Un giorno del terzo anno dal mio arrivo a Melito, abitata la terza casa consecutiva, cominciai ad esplorare i luoghi intorno. C'era il viale delle Rimembranze e, ancora c'è nella mia vita, il misterioso Paese Vecchio visibile dalla mia finestra giù in via Roma vecchia, e alla fine della strada, una salita che portava alla Superstrada, a qualche giardino ed al campo di calcio nuovo. Melito era praticamente pieno di "giardini", nel millenovecentosettantadue. Un pomeriggio di presunta primavera mi avventurai al campo grande, con sottobraccio un pallone "doppia gomma". Non fu difficile passare la Superstrada. Ogni tanto transitava una Fiat Millecento, o molte Cinquecento. Si entrava agevolmente al campo grande, e mi sembrò enorme. Il terreno di gioco era in terra battuta, polveroso, ma dall'aspetto morbido e regolare. I bambini non hanno mai avuto paura di sporcarsi con la terra. Eravamo tutt'uno con la natura, con la polvere. Non ricordo i miei compagni di giochi, piuttosto esigui, tipo due o tre, ma evidentemente erano allora dei marginali come me. Mi muovevo con circospezione nel nuovo paese, e la sicurezza della terrazza verso il mare del mnemonico paese di Palizzi marina era forse sullo sfondo. La nostalgia infantile non fa meno male di quella senile. Le porte erano enormi, per un bambino un po' paddottolo abituato ad una saracinesca nel cortile, a due sassi, a due squinternate cassette della frutta. Cominciammo a tirare "a mmuzzo" contro la porta enorme cercando di far gonfiare la rete come avveniva in tv ai goal di Riva e Boninsegna. Occupavo, con i miei due compagni, allora si poteva dire, disadattati una piccola porzione del campo, lato ingresso. Al massimo, l'area piccola del portiere. Ad un certo punto, dall'altra porta, da lontano, ed a me sembrarono venire dalle colline appena dietro, una decina di ragazzini apparentemente più grandi. "Itavindi, u campu è u nostru". Andate via, il campo è il nostro. Tradotto per il non calabrese. Li guardai con stupore, ed anche un po' di paura. Sembravano i guerrieri mongoli che leggevo nei libri di avventura. Ma erano reali. Allora mi avvicinai a loro, pacato. E gli dissi per quale motivo non avremmo potuto giocare tutti insieme. Infantile atteggiamento ecumenico. La mia voce usciva rotta e puerile, debole e poco virile. Infatti, subito, il capo branco rise rivolgendosi ai guerrieri "ma chi bboli sta fimminedda"? Ma che vuole questa femminuccia? Sempre tradotto per i non calabresi. Ne sentivo il disprezzo, causa la mia voce ancora infantile, ancor più dell'aggressività. Mi ritirai a capo chino con il pallone arancione sottobraccio, lasciando spazio ai ragazzi già mezzi uomini che a quel punto divennero padroni di un immenso ed inutile territorio. Ed io bambino dalla voce di femminuccia tornai mestamente tra i libri di avventura, dove i cattivi perdono sempre. Ma in questa storia chi ha vinto, chi ha perso, è chi è il cattivo? Non risponderò mai a questi superficiali quesiti dalla risposta un po' scontata, e quindi inesatta. Perché le cose sono sullo sfondo, dietro la tenda del salotto buono, tra le pieghe della confusione, e spesso corrispondono alla verità. O a qualcosa di simile. Nel millenovecentosettantadue non c'era attenzione verso il bullismo, anzi, si considerava ogni prevaricazione che avveniva per strada una palestra di vita. Ancora risuonavano forme di educazione spartana e disattenta. Non era concesso, per strada, avere la voce da femmina e voler giocare a calcio. La legge della strada, diranno alcuni. Alcuni che vivono dalla parte opposta del rifiuto.
Non importa come andò a finire questa storia piuttosto banale, salvo che non si usi un estrattore di riflessione. Con parte dei guerrieri divenni amico, più avanti. Quando la mia voce si piegò alla crescita. Parte di loro non la ricordo più. Spero abbiano imparato ad accettare. Immagino di sì. Perché vi racconto questo fatterello personale, neanche di rilevante impatto, proveniente da un'epoca lontana e disattenta?
Semplice.
Per dirvi che tutto ciò, adesso, si ripete indisturbato ed amplificato, e per nulla scalfito da una maggior consapevolezza.
Il bullismo esiste, e radica nell’assoluta mancanza di educazione all'accettazione dell'altro come possibilità di crescita e di completamento di sé.
La politica dell'accoglienza.
La politica partitica, che è cosa diversa, non aiuta teorizzando improbabili esistenze come la teoria gender o l'invasione islamica. E la scuola, perlopiù, teme la politica quando invece dovrebbe insegnarla, affinché non accada ciò che accade. Ma come siamo finiti dalla mia voce femminea alla politica?
Semplice bis.
Perché tutto è politica, mentre si prosegue ignorantemente a considerarla propaganda partitica.
Ma i nostri giovani, sappiatelo, sono già in viaggio. Ed è un viaggio dritto.
Nonostante tutto.
Nonostante noi.