che non trascurino però le peculiarità tradizionali. Tutto ebbe inizio con un progetto predisposto, quasi mezzo secolo fa, in una corrispondenza tra amici (Calvino e Rugafiori), e oggi rinnovato e ampliato dal filosofo dell’Homo sacer e dello “stato d’eccezione”, per le edizioni Quodlibet di Macerata: “Categorie italiane”.
Il concetto che le conseguenze dell’agire, a cui s’è dato seguito, siano, per lo più, imponderabilmente indipendenti dall’originaria intenzione dell’agente, Hegel lo sintetizzò con il detto di Schiller secondo cui “Der Stein der aus der Hand geworfen wird ist des Teufels” (Lineamenti di filosofia del diritto 1820, Grundlinien der Philosophie des Rechts, Sect. 119°; traducendo un po’ liberamente: del sasso sfuggito alla mano se ne appropria il diavolo; lo ricorda Luciano De Fiore a pag. 64 de “La Città deserta – Leggendo il Sapere assoluto nella Fenomenologia dello Spirito di Hegel”, 2012). Il che equivarrebbe a dire: sporcare con la prassi una qualsivoglia teoria avrebbe l’immediato effetto, quanto meno, di contingentarla, influenzandone, forse irrimediabilmente, l’esito finale.
Jean Paul (Richter)
Sulla stessa falsariga la citazione da Jean Paul (Richter): “Bücher sind nur dickere Briefe an Freunde; Briefe sind nur dünnere Bücher für die Welt” (I libri sono solo delle lettere un po’ più consistenti inviate agli amici; le lettere, libri più spicci per il mondo), inserita da Peter Sloterdijk nelle “Regeln für den Menschenpark” (Regole per il parco umano, 1997), dove l’immagine della filosofia la si ricostruisce quasi fosse un’ideale République des lettres transculturale, transregionale, e pure trans-storica, proprio perché in essa ciascun lettore diviene destinatario d’un testo (o richterianamente un’epistola) scritto per lui chissà quando, chissà dove, chissà perché, e forse pure inconsapevolmente.
“Messages in a bottle”
Avviene così anche per i “messages in a bottle”, ovvero per le ceneri dei propri cari defunti sparse in un ultimo viaggio, o per le targhe dei veicoli lanciati nello spazio interstellare, o ancora per le capsule del tempo, che, al di là del tema letterario di opere quali quelle di Edgar Allan Poe (MS. Found in a Bottle, 1833), di Charles Dickens (A Message from the Sea, 1860), o di Jules Verne (Les Enfants du capitaine Grant: voyage autour du monde, 1867), hanno contribuito ad alimentare in merito una sorta di passionale romanticismo popolare.
Tradurre/tradire
Le missive indirizzate a sconosciuti, stranieri, ed estranei dal punto di vista culturale, lontani dal punto di vista geografico, nonché storicamente improbabili, qualora fossero effettivamente lette, fino a che punto sarebbero pure comprese nell’originalità del loro contenuto?
Quello dell’interpretazione differente dall’intenzionale stesura pianificata d’un testo è un argomento linguistico che assilla i traduttori, per i quali costituisce una basilare operazione costitutiva del loro principale intervento d’intermediazione, corrispondente allo sforzo di non tradire le aspettative di entrambi gli agenti del testo, autori e interlocutori.
Il grado di confidenzialità
Nel caso dell’intervento critico, lo sforzo sarà indirizzato a leggere “tra” le righe, “oltre” di esse e le medesime perfino “ex negativo” (ovverossia, il cosa non è o cosa s’esclude), senza contare il grado di confidenzialità da attribuire al termine richteriano di “Freunde”, nel quale andranno a confluire aspetti armonici di disponibilità alla collaborazione, così come caratteristiche comportamentali personali di cordialità ed empatia, e giammai tratti di competitività, insensibilità, narcisismo e tendenza alla manipolazione fino allo sfruttamento degli altri.
