«I Greci non avevamo un unico termine per esprimere ciò che noi intendiamo con la parola vita. Essi si servivano di due termini (…): zōḗ, che esprimeva il semplice fatto di vivere (…) e bíos, che indicava la forma o maniera di vivere propria di un singolo o di un gruppo», così Giorgio Agamben nell’incipit del suo Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita (Einaudi, Torino, 1995). Roberto Esposito, in questo suo Istituzione (Il Mulino, Bologna, 2021) riprende - senza peraltro citarla - questa duplice caratterizzazione del «complesso delle proprietà che caratterizzano la materia vivente e la distinguono dalla materia non vivente». «Esistere, essere in vita» può caratterizzarsi, dunque come «la semplice materia biologica» ma anche (o oppure) come un «altra vita» costituita dalla «Rete di rapporti nella quale ciò che facciamo acquista rilievo per noi, ma anche per gli altri». Il «quadrante» («Superfice che, in uno strumento di misura, porta la scala graduata»), in questo caso: è un «Pentante». Ci sono cinque elementi, infatti, in questa «bussola» (oppure: orologio) che il filosofo di Piano di Sorrento ha piazzato per delimitare/circoscrivere e attuare una vera e propria «ricerca genealogica» intorno alle istituzioni. I primi due elementi li abbiamo visti: la binaria, duplice, bipolare, scissa caratterizzazione del fenomeno della «vita» … Del resto anche le «istituzioni» si spezzano in due: «Istituire vuol dire inaugurare un elemento prima inesistente» ma anche «Contemporaneamente, la novità istituita, più che un divenire, è uno “stato”, un’entità destinata a “stare”, resistendo alla dissoluzione». Come direbbe il regista Luc Besson, il «Quinto elemento» - in questo caso - è la relazione biunivoca, mutua, reciproca e scambievole: «La prassi istituente trasforma anche il proprio soggetto - i soggetti che l’attivano». Siamo dunque alle prese, all’interno di questo «Pentante» espositiano con cinque elementi dei quali quattro sono «sostanze» e uno è «forma» («relazione formale»; una «e» che copulativamente congiunge …). A questo punto della disamina intono alle Istituzioni, Roberto Esposito fa, dunque, brillare «sostanza» e «forma» (il che è poi come dire la totalità della «Realtà») all’interno della ricerca di una «giuntura» - attraverso e attraversando tutta una «teoria delle istituzioni» e una «storia del pensiero istituente» - tra «vita» e «istituzioni», di volta in volta mediata ora da principi teologici, ora dai «nessi concettuali» inerenti a diritto/politica/storia/natura/giustizia, ora dal «conflitto» politico, ora dalla tanto celebrata «biopolitica» di matrice foucaultiana, ora dalla potenza del «negativo» di Hegel e ora da altri passaggi (storico-filosofici) che il dibattito su questo tema ha prodotto nel corso dei secoli. Il problema qual è? «Nella cultura politica moderna (…) Ciò che scompare è il momento istituente, interamente assorbito da quello istituito». Mentre oggi (a globalizzazione fatta e assimilata): «Le istituzioni hanno cominciato ad apparire sempre più rilevanti nel definire, orientare, trasformare le agende politiche». Dunque, siamo alle prese con una «prassi istituente», rispetto alla quale Roberto Esposito denuncia che lo stesso, particolare, «atto istituente» contiene (dentro di sé) due «linee semantiche diverse, se non opposte»: una contraddizione che, allo stesso tempo, «rimanda» alla «stasi» e al «movimento», all’ «interiore» e all’ «esteriore», all’ «ordine» e al «conflitto», al «positivo» e al «negativo» e all’ «identità» e all’«alterità». C’è la «nuda vita» (l’espressione è di Walter Benjamin; formulata nel suo saggio «Per una critica della violenza» del 1920) e c’è anche la vita «istituzionalizzabile». In questo senso: si tratta di innestare «stasi» e «movimento» all’interno di una «connessione» tra la «totalità della vita» e la totalità dell’«istituito» e dell’«istituente». Come fare? Attraverso un «diritto impersonale». Roberto Esposito afferma che questo «diritto né pubblico né privato» dovrebbe essere caratterizzato da una introduzione/intromissione e da una permuta e da un rimpiazzo. «All’io e al noi - entrambi prima persona, singolare e plurale - va semmai sostituita la terza persona dell’egli, o dell’esso, che, come si esprime il grande linguista Èmile Beninviste, è appunto la non persona o la persona dell’impersonale». In definitiva? Le istituzioni hanno a che fare con la vita e la vita ha a che fare con le istituzioni. Lo abbiamo visto tutti e ce ne siamo resi conto in maniera davvero drammatica nel periodo del Covid-19. Roberto Esposito, in questo prezioso volumetto: si interroga sul «come». «La logica dell’istituzione - o meglio di quella che in queste pagine chiameremo “prassi istituente”- implica una continua tensione tra interno ed esterno. Ciò che è fuori dalle istituzioni, prima di istituzionalizzarsi anch’esso, modifica l’assetto istituzionale precedente». Siamo in presenza di un rapporto «fluido» che non possiede un «contenitore» che lo possa accogliere. Ma siamo anche in presenza di un rapporto «dinamico». Da un lato, esiste quella «Carica energetica che le istituzioni possono, e sempre più devono, assorbire alla vita» e dall’altro lato, abbiamo che «La vita umana è fin dall’inizio e in ogni caso istituita, vale a dire inscritta in un tessuto storico e simbolico da cui non può prescindere». Questo duplice rapporto, a un tempo «contraddittorio» e «necessario» (ma, del resto: anche «fluido» e «dinamico») costituisce lo «snodo teorico» lungo l’asse del quale Roberto Esposito traccia, così, la propria «mappa concettuale».