Il secondo racconto, inserito nel postumo “Amado mio”, ci restituisce la descrizione pasoliniana del buio in sala caratterizzato dalla straordinaria antropologia del pubblico frequentatore dei locali di provincia in cui si proiettavano pellicole cinematografiche d’oltreoceano, in quei primi anni del secondo dopoguerra.
Gilda
«… Poi si spensero le luci, ed ebbe inizio quello che avrebbe dovuto essere il più bel film visto da Desiderio. Davanti a “Gilda” [di Charles Vidor, 1946] qualcosa di stupendamente comune invase tutti gli spettatori. La musica di Amado mio [colonna sonora del film in cui Rita Hayworth interpretava questa canzone] devastava. Così che le grida oscene che si incrociavano per la platea […] parevano fondersi in un ritmo dove il tempo pareva finalmente placarsi, consentire una proroga senza fine felice…» (Pier Paolo Pasolini, Amado mio, 1982, pp. 191-192).
A fondamento d’una cultura unitaria
Più o meno nello stesso periodo, Giaime Pintor, antifascista reclutato dai servizi segreti inglesi, poco prima d’essere dilaniato da una mina lungo la linea del Volturno a soli 24 anni, avrebbe lasciato scritto: «Nato come industria di lusso, sottoposto alle più dure leggi dell’economia capitalistica, il cinema americano doveva presto diventare il nutrimento di una massa anonima, esprimere i suoi bisogni e le sue preferenze, instaurare il primo colloquio tra le grandi folle di tutto il mondo e una cultura unitaria … Il cinema entrò nella nostra vita come una presenza insostituibile; cresciuto con la nostra stessa giovinezza ci insegnò a vedere e a comporre secondo nuove misure, modificò la storia e la geografia dei nostri cervelli, fu insieme scuola e polemica, divertimento e mitologia» (Il sangue d'Europa, 1950).
Un americano a Roma (1954)
Basta questo a dimostrare quanto fosse radicato, nel clima entusiasta per la vittoria alleata sui nazifascisti, “Un americano a Roma” (1954) di Steno, in cui un apparentemente schifiltoso mangia spaghetti, Nando Moriconi/ Alberto Sordi, s’ostinava a guardare agli Stati Uniti come alla sua ideale patria d’elezione.
E lo stesso valeva per parole e musica di “Tu vuò fà l'americano” (1956), rispettivamente di Nicola Salerno e Renato Carosone, ispirata da quei giovani che girovagavano per i quartieri popolari indossando jeans e fischiettando il boogie woogie. A riprova di come anche le canzonette possano segnare indelebilmente la storia del costume d’un popolo. Al Festival di Sanremo del ’52, “Papaveri e papere” di Panzeri, Rastelli e Mascheroni, si poteva permettere di far satira dello strapotere democristiano (una “candida” classe politica di nani potenti, quanto Fanfani, su cui svettavano rossi comunisti, in un’atmosfera già da “guerra fredda”), forse solo grazie alla compensazione, sul recto, dell’inno patriottico per Trieste, “Vola colomba” di Cherubini e Concina, risultato vincitore quell’anno.
Gore Vidal
«Oggi mi sono convinto che la mia generazione di americani, per avere una guida spirituale, o andava in chiesa o andava al cinema», testimonia, in “Screening History” (1992), il saggista, drammaturgo e sceneggiatore Gore Vidal, - rimasto invischiato, da autore della biografia romanzata di Giuliano l’Apostata, nella polemica sulla controversa vicenda del “Caligola” (1979), non più tanto di Tinto quanto di Guccione.
Messaggi subliminali
«A livello inconscio c’era davvero un bel po’ di politica persino nelle più semplici storie ispirate alla vita quotidiana, mentre le sceneggiature di tipo storico potevano sempre nascondere messaggi […] Per me, all’età di dodici anni, i poveri di Londra accampati al Robbers’ Roast erano proprio come i Boners sulle Anacostia Flats».
Da Shakespeare a Mark Twain
All'età di dieci anni, il film “A Midsummer Night's Dream” (1935), di William Dieterle e Max Reinhardt, aveva già stuzzicato il suo appetito per tutte le opere di Shakespeare, e il personaggio di Puck, interpretato da Mickey Rooney, avrebbe ispirato la sua prima fantasia desiderante di diventare attore. Ma, sono state le pellicole dove sul grande schermo poteva rivivere appieno la storia, che gli hanno lasciato i più vividi ricordi della sua giovinezza. Film come “Roman Scandals” (di Frank Tuttle, 1933), “Fire Over England” (di William K. Howard, 1937), “The Prince and the Pauper”, «mi hanno aperto - aggiunse - quella porta sul passato dove ho trascorso così tanto del presente di tutta la mia vita».