Una “triade oscura”
Ci viene il sospetto che forse Jean Paul sovrastimasse la condizione degli scrittori di “Bücher” ed estensori d’epistole (Briefe), quanto quella dei “Freunde”, intesi questi ultimi quali persone con cui intrattenere e mantenere un affiatato rapporto d’intesa o di stima. Un’insinuante diffidenza, sufficientemente giustificata, oltre che dalla litigiosità, da una generale diffusione d’egoismo, orgoglio, e machiavellismo, - questa “triade oscura” predittiva d’uno stile relazionale interpersonale ai limiti dell’asocialità, - tra vanitosi grafomani e vanesi glossolalici, vanagloriosi scrivani autistici e scriteriati declamatori compulsivi, potrebbe far saltare il banco di tale ludica metafora giocata tutta sul “nur dickere” (soltanto più spesso) e il “nur dünnere” (solamente più sottile), rispettivamente di “Bücher” e “Briefe”.
“Piccoli omicidi tra amici”
“Piccoli omicidi tra amici” è il titolo italiano dell’esordio cinematografico (1994) di Danny Boyle, basato sulla sceneggiatura “Shallow Grave” (Tomba poco profonda) di John Hodge, ispirata al dodicesimo racconto di Chaucer: “The Pardoner’s Tale” (analogo a La Colomba - il ricco mercante di Sindah e i due truffatori - della centocinquantaduesima de “Le mille e una notte”, come pure a un precedente toscano poi inglobato tra “Le ciento novelle antiche”). Durante la pestilenza, tre avvinazzati si mettono in cerca di… Morte, che ha ucciso un loro compagno; vengono a sapere di poterla trovare senz’altro sotto un certo albero, dove scoprono pure un tesoro, che programmano di rimuovere con il favore delle tenebre; mentre uno dei tre provvede a recuperare di che bere e mangiare, gli altri due complottano di sbarazzarsi di lui; e così fanno, senza sospettare che quest’ultimo, mosso da eguale intento delittuoso nei loro riguardi, aveva loro offerto del vino avvelenato. Alla fine tutti han trovato ciò che cercavano!
L’ermeneutica
Intervistato da Antonio Lucci (per «Doppiozero», 29/11/2018) Giorgio Agamben ha rilasciato la considerazione di sapore ermeneutico: «Se dovessi fare una raccomandazione ai giovani studiosi, sarebbe proprio di non cercare a ogni costo l’originalità, ma di applicarsi piuttosto a raccogliere e a continuare ciò che negli autori che amano è rimasto incompiuto o non detto».
Comunicazione non verbale
Allo scopo di interpretare, il leggere “tra”, “oltre” ed ex negativo, equivale a focalizzare gli “irrisolti” (spesso irrisolvibili) degli autori, le loro (paradossalmente cruciali) impasses, e quei “non detti” (impliciti, o sconcertanti di fronte all'inesprimibile), onde renderli significativi, anche al di là dell’iniziale intenzione dialogante degli, a volte (e quanto?) inconsapevoli, estensori agli attuali interlocutori, che, in circostanze diverse, avrebbero invece meglio potuto comunicare per il tramite d’una componente non verbale altrettanto espressiva, persino in un semplice cenno di saluto, in un faccia a faccia, dove ci si può guardare negli occhi e cogliere dalle espressioni del viso il pensiero di chi parla o ascolta.
Non si riesce mai a mantenere un segreto troppo a lungo
“What Do You Say After You Say Hello?” era la domanda sulla quale Eric Berne impostava la sua analisi transazionale. Tuttavia, al di là della convinzione freudiana che nessuno sia capace di mantenere un segreto troppo a lungo, è spesso il turpiloquio, mascherato da imprecazione sospensiva, a costituire una forma di reticenza, o aposiopesi (da ἀποσιωπάω, taccio), che, pur necessitando d’un completamento, lascia intendere un seguito più o meno esprimibile nell’inespresso, stimolando così l'immaginazione del lettore. Mentre il sottinteso è un’ellissi, od omissione, che non inficia il senso compiuto della frase, così come il tema sospeso dell’anacoluto (da ἀν- senza e ἀκόλουϑος seguito), irrispettoso della coesione sintattica, potrebbe semplicemente rientrare tra gli strumenti di ricerca di icasticità o di mimesi del parlato, alla stregua della paralipsi (da παραλείπω, tralascio) che finge di non voler dar risalto a un’informazione. Il sottotesto invece è un codice che potrebbe restare latente, pur nella sua potenzialità comunicativa, o viceversa ambiguamente equivoco sin dal principio.
