Il consumo di “carne finta” cresce in tutto il mondo sotto la spinta della sostenibilità e dell’innovazione, con l’Italia al quarto posto in Europa per giro d’affari.
La chiamano “carne finta” e comprende tutti quegli alimenti di origine vegetale che imitano la consistenza, il gusto e l’aspetto della carne: un trend molto ampio, che fa la fortuna di venerati chef dediti alla riproduzione quasi alchemica dei sapori della carne, e riempie da molti anni gli scaffali di tutta la GDO, dal discount al gourmet. Durante la pandemia, in Italia, le vendite di questi prodotti sono aumentate del 17% arrivando a 458 milioni di euro, mentre nel mondo potrebbero toccare il valore di 280 miliardi entro il 2035.
Motivo del loro successo è anche la fedeltà alle qualità nutrizionali della carne, dato che una (buona) carne finta presenta un apporto di proteine, grassi e minerali analogo a quella vera. Il prezzo non sempre è competitivo, ma spingono il prodotto altri plus: è salutare (minor contenuto di grassi saturi), è etico (minor produzione di emissioni, zero crudeltà sugli animali), è innovativo e molto pratico, perché già pronto o semplicissimo da cucinare. Di fronte a questa platea di utenti sensibili ai temi della sostenibilità, producono migliori risultati i brand con un packaging sostenibile.
Un aspetto curioso del trend è che a optare per questa carne-non-carne, ultimamente, sono anche gli onnivori, mentre non a tutti i vegetariani piace il concetto. Per i puristi della dieta vegana, infatti, chi ha compiuto una scelta forte come rinunciare alla carne potrebbe (o dovrebbe) non sentire il bisogno di alimenti che ne simulano l’aspetto e il gusto. Quando si comincia a parlare di “bresaola vegana” o “roast beef vegano”, in effetti, sembra evidente che qualcosa non quadra, sia nella promessa del brand che nell’aspettativa del cliente. Eppure, i consumatori premiano questi prodotti. E allora ecco che qualcuno fa guerra alle parole. Nel 2020 Assocarni ha diffuso sui quotidiani una campagna in cui domandava provocatoriamente: «Perché chiamarlo hamburger vegano?». E accanto alla foto di un normale hamburger di carne campeggiava: «Questo lo chiamereste “insalata di manzo”?». Ma si sa che la lingua cambia insieme alle abitudini e – diversamente dal “latte” di soia – nemmeno a livello comunitario sono intervenuti regolamenti che vietino di utilizzare queste parole per designare le “nuove carni” di origine vegetale. Anzi, gli entusiasti dell’innovazione alimentare guardano già alla prossima frontiera: la carne in provetta, coltivata in laboratorio attraverso processi di sintesi, la cui produzione su scala industriale e a costi accessibili potrebbe partire nei prossimi anni.
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