A proposito del lavoro di William Keighley del ’37, confermava: «Il messaggio politico esplicito del film era chiaro: un re generoso ascolterà sempre il suo popolo e lo aiuterà […] Ecco l’atteggiamento prevalente degli americani al tempo in cui i loro sovrani, Franklin con Eleanor, si ergevano, come il principe buono, contro i signori del male» (“Screening History”, 1992).
Per Vidal, la storia che veniva proiettata per gli spettatori delle sale cinematografiche, riusciva spesso a trasformare una cruda realtà in gioiosa fantasia, oppure in vera e propria propaganda politica. E, proprio per questo motivo, ha avuto tanta presa sull'immaginazione, lasciando quel segno, che ha effettivamente lasciato, nella mente d’un giovane che si stava ancora “formando”, fino a diventare una delle figure letterarie più note e problematiche del nostro tempo; il quale però, in “Screening History”, non tralascia di riconoscere quanto il cinema si dimostri, alla fin fine, incapace di chiarire come le cose stiano andando davvero.
Cinema di massa
Poco più di venti, trent’anni dopo, quella medesima oscurità, in cui si svolge la proiezione d’una pellicola, continuava a non esigere l’«ascesi» richiesta invece dall’immersione letteraria, severa e solitaria, ma, al contrario, presupponeva una sorta di costrizione a imbuto, priva di altre prospettive, come di protettive separazioni e di filtri alternativi. Il pubblico oltrepassa una soglia oltre la quale è costretto a fondersi per intero in una massa informe, all’interno d’un’unica atmosfera non preavvertita, difficilmente separabile da questa esperienza di forzata comunità inconsapevole, o di baccanale spesso scalpitante e fragoroso.
Pubblico eterogeneo
«Cinema vuol dire sedersi in mezzo a una platea di gente che sbuffa, ansima, sghignazza, succhia caramelle, ti disturba, entra, esce, magari legge le didascalie forte come al tempo del muto; il cinema è questa gente, più una storia che succede sullo schermo. – appuntava Italo Calvino, nei suoi “Saggi. 1945-1985”, 1995) - Il fatto caratteristico del cinema nella nostra società è il dover tener conto di questo pubblico incommensurabilmente più vasto ed eterogeneo di quello della letteratura: un pubblico di milioni in cui le benemerite migliaia di lettori di libri esistenti in Italia annegano come gocce d’acqua in mare…».
Comunicazione estetica ridimensionata
La presenza d’un tale pubblico sconosciuto, in cui stenta a identificarsi una personalità che riflette il succedersi delle poetiche e degli indirizzi culturali nel quarantennio fra il ‘45 e l’85 (da “Il sentiero dei nidi di ragno” alle “Lezioni americane”, attraverso la trilogia de “I nostri antenati”, “Marcovaldo”, “Le cosmicomiche”, “Se una notte d'inverno un viaggiatore”, ecc.), implica anche un certo qual modello di comunicazione estetica, fortemente ridimensionato verso il basso dall’adeguamento a quei «drammi popolari e […] farse popolari di produzione media».
Arte e cultura
Era questa allora la vera scommessa del cinema, il rimescolamento di creatività e di genere in trame scontate dall’eredità d’una tradizione precostituita, oppure innovative per apporto individuale, e tuttavia non certo vicine, se non di rado, alla possibilità d’ideazione artistica, fortemente legata a una ristretta cerchia di intellettuali, conservatori d’un patrimonio culturale, o di quelle élite in grado di gradirlo, oppure specificamente di addetti ai lavori.
Lo stile poetico
Il quesito formulato da Calvino era quello relativo alle probabilità che uno stile poetico potesse, grazie alla settima arte, “proliferare” nel linguaggio corrente. In questo caso, lo sforzo sarebbe consistito nell’offrire a quel pubblico indifferenziato, ma di trepida partecipazione, lo spettacolo di avventure in cui, grazie a «una produzione artigiana di qualità costante e di originalità stilistica» (Autobiografia di uno spettatore, in Federico Fellini, Fare film, 2010, p. XIX), potesse, se non proprio riconoscere frammenti della sua vita, almeno dei pallidi riflessi dei suoi desideri.
Un Bildungsroman audio-visivo
Nell’«Autobiografia di uno spettatore» (pubblicata per la prima volta nel 1974 come introduzione ai “Quattro film” di Fellini), Calvino ammette che, durante gli anni della sua formazione, il cinema aveva rappresentato, anche per lui, il mezzo privilegiato per poter intravedere l’immagine stessa del mondo. Una confessione condivisa, e condivisibile, dalla, e per la, stragrande maggioranza dei cinefili della sua generazione e di quel particolare periodo, in cui, agli occhi e ai sentimenti di chi stava crescendo in una specie di Bildungsroman autoindotto dalla rappresentazione audio-visiva, la realtà della vita, posta fuori dall’esperienza quotidiana, arrivava attraverso storie, corpi, volti, voci che solo il grande schermo delle sale cinematografiche, e in seguito quello più ridotto del salotto di casa, potevano offrire per prassi non ancora del tutto consolidata.
Il cinema = il mondo
«Ci sono stati anni in cui andavo al cinema quasi tutti i giorni e magari due volte al giorno, ed erano gli anni tra diciamo il Trentasei e la guerra, epoca insomma della mia adolescenza. Anni in cui il cinema è stato per me il mondo. Un altro mondo da quello che mi circondava, ma per me solo ciò che vedevo sullo schermo possedeva le proprietà di un mondo, la pienezza, la necessità, la coerenza, mentre fuori dallo schermo si ammucchiavano elementi eterogenei che sembravano messi insieme per caso, i materiali della mia vita che mi parevano privi di qualsiasi forma …» (Autobiografia…).
In una intervista rilasciata a Lietta Tornabuoni, quattro anni prima della dipartita dell’autore de “Il Visconte dimezzato” e “Il barone rampante”, si ebbe modo di capire il tenore di quella sua passione: «Andavo al cinema al pomeriggio, scappando di casa di nascosto, o con la scusa di andare a studiare da qualche compagno… Entrare all’ora dell’apertura mi garantiva la rara fortuna di vedere il film dal principio.».
Una vita immaginaria
In “Autobiografia…”, quale appendice, aggiunse ancora la considerazione: «Quando […] ero entrato nel cinema alle quattro o alle cinque, all’uscirne mi colpiva il senso del passare del tempo, il contrasto tra due dimensioni temporali diverse, dentro e fuori del film. Ero entrato in piena luce e ritrovavo fuori il buio, le vie illuminate che prolungavano il bianco-e-nero dello schermo. Il buio un po’ attutiva la discontinuità tra i due mondi e un po’ l’accentuava, perché marcava il passaggio di quelle due ore che non avevo vissuto, inghiottito in una sospensione del tempo, o nella durata d’una vita immaginaria, o nel salto all’indietro nei secoli.».
La sospensione dell’incredulità
Proprio perché, in fondo, si tratta d’immergersi in un universo incantato, il cinema richiede degli indispensabili protocolli che lo accostino a una ritualità dalle chiare prescrizioni e dagli inderogabili obblighi. Lo svolgimento cerimoniale prevede, innanzitutto, la sospensione dell’incredulità e un’alterazione della percezione del tempo che confonda i ritmi ordinari delle abitudini con quelli d’una dimensione parallela. Da questo specifico punto di vista, il rapporto tra il buio in sale e la storia, quella obiettiva e concreta, che va per un’altra strada, non intesa come narrazione, diverrebbe anacronistico e contraddittorio.
Cinema e letteratura
Proprio per questa sua azione concentrata in un lasso temporale ridotto a non più d’un pomeriggio, il cinema non può probabilmente condividere neppure lo stesso linguaggio della letteratura, anche se di quest’ultima dovesse riuscire a mantenere l’intensità.
Riconoscersi nelle storie inventate
«Forti sono entrambi, e diversamente indispensabili, e pur fratelli. È segno ancora che […] conta quel bisogno fondamentale dell’uomo, cui tanto il romanzo quanto il film rispondono: inventare delle storie e riconoscersi in esse…» (Saggi. 1945-1985).
Cinema marcatore di anime
Non di rado, un film entra a gamba tesa nella vita di tutti i giorni e ne scompiglia l’ordinarietà, oppure suggerisce scenari altrimenti invisibili, se non del tutto impensabili; resuscita, inoltre, epoche remote e totalmente sepolte, o ancora propone ed evoca sentimenti che modificano, arricchiscono, complicano sia sensibilità che destini preesistenti. La suggestione s’imprime nella memoria e, così come segna la storia individuale, ci marca per sempre nell’anima, pure a livello dell’inconscio collettivo?
Autobiografia intellettuale
Nel confrontare il linguaggio del cinema e quello della letteratura, Calvino teorizza le ragioni delle sue personali predilezioni, indicando i criteri estetici che lo guidano in scelte più o meno motivate. E nel tracciare questa sua “autobiografia intellettuale”, non mette in luce solo i paradigmi di cui si nutre la sua cultura, ma riflette quelli fruiti in comune con la sua generazione, secondo una sorta di “gusto” diffuso proprio perché condiviso.