Elementi culturali e storico-geografici possono incidere pesantemente sulla ricezione dei testi, sulla loro eventuale decontestualizzazione, sul loro reimpiego e sugli abusi subiti nell’utilizzo più o meno appropriato che se ne fa, con mistificazioni, sofisticazioni e falsificazioni di contorno, anche al di dentro di improvvisate categorizzazioni, come di raggruppamenti canonici.
In “Categorie italiane della filosofia - Sul posizionamento teoretico di Giorgio Agamben nel canone del pensiero italiano contemporaneo” (2019), Antonio Lucci ha provato a individuare la risposta che, nell’ambito del pensiero contemporaneo, potrebbe essere stata scritta alla “lettera” inviata da Giorgio Agamben a Italo Calvino e a Claudio Rugafiori, con il titolo “Programma per una Rivista” (1978).
“Guido, i' vorrei che tu e Lapo ed io…”
Il tema del viaggio da intraprendere con amici in una sorta di fuga dalla realtà, attraverso quell’«incantamento» del secondo verso, è subordinato al primo verbo al condizionale (i' vorrei) che sostiene la sottostante costruzione ipotattica (da ὑπόταξις «ipotassi»), alla quale, preceduto dall’anaforica ripetizione della congiunzione, si contrappone un successivo coordinato andamento paratattico (da παρά, accanto e τάξις, disposizione).
Six Memos for the Next Millennium
Anche se di Lapo Gianni non si conosce la composizione di riferimento, a Dante Cavalcanti rispose col sonetto “S'io fosse quelli che d'amor fu degno”. Per il “Programma” di Agamben, forse Calvino assunse un contegno troppo accademico con quei “Six Memos for the Next Millennium”, preparati in vista del ciclo di discorsi da tenere all'Università di Harvard, nell'ambito delle prestigiose Charles Eliot Norton Poetry Lectures, per l'anno accademico successivo alla sua prematura dipartita (“Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio”, 1988).
(In-)coerenza?
Sottolineando l'importanza del ritmo, anche nelle narrazioni in prosa, Calvino prediligeva i testi brevi, convinto della funzione della scrittura come sistema di controllo. «Chi è ciascuno di noi se non una combinatoria di esperienze, di informazioni, di letture, di immaginazioni? Ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario di oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili».
Alla base della letteratura poneva dei valori, dalla leggerezza, giudicata gerarchicamente più importante, alla coerenza, che non fece in tempo a completare e neppure ad articolare per bene, visto che la prima definizione anglosassone sarebbe stata “Openness” (accessibilità, accettazione immediata, mancanza di restrizioni e di segretezza), però «da intendersi non come "franchezza", bensì [proprio] nel senso di apertura, proporzione spaziale tra uomo e mondo», una qualità quasi “paesaggistica”. Questo titolo fu successivamente mutato in “Consistency” (consistenza, compattezza, come pure persistenza, fermezza, ovvero corrispondenza, armonia, accordo), da tradursi comunque con “coerenza”, che avrebbe costituito una sorta di parabola sul lavoro dello scrivere imperniata sul melvilliano “Bartleby the Scrivener: A Story of Wall Street” (1853).
Bartleby o l’altro Ismaele
Sembra sia proprio il non potersi aspettare granché da un esecutore, e narratore, inaffidabile a rendere così interessante questa storia e lo stare ad ascoltare il racconto di fatti ignoti da qualcuno che non li avrebbe ben afferrati si trasforma in uno stimolo in più per acuire l’attenzione del lettore, costretto anch’egli a non fidarsi di ciò che legge, sforzandosi a cercare degli eventuali significati nascosti, che potrebbero anche non esserci, e cercando di mantenere quel livello di “apertura” mentale (e torniamo dall’iniziale “Openness” calviniana) sufficiente a non ingarbugliarsi in un contorto labirinto assai difficile poi da districare.
