Venerdì, 13 Settembre 2024

                                                                                                                                                                             

 

                                                                                                                                                                                                          

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CONTRO LA MORTE: DALL’ABOLIZIONE DELLA “PENA” ALLA “COMPRESENZA” DI CAPITNI

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«Il mio spirito, quello del mio amico e quello d’un saggio di mille generazioni fa… tutti sono soltanto uno» - Lu Chiu-Yűan, fondatore della scuola neo-confuciana della “mente universale”, influenzata dal Taoismo.

Wu wei

Per quest’ultimo, sostanzialmente una “religione della natura”, è fondamentale il concetto di wu wei, precetto di tassativo "non agire" in nessuna maniera, intendendosi soprattutto a danno d’ogni essere vivente, al fine di conservare quel perfetto equilibrio, il Tao appunto, del mondo degli esistenti nella sua interezza.

Una concezione sintetizzata da quest’adagio di Lao-Tse: «Trenta raggi s’incontrano in un mozzo, e in quel che è il suo vuoto sta l’uso del carro».

Ahiṃsā

Gandhi aveva incominciato col rifarsi al primo aṅga (branca) delle cosiddette “astensioni” (Yama;  gli altri quatto sono: Satya, non menzogna; Asteya non appropriazione; Brahmācarya, non emissione di fluidi vitali; Aparigraha, non possessività) a fondamento dell’intero sistema filosofico dello Yoga, nonché una delle “virtù” essenziali per accedere alla conoscenza (Jñāna) universale, grazie al “retto  comportamento”.

Incolpevolezza

Avendo realizzato l’unità della Vita, è impossibile il solo pensare di nuocere a un altro essere vivente. E, in effetti, la traduzione letterale del termine "ahiṃsā" sarebbe proprio "volontà di non nuocere", tanto che Gandhi stesso si farà presto “persuaso” a intenderlo, piuttosto che nel senso, troppo semplicisticamente negativo, di "assenza di violenza", incolpevolezza, o nonviolenza (nonviolence, il cui conio in forma “univerbata”, senza trattino tra la negazione e il sostantivo, gli anglosassoni attribuiscono proprio ad Aldo Capitini), in quello propositivo che ha un qualcosa che oltrepassa l’innocenza, l’onestà, la rettitudine, la schiettezza.

Satya

Si sfora così in Satya; quasi come se si trattasse delle “osservanze” (Niyama: Śauca, purezza; Saṃtoṣa, contentarsi; Tapas, austerità; Svādhyāya, studio; Īśvarapraṇidhāna, offerta di sé). E lo psicoanalista tedesco, naturalizzato statunitense, Erick H. Erikson si convinse che Gandhi intendesse e attuasse ahiṃsā appunto nel rispettare la verità (Satya) che è nel prossimo (Gandhi's Truth: On the Origin of Militant Nonviolence, 1969).

Consapevolezza di favorire l’energia dell’esistente

Ahiṃsā, tuttavia, consiste nell'appello ad altra "forza", distinta dalla volontà di dare la morte, anzi, a quella opposta (con amore, dare la vita), pertanto consapevolezza di favorire l’energia dell’esistente, con particolare deferenza indistintamente per tutte le creature, e, innanzi a tutte, per quelle in difficoltà e per le indifese.

Vegetarianesimo

Capitini la dimostrava in maniera efficace con la pubblica e, per i suoi tempi, clamorosa pratica del vegetarianesimo. Non nutrendosi della carne di animali macellati, al massimo di derivati da essi senza crudeltà (latte, miele, uova non gallate), e di prodotti della terra, si realizza il riconoscimento del “valore” della loro esistenza e contemporaneamente la maggior “persuasione” che non si debba ricorrere alla violenza in nessun caso.

La pratica vegetariana arricchisce, in tal modo, la vita spirituale e  ci fa sentire nell’intimo qualcosa di quieto, affettuoso e genuino (Elementi di una esperienza religiosa, Laterza, Bari 1947). 

Il proposito empatico nei confronti degli animali di certo migliora la nostra indole, sia per il nuovo sguardo affettuoso che rivolgiamo verso di loro, che per il senso di cooperazione che con loro riusciamo a stabilire, una volta definitivamente accantonata la sadica intenzione d’annientarli e nullificarli.

Un’estetica contemplativa

«La concentrazione sul cibo, e sugli oggetti che via via accostiamo, anche fuori dal pranzo, è uno dei consigli che il buddhismo zen giustamente  impartisce ai suoi adepti»- scrive Giacomo Zanga, in Filosofia del vegetarianesimo (Bresci, Torino 1987). Nell’accentuare il gusto estetico, aiuta una piena fruizione dell’istante vissuto; e lo completa, rifinendolo in una compiutezza che appartiene «a quella morte immensa in cui da tempo sono spariti anche i firmamenti».

Asàrotos òikos

In tale concezione universale, nessun’altra attività, come desinare insieme, può essere considerata occasione di festa, per sua natura, estesa alle anime dei defunti, a essa co-invitate persino ogni volta che si lascino degli avanzi sulla tavola, come nell’antica consuetudine dell'asàrotos òikos (ἀσάρωτος οἶκος, pavimento non spazzato), ricordato dai mosaici d’età classica.

Per gli indù, l’offerta del pasto oltremondano, che rende omaggio agli antenati (pitṛ), veniva denominato Śrāddha (fiducia, devozione - dal proto-indo-iranico *ćraddʰaH-, credere), affine all'antico avestico zrazdā- (devoto, fiducioso, credente), all'antico irlandese creitid (credere), o al latino crēdo (dare credito, affidare). Una preghiera e un rito, insieme.

Astenersi dal collaborare

Grazie a Gandhi, il rifiuto d’ogni atto di violenza, già, in primo luogo, proprio contro i rappresentanti e i sostenitori del potere cui ci si oppone, s’estende, in occidente, anche nella non-collaborazione (resistenza nonviolenta, e passiva), articolandola nelle forme della disobbedienza: a determinati ordini militari (obiezione di coscienza), o altre norme e codici, secondo il precetto capitiniano: “io disobbedisco, ma il mio disobbedire è la dimostrazione d’un mio credo superiore; accetto l’eventuale pena comminata, ma d’una legge ingiusta ed errata, a dare esempio, alle coscienze inquiete, d’un bene per tutti”.

Per confermare il valore della propria dottrina, neanche Gesù, con la “complicità” di Giuda, sfuggì all’arresto, alla condanna e al supplizio della croce, altrettanto Socrate non volle sottrarsi alle leggi dello stato ateniese e bevve la cicuta, persino ricordando a Critone di dover pagare il relativo tributo ad Asclepio.

L’offerta ad Asclepio

Ma l’offerta al dio della medicina era un tradizionale ringraziamento da parte di chi guariva da una malattia. Socrate intendeva dire, allora, che la vita in generale è un “morbo” dal quale ci si libera solo grazie alla morte?

Da questo punto di vista, per Nietzsche, Socrate fu un “equivoco” (o un “ainigma”?); come tutta la morale del miglioramento, anche quella