Il punto di vista dello spettatore
Da letterato cinefilo, Calvino indossa i panni dello spettatore-tipo, consapevole di voler sperimentare un’ingovernabile confusione di temporalità diverse, l’una con l’altra miscelate ad altrettanti smarrimenti di luoghi, o come direbbero gli addetti ai lavori: location. Purché un tale caos, però, possa essere dominato, per quel certo lasso di non più d’un paio d’ore, - perché non deve sforare oltre l’insopportabile dormiveglia -, e venire governato cioè da un ordine apparente, il quale, a sua volta, non vada a cozzare con l’indubbiamente necessaria sospensione del giudizio, la cui evanescenza resta pur sempre in agguato, soprattutto se i contenuti filmici lasciano un po’ a desiderare, nel mentre le facoltà sensoriali si sono andate affievolendo.
Noi credevamo … in Lotta continua
Uno spettatore “medio” ragiona in maniera, “mediamente”, lineare: se qualcuno “vuole” fare un film su un determinato argomento, lo faccia senza far ricorso alla sottaciuta slealtà del depistaggio cervellotico, mascherato da doveroso tributo da pagare a una “lezione”, sia pur rosselliniana, questa sì di stampo storiografico, ma che suona tutt’altre note di commento al testo: il cinema deve costruire una narrazione in base alle fonti attendibili, senza appesantirne lo sviluppo con rielaborazioni forzate.
Uccidete la democrazia!
In “Cinema Italia. I film che hanno fatto gli italiani” (UTET, Torino 2021), - sia nel senso della frase solitamente attribuita a Massimo D’Azeglio che, viceversa, con soggetto gli italiani facitori dei film che poi autarchicamente vanno a vedere -, Giovanni De Luna spiazza per quella convinzione che con “Noi credevamo” Mario Martone avesse inteso parlare, piuttosto che dei moti risorgimentali, nel 150° anniversario dell’Unità della nazione (un anno in cui, tra l’altro, la pressione secessionista aveva raggiunto il suo acme), delle vicende riguardanti “Lotta continua”, dallo spontaneismo sessantottesco alla chiusura del quotidiano, diretto in quel preciso momento da Enrico Deaglio (futuro coautore, con Beppe Cremagnani, del documentario “Uccidete la democrazia! Memorandum sulle elezioni di aprile”, 2006); tra l’altro fuori tempo massimo da ogni incombenza celebrativa di quel movimento, fondato nel ‘69 e dissoltosi nel ‘76; l’omicidio Calabresi risale al ‘72; l’arresto di Sofri, Bompressi, Pietrostefani e Marino al 1988. Solo La lettera aperta a L'Espresso sul caso Pinelli è di quarant’anni prima!
Le tre classiche unità della Poetica aristotelica
Nel voler giustificare l’ingiustificabile, De Luna ne parla come d’un film realistico (e meno male che con la scusa di Rossellini non ha abusato della dicitura di neorealismo), e didattico, “filologicamente ineccepibile” e compiutamente appagante qualsiasi esigenza dello storico, e ciò nonostante le disorientanti irruzioni in un’iconografia rigorosamente ottocentesca, - che tale dovrebbe rimanere, nutrita com’è da illustrazioni e dipinti d’epoca e dal ricorso, non proprio sapiente, alla musica di Verdi (Macbeth, Attila, Otello) -, di riferimenti all'Italia quasi contemporanea, alla sua costituzione repubblicana, come al filone meridionalistico di Salvemini e Gramsci e persino di decisamente incongrui squarci d’attualità, sotto forma di pilastri di cemento armato, viadotti autostradali, fili elettrici e garage per autorimessa, in barba alle tre classiche unità della Poetica aristotelica relative a tempo, luogo e azione, la cui lunghezza è tuttavia concesso dilatare, purché soltanto nel genere “epopea”.
Errori nel cinema
Non basta la giustificazione postuma del regista, e neppure quella d’ufficio dello storico, altrimenti Ridley Scott potrebbe asserire che la bombola di gas, visibile sotto il veicolo a motore che muove un carro nell’arena de “Il Gladiatore” (2000), “voleva” lanciare un messaggio ecologico, come il furgoncino bianco sullo sfondo di numerose scene del film di Mel Gibson, “Braveheart” (1995). Molto meglio se l’è cavata George Lucas nell'aggiungere, all’edizione in DVD di “Star Wars – Episodio IV: Una nuova speranza” (1977), l’effetto sonoro come a voler far intendere che lo sbattere contro lo stipite d’una porta, da parte dello stormtrooper particolarmente alto, fosse previsto dal copione.
Fellini è un caso a sé
Solo alla casuale estrazione della pistola da una tasca diversa da quella dove era stata riposta, in “8 ½” di Fellini, non avremmo nulla da obiettare, sia perché appartenente a un genere (in)classificabile, tra il grottesco e il fantastico, sia perché si tratta comunque d’un capolavoro assoluto che ha impresso un nuovo slancio alla storia del cinema internazionale della seconda metà del secolo scorso. E quest’assenza dall’elenco dello storico a cui interessa soprattutto quella “stazione intermedia” tra un passato da raccontare, ma che forse non vuole “passare”, un presente che lo rievoca e un futuro che ne rimane impresso, sia pur solo dal punto di vista dello stile e della narrazione filmica, pesa quasi quanto una colpa grave, visto che, in quella forma raffinata di “meta-cinema” numerico, approfittando della crisi dell’ispirazione artistica, si mette in scena il tema del profondo disagio d’un intero sistema produttivo, e autoriale, della nostra epoca.
Processo alle intenzioni
Ma, tornando a Martone, c’è da domandarsi se la storia si possa fare anche con le intenzioni. E mi riferisco alla rivelazione, fatta oltre vent’anni dopo (in “History of Piedmont”, London 1855-6), del suo antico proposito di uccidere Carlo Alberto, da parte di Antonio Gallenga, che gli costò le dimissioni dalla sua carica parlamentare.
Testimonianze dubbie
Sulla base delle senili testimonianze di Carlo Camillo Di Rudio, sette anni dopo la morte dell’interessato, Francesco Crispi, e mezzo secolo dopo gli accadimenti, è lecito ipotizzare un coinvolgimento diretto di un mazziniano, garibaldino, nonché futuro presidente del consiglio dei ministri del Regno, nell’attentato a Napoleone III, ordito, nel 1858, da Felice Orsini e del quale furono ritenuti responsabili certi Giovanni Andrea Pieri, Antonio Gomez e Simone Francesco Bernard, oltre naturalmente all'Orsini e allo stesso Di Rudio, - il quale, tra l’altro, in mezzo a una ridda di inchieste, insinuazioni e polemiche, finì, quasi vent’anni dopo Parigi, sulle prime pagine di tutti i giornali statunitensi, per essere stato uno dei pochi superstiti della battaglia di Little Bighorn?
Trinomio strumento, fonte, agente
Alla poetica aristotelica si controbatte con il trinomio: cinema strumento per raccontare la storia, fonte di conoscenza storiografica, agente di storia, nel senso di costruirla (non di ricostruirla nella finzione), incidendo quindi su scelte, abitudini, comportamenti d’un pubblico che a tali scelte, abitudini, comportamenti s’ispira poi nella vita reale; ruolo quest’ultimo destinato vieppiù a indebolirsi, in seguito ai forzati adeguamenti che il cinema ha dovuto subire, dapprima, alla serialità televisiva e più recentemente ai fatui ambienti del web, con tutto ciò che culturalmente ne consegue.
Se non fosse diretta discendenza dell’aforisma “In Italia i fascisti si dividono in due categorie: i fascisti e gli antifascisti”, sarebbe, allora, da ritenersi antistorica la dichiarativa battuta, estrema quanto cogente, di Ennio Flaiano di volersi definire più propriamente “anti-antifascista”?
Instant spontaneity
Della forza dirompente delle immagini che offrono modelli sui quali plasmare la quotidianità ci si rese conto definitivamente con la nascita della televisione commerciale e del partito “istantaneo”, o “prêt-à-porter”, dei primi anni novanta e del movimento, quasi spontaneo, formatosi sulle piattaforme, giusto il ventennio successivo. - La storia italiana sembra, infatti scandita, da tale periodicità: ventennio giolittiano, fascista, democristiano, di centro-sinistra, berlusconiano, proto-presidenzialista...
Il rapporto tra cinema e storia nasce, di fatto, con il cinema medesimo e l’inizio della sua stessa “storia”, quella sulla quale si è poi andato innestando il dibattito su come i film possano contribuire a comprendere il passato, nel testimoniarlo, ovvero rappresentarlo in un modo piuttosto che in un altro.
Dai Lumière a Matuszewski
Il fotografo polacco, pioniere della documentazione cinematografica, Bolesław Matuszewski, dopo essersi trasferito nella “capitale del XIX secolo”, a meno di tre anni dalla prima proiezione (28 dicembre 1895), al Salon indien du Grand Café, sul boulevard des Capucines, de “La Sortie de l'usine Lumière”, “ L'Arroseur arrosé”, “Le Repas de bébé”, “La Voltige”, “La Mer (Baignade en mer)”, ecc., pubblica direttamente in francese, nel 1898, “La Photographie animée” (Ce qu’elle est, ce qu’elle doit être) e soprattutto “Une Nouvelle Source de l’Histoire” (Création d’un dépôt de cinématographie historique), dal cui titolo già si capisce quante potenzialità della nuova invenzione come fonte storica abbia colto. Tanto che, quando Otto von Bismarck si permise d’accusare il presidente francese Félix Faure di non aver adeguatamente omaggiato la bandiera russa al suo arrivo a San Pietroburgo, grazie alla registrazione con un apparecchio dei Lumière, inconfutabilmente ne poté documentare l’infondatezza.
“That's the press, baby…”
Eppure, fin quasi alla metà del secolo scorso, era la stampa a godere d’un prestigio culturale, più che documentaristico, straordinariamente superiore persino rispetto all’immagine fotografica. Lo comprova la celeberrima battuta di Ed Hutcheson/ Humphrey Bogart, alla fine del film di Richard Brooks, “Deadline” (1952): “That's the press, baby…”.
Gli storici continuano a operare, per la maggior parte, con le fonti scritte (diari, lettere, atti notarili…), memori forse che il confine tra storia e preistoria sia stato tracciato giusto in rapporto all’invenzione della scrittura. La collocazione “prima” della storia dipende dall’assenza di documentazione, pur essendo anch’esso un periodo della vicenda umana in cui gli “avvenimenti” sono accaduti nello stesso modo in cui accadono oggi. Ma che succede quando irrompe la testimonianza visiva, o interviene un concetto-chiave dell'analisi filosofica del politologo Francis Fukuyama a prospettare improvvisamente “una” “fine della storia”, anche se poi non troppo dimostrabile?
- E, se, oggi, oltre all’estinzione della storia, si dovesse contemplare pure quella del cinema, della televisione, della letteratura?
Forse, dietro le narrazioni, o le storie, che i film raccontano, ce ne sono altre che a prima vista proprio non vediamo, nascoste come sono persino alle intenzioni, e magari costituite a volte da irrefrenabili tensioni e slanci, altre da sprazzi intuitivi, o da difficilmente interpretabili visioni; in rare circostanze perfino vere e proprie premonizioni, come il caso emblematico dell’undicesimo film di Nanni Moretti, “Habemus papam” (2011), il cui epilogo ha lasciato sbigottito il pubblico dei vaticanisti più esperti. E anche questo titolo è assente dalla filmografia di De Luna.
Alfred Hitchcock
Quando ricevette l'incarico di dirigere un documentario sull'Olocausto, Alfred Hitchcock avrebbe dovuto mettere ordine fra ore e ore di immagini girate dagli improvvisati cameraman degli eserciti alleati nei campi di concentramento nazisti subito dopo la fine della seconda guerra mondiale. Per completarlo, però, impiegò più tempo del previsto, di certo più di quanto richiesto dalle imperscrutabili ragioni della politica e della diplomazia, per cui, nel frattempo, a Washington e a Londra, la leadership non lo ritenne, né il documentario né lui, in quanto autore, più tanto indispensabile, e neppure idoneo, cambiando completamente idea sul proposito d’accusare l’intera popolazione tedesca della mostruosa fabbrica della morte orchestrata dal nazismo.
Memory of the camps
“That's the press, baby…”? No, accortezza opportunistica, poiché riproporre ex abrupto il tema d’una responsabilità collettiva per la Shoa non avrebbe, in ogni caso, aiutato l'opera di ricostruzione d’un paese ormai definitivamente sconfitto. Il filmato “giacque” così, per anni, accantonato con il numero F-3080, negli archivi dell'Imperial War Museum di Londra, dal quale (senza mai esser “caduto” dall’accompagnamento manzoniano “di mille voci al sonito”) “risorse” solo nel 1984, in occasione della 34a edizione del Festival di Berlino, come "Memory of the camps", in una retrospettiva hitchcockiana, a quattro anni dalla morte del grande maestro di suspense, assieme a “The Man Who Knew Too Much”, “The Trouble with Harry”, “Rear Window”, “Vertigo”, “Rope”.
Baron Bernstein
Il ruolo di Hitchcock, in questo caso, non sarebbe stato quello, suo solito, di "regista" di "film del brivido", bensì molto più di supervisore, collaboratore al montaggio, consulente, o consigliere ed editor, una specie di factotum, insomma, del produttore d’origine ebraica Sidney L. (Baron) Bernstein, che ancora all’epoca dell'invasione della Francia, l’aveva convinto a lasciare Hollywood per rientrare in Gran Bretagna a lavorare a dei cortometraggi indirizzati al pubblico francese assoggettato all’invasore.
“Mrs. Miniver”
Bernstein aveva da poco letto le prime bozze della sceneggiatura di “Mrs. Miniver” (1942), ispirata alla novella di Jan Struther, perorandone la realizzazione presso la Metro-Goldwyn-Mayer. La storia interpretata da Greer Garson, nei panni dell'eroica madre d’una famiglia rurale britannica devastata dalla guerra, divenne così la prima incentrata sulla seconda guerra mondiale a vincere l’Oskar come miglior film, oltre a ricevere altre cinque nominations, tra cui: miglior regista (William Wyler), migliore attrice (Garson) e migliore attrice non protagonista (Teresa Wright). La sua raffinata tendenza propagandistica avrebbe impressionato persino Goebbels, il quale commentò: «Non c'è una sola parola di rabbia indirizzata contro la Germania; tuttavia la tendenza antitedesca è perfettamente compiuta».
Factual Survey
Alle prime notizie sui campi di sterminio, Bernstein corse subito a visitare Bergen-Belsen, convincendosi dell’opportunità di preparare un apposito filmato, dal titolo provvisorio “German Concentration Camps Factual Survey”, da mostrare sia al pubblico inglese che a quello di lingua tedesca, in modo che venisse resa nota l'entità delle atrocità commesse. Quando questo programma di lavoro venne bruscamente annullato, nel luglio del ‘45, poiché il Ministero degli Esteri britannico lo giudicò troppo incendiario, Hitchcock aveva già iniziato a montare i quasi 244 chilometri (800.000 piedi) di pellicola girati dalle truppe angloamericane, e della documentazione tedesca appena confiscata, senza comunque trascurare di suggerire ai suoi collaboratori di prediligere le riprese più lunghe possibili, onde poter meglio dimostrare quanto ciò che la telecamera stesse registrando, o avesse già filmato, fosse davvero reale.
Rope
E fu allora che questo stile di riprese lunghe e non tagliate divenne una sorta di raison d'être della prima pellicola hitchcockiana girata in Technicolor, nel 1948, con James Stewart protagonista, lo sperimentale “Rope”; si dia il caso una coproduzione con Sidney Bernstein, in cui dieci piani-sequenza, la maggior parte dei quali collegati tra loro in modo da apparire come un'unica ripresa, lo fanno sembrare stranamente piatto ed eccessivamente ponderoso. Il ritmo uniforme che ne deriva attenua ogni tensione presente nel soggetto ispirato a un reale fatto di cronaca nera.
Train de vie
Alla luce d’un tale preambolo, si prospetta indifendibile pure quella carognata (Monicelli l’avrebbe definita forse più appropriatamente “mascalzonata”) fatta ai danni di Radu Mihaileanu da parte di Benigni – in buona compagnia, comunque, con il Sorrentino de “La Grande Bellezza” (2013), nel ripetere a “bella” posta quel “Voyage au bout de la nuit” ch’era stato del Fellini di poco più di cinquant’anni prima (“La dolce vita”, 1960) –; in particolare, perché il comico di Castiglion Fiorentino fa di tutto per aggiudicarsi, in modo interessato e di comodo, e quindi meno meritevole, il premio più ambito, proprio l’anno successivo alla realizzazione di “Train de vie” (1998), portando in essere sostanzialmente la stessa idea, quella d’una tragicommedia che l’autore franco-rumeno era già riuscito, in maniera molto equilibrata, ad affiancare a un ritmo impeccabile, scandito dalla colonna sonora di Goran Bregovic, e soprattutto, ad un'originalità narrativa, intrisa di sottile e trasognante umorismo yiddish, in cui convivono alla perfezione comicità, dramma e malinconia, senza risparmiare a nessuno, ebrei compresi, nazisti di ieri e progressisti (ex comunisti) contemporanei, quella grottesca ironia da satira surrealista.
Maus di Art Spiegelman
Lo spettatore può farsi guidare dalle emozioni che la narrazione gli suscita, dal suo gusto personale, dalle inclinazioni verso un certo tipo di racconto, come da un altrimenti imponderabile “effetto notte” (leggi: buio in sala) scaturito dallo script filmico, giusto per indicare l’ambientazione dei sentimenti e una qualche atmosfera ossessiva, nella sua ripetitività.
«Se non ci fosse stato “Schindler’s list” non ci sarebbe stato nemmeno Benigni […] - sentenziò, in proposito, il disegnatore Art Spiegelman - Spielberg ha creato un genere cinematografico come il western; ha fatto diventare lo sterminio di massa uno spettacolo di massa». Poi, avverte d’un’ulteriore trappola: «Benigni è pericoloso ne La vita è bella perché riprende la storia reale per trasformarla in fantasia. Usa la forma della metafora per dire che Auschwitz non è Auschwitz, ma solo un sinonimo di un brutto periodo: è terribile, è una vergogna. Sembra che alla fine l'unica cosa importante sia prendere i brutti periodi con ironia. Anche Maus usa la metafora, ma per aiutare a capire una storia precisa, circostanziata, e poi è una metafora che sfuma nella drammaticità del racconto.».
In Maus: A Survivor's Tale (da Spiegelman pubblicato a puntate dal 1980 al 1991 sul magazine statunitense Raw), si fa ricorso alla forma del fumetto allegorico per dar corpo a una narrazione spogliata degli elementi d’identificazione, senza però intaccare quell'essenza della dimensione tragica che la pervade: i nazisti e i tedeschi sono gatti, gli ebrei topi, gli zingari farfalle, i polacchi maiali, i francesi rane, i britannici pesci, gli svedesi renne, i russi orsi e gli ameri-cani cani. Mancano solo le papere e i papaveri…
Saul Friedländer
Lo storico dovrebbe leggere un film come fonte per conoscere la storia, o come strumento per raccontarla, oppure come ispirazione per trasformarla, ma come si potrebbe operare in tal triplice senso allorché proprio lo storico israeliano-franco-boemo Saul Friedländer è assolutamente drastico nel racchiudere il suo sconcerto nel nodo dell’indicibilità: «Non si può creare finzione artistica quando la verità è infinitamente più forte dell’immaginazione». Fine della storia, fine del cinema, fine persino della “memoria”.
Blaise Pascal
È vero, troppa luce rende ciechi, come ammoniva Pascal («Nos sens n'aperçoivent rien d'extrême: trop de bruit nous assourdit, trop de lumière éblouit... »); e questo vale pure per la dimensione eccessiva di quell’inenarrabile sterminio, la quale paradossalmente potrebbe favorire piuttosto il negazionismo invece del ricordo. Certi testi, per esempio, si possono leggere solo alla luce di altri precedenti a cui fanno un muto riferimento; e, se questa operazione di scavo archeologico non si effettua di persona, in presenza, potrebbero restare confusi o indecifrabili.
Kenzaburō Ōe
La risposta definitiva sembra darla una riformulazione parafrastica della meditazione pascaliana («…Trop de bruit nous assourdit, trop de lumière éblouit, trop de distance et trop de proximité empêche la vue. Trop de longueur et trop de brièveté de discours l’obscurcit, trop de vérité nous étonne. ») fornita da Kenzaburō Ōe: “il grido più forte è il silenzio”; soprattutto se osservato da «coloro che non si suicidarono nonostante avessero tutte le ragioni per farlo; che hanno salvato la dignità umana in mezzo alle più orrende condizioni mai sofferte dall'umanità». Con “Hiroshima nōto” (1965), é riuscito a elevare ad altissima nobiltà, meritevole di rispetto, la compostezza del sopravvissuto all’olocausto nucleare (hibakusha), sia nella figura di chi ha scelto la soluzione del suicidio, sia in quella, ancora più difficile ed eroica, di chi ha deciso di continuare a vivere, nonostante tutto.
Bibliografia essenziale:
Calvino I. Saggi. 1945-1985 (a cura di Mario Barenghi), vol. II, Mondadori, « I Meridiani », Milano, 1995
De Luna G. Cinema Italia. I film che hanno fatto gli italiani, UTET, Torino 2021
Fellini F. Quattro film: I vitelloni, La dolce vita, 8 1/2, Giulietta degli spiriti, Einaudi, Torino 1974
Fellini F. Fare film, Torino, Einaudi, 2010
Ferro M. Cinéma et Histoire, Denoël, Paris 1976
Grazzini G. La memoria negli occhi. Boleslaw Matuszewski: un pioniere del cinema, Carocci, Roma 1999
Ierace G, M. S. Amara la dolce vita di Leonida, Calabria letteraria, 266, 72-77, gennaio/marzo 2020
Ierace G, M. S. Il magnifico mondo posteriore di Tinto Brass, https://calabriapost.net/cultura/il-magnifico-mondo-posteriore-di-tinto-brass
Pasolini P. P. Amado mio (preceduto da Atti impuri), a cura di Concetta Angeli, con uno scritto di Attilio Bertolucci, Collana Le mosche bianche, Milano, Garzanti, 1982
Pintor G. Il sangue d'Europa (a cura di Valentino Gerratana), Collana Saggi, Einaudi, Torino 1950
Tornabuoni L. Calvino: il cinema inesistente, La Stampa, 23 agosto 1981
Vidal G. Screening History, Harvard University Press, Cambridge 1992