Bartleby potrebbe infatti essere la personificazione (irrigidimento caratteriale) del muro (“wall” del titolo “A Story of Wall Street”), in relazione con i luoghi che lo circondano, come pure della “lettera morta” in un ufficio di lettere smarrite; una caparbia rivalsa linguistica (“I would prefer not”) di qualcuno non più passivo e indifeso, tra palese sotterfugio e anancastica potenza d’una formula paradossalmente pragmatica, ed efficacemente salvifica (“Am I my brother’s keeper?”).
Ishmael
Un nuovo Adamo, dunque, un po’ Caino forse, o meglio un altro Ismaele, esule e socialmente emarginato, di cui Melville sembra non riuscisse ancora, dopo due anni, a disfarsi né quale proprio alter ego o doppio, né come personaggio, tutto sommato minore ai fini della trama, e neppure quale interlocutore intimo privilegiato: "Call me Ishmael".
Moby-Dick e la numismatica
In “Moby-Dick” (1851), a contrastare la volontà monomaniacale del capitano Achab “serve” quel riflesso della speculazione mistica di Ishmael, che, alla stregua dell’Ismaele biblico, va incontro a un altro miracoloso salvataggio. Nel capitolo "The Doubloon", a Ishmael tocca il compito di raccontare di come ogni spettatore veda la propria personalità riflessa nell’aurea moneta ispanica. In "The Guilder", quattordici capitoli dopo, il tema numismatico subisce "quella che - per Gerard M. Sweeney (1975) - è chiaramente una ricapitolazione", con la differenza riguardante la superficie del mare d'oro, vivida e florida ne "Il fiorino", mentre quella de “Il doblone” appare fissa in maniera inalterabile.
Giobbe
Nella sua ricerca di vendetta Achab ha perso ogni senso di responsabilità, e quando la balena bianca (dallo sfiatatoio enorme e i fianchi flagellati da ramponi e «tre buchi alla pinna di tribordo») fa affondare la nave Pequod, tutti i membri dell'equipaggio affogano, con la sola eccezione di Ishmael: "And I only am escaped alone to tell thee" recita l'epigrafe, citando il libro di Giobbe, dove ripetutamente si scampa alle sventure ed “esclusivamente” allo scopo di poterlo riferire.
La bara come scialuppa di salvataggio
Per Melville quel dantesco “vasel ch’ad ogni vento/ per mare andasse al voler vostro e mio” non è che un feretro: Ishmael sopravvive all’annegamento, tenendosi a galla aggrappato alla bara del suo amico Queequeg, finché non viene raccolto da un'altra baleniera, la Rachel, colei che, secondo l’uso orientale, ricorse alla possibilità di generare per interposta persona, offrendo la propria schiava Bila a Giacobbe, come già era accaduto con Sara moglie sterile di Abramo e la schiava Agar, dalla quale nacque Ismaele.
Italian Theory
Esattezza, Visibilità, Molteplicità stavano al centro della gerarchia calviniana, capeggiata in successione da Leggerezza e Rapidità, le due che ricorrono pure, come «velocità/leggerezza», tra le coppie concettuali dicotomiche delle “Categorie italiane”, inserite a pieno titolo nel dibattito sull’Italian Theory/Thought: «architettura/vaghezza», «tragedia/commedia», «diritto/creatura», «dialetto/lingua», «lingua viva/lingua morta», «lingua materna/lingua grammatica», «stile/maniera», «inno/elegia», «biografia/favola», ecc. individuate con il poeta Claudio Rugafiori e lo stesso Calvino, quando insieme progettavano una rivista che avrebbe dovuto «identificare, attraverso una serie di concetti polarmente coniugati, nulla di meno che le strutture categoriali della cultura italiana».
La trasmissione della Tradizione
Nel “Programma per una rivista” si ribadiva: «Ciò che la cultura italiana ha di particolare rispetto alle altre culture europee è che non vi è semplicemente, nel suo caso, una tradizione irrigidita che dev’essere restituita alla sua fluidità originale, ma che fin dall’inizio il patrimonio culturale non si è saldato alla sua trasmissione […]. Il compito, che la sua situazione impone alla rivista, non può perciò essere definito semplicemente come una, pur necessaria, “distruzione” della tradizione, ma, piuttosto, come una “distruzione della distruzione”, in cui la distruzione della trasmissibilità, che costituisce il carattere originale della nostra cultura, venga portata dialetticamente alla coscienza. Ed è solo in una tale “distruzione” che, come in una casa in fiamme il progetto architettonico fondamentale, potranno diventare visibili le strutture categoriche della cultura italiana.».
Una proporzione spaziale tra uomo e mondo
Secondo Agamben esistono, dunque, categorie filosofico-culturali strutturanti «sulla cui tensione antinomica si sostiene il fenomeno italiano». Elencando tali categorie in forma binomiale, si propongono per lo più concetti in contrapposizione tra loro, tipo, per esempio, «architettura/vaghezza»: «cioè il dominio dell’ordine matematico-architettonico accanto alla percezione della bellezza come cosa vaga». - E torniamo al panorama calviniano di quell’Openness che poi divenne Consistency e infine coerenza.
Un vizio di forma
Grazie all’enucleazione concettuale di queste coppie categoriali si avrebbe, allora, la possibilità di “mappare” quella che dovrebbe corrispondere alla peculiarità della cultura italiana. Una mappatura che porrebbe in rilievo quanto si potrebbe intendere quale “peccato originale”, o un “vizio di forma”, nelle problematiche relazionali tra le suddette categorie, oggetto d’una Destruktion heideggeriana, che per Agamben, allo scopo di recuperarlo a un nuovo orizzonte concettuale, va diretta alla “storiografia” che l’ha effettivamente riguardato. Perché: «È venuto il momento di cessare di identificare la storia con una concezione del tempo come processo continuo lineare e infinito e, per ciò stesso, di prendere coscienza del fatto che categorie storiche e categorie temporali non sono necessariamente la stessa cosa» (Agamben G. Infanzia e storia. Distruzione dell'esperienza e origine della storia, 2001).
Signatura rerum
La storiografia verrebbe pertanto sostituita da genealogia e archeologia -, nella metodologia agambeniana, due concezioni strettamente connesse dalle analisi contenute in “Signatura rerum. Sul metodo” (2008; capitolo “archeologia filosofica”, pp. 82-111). E il compito programmatico verrebbe improntato alle alternative dei concetti-cardine, attuate, come dice Lucci, grazie al ripensamento della relazione di questi ultimi con la tradizione.
Categorie dicotomiche
Essendo il nucleo permanente di attrazione filosofica costituito dall’interesse per il pensiero propriamente italiano, e per le sue peculiarità, le categorie dicotomiche, originariamente individuate come centrali per la nostra cultura, verranno a strutturare anche la principale riflessione del Programma per una rivista: dal dominio dell’elemento architettonico contrapposto a un’inerme sensibilità di fronte alla bellezza, che riesce a coglierla soltanto come “vaghezza”, alla scelta della commedia e rifiuto della tragedia, dalla precoce attenzione alla fiaba come mondo stregato della colpa al riscatto cristiano di questo mondo nella miniatura “storica” del presepe, dall’interesse per la storiografia accanto a una concezione della vita umana come “favola” alla preminenza del Diritto, unita a una concezione creaturale dell’innocenza umana.
Separazione zoé/bios
A partire dal testo del 1995 sull’Homo sacer, questa «preminenza del Diritto insieme a una concezione creaturale dell’innocenza umana» diverrà il fulcro dell’opus magnum agambeniano, ricondotto a una dicotomia bio/politica fondamentale caratterizzata dalla separazione zoé/bios, ovverossia tra la vita naturale, quella che hanno in comune uomini, piante, animali e dèi (ζωή, qua vivimus, “per mezzo della quale” viviamo), e la vita “organizzata” (βίος, quam vivimus, nel “modo in cui viviamo”) che indicava la forma o maniera di vivere propria di un singolo o di un gruppo (quindi, la dimensione sociale e politica).
Bare life
Alla dicotomia zoé/bios s’affianca il concetto di “forma di vita” e la “terzietà” della cosiddetta “nuda vita”, che nell’Agamben Dictionary (2011), Arne de Boever definisce: «Bare life […] is neither zoé nor bios. Rather, it is life that is producted whenever zoé is separeted from bios» (La nuda vita […] non è né zoé né bios. Piuttosto, è la vita che si produce ogni volta che zoé viene separata dal bios).
Psyché
Qualcosa di differente dal “terzo” termine del pensiero greco antico, ψυχή, anima evangelicamente amata e persa, oppure odiata e guadagnata in eterno (Gv. 12, 25: «ὁ φιλῶν τὴν ψυχὴν αὐτοῦ ἀπολλύει αὐτήν, καὶ ὁ μισῶν τὴν ψυχὴν αὐτοῦ ἐν τῷ κόσμῳ τούτῳ εἰς ζωὴν αἰώνιον φυλάξει αὐτήν»), o “soffio”, respiro, aria, per Diogene d’Apollonia, oppure aggregazione di “semi” (σπέρματα) per Anassagora. Perché il concetto di “Bare life” (nuda vita) consente di rilevare il funzionamento di quella “macchina bipolare”, e struttura logica portante di tutto il percorso filosofico occidentale, nell’ontologica proliferazione di dicotomie, funzionanti attraverso ripetute separazioni dei due poli concettuali (soggetto e oggetto, uomo e animale, ma principalmente vita e politica), e le necessarie regolamentazioni delle loro possibili modalità di incontro e scontro.
Per Agamben, la “macchina bipolare” della metafisica occidentale avrebbe da sempre contribuito a creare quella soglia a partire dalla quale permettere una de-politicizzazione della vita e, nel ridurre a semplice zoé la dimensione organizzata del bios, avviare in tal modo una progressiva negazione del mondo sociale. Essendo la storia l’istanza che traccia di volta in volta le linee di separazione tra il terreno del vivere politico (βίος) e quello della vita apolitica (ζωή), l’antagonismo s’è riproposto e acuito proprio in questa regolamentazione includente/escludente il “Bare life”, fino a sollecitare una riscrittura delle vicende occidentali in cui, a seconda degli intenti, la politica s’è configurata quale asservimento o ridefinizione della vita stessa.
Bibliografia essenziale:
Agamben G. Infanzia e storia. Distruzione dell’esperienza e origine della storia, Einaudi, Torino 2001
Agamben G. Signatura rerum. Sul metodo, Bollati Boringhieri, Torino 2008
Agamben G. Categorie italiane, Quodlibet, Macerata 2021
De Fiore L. La città deserta. Leggendo il Sapere assoluto nella Fenomenologia dello spirito di Hegel, Lithos, Roma 2012
Ierace G. M. S. Il Vangelo secondo … Medea, https://calabriapost.net/cultura/il-vangelo-secondo-medea-pasolini-oggi
Ierace G. M. S. Epistolografia, in corso di pubblicazione
Ierace G. M. S Intellettuale sarà Lei, in corso di pubblicazione
Ierace G. M. S. Seconda persona singolare del passato remoto del verbo masticare, in corso di pubblicazione
Lisciani-Petrini E., Strummiello G. (a cura di) Effetto Italian Thought, Quodlibet, Macerata 2017
Lucci A. Categorie italiane della filosofia - Sul posizionamento teoretico di Giorgio Agamben nel canone del pensiero italiano contemporaneo, «Lessico di etica pubblica», 1, 40-50, 2019
Murray A., J. Whyte (Eds.) The Agamben Dictionary, Edinburgh University Press, Edinburgh 2011
Ross A. The Agamben Effect, Duke University Press, Durham NC 2008
Sweeney G. M. Melville's Use of Classical Mythology, Rodopi, Amsterdam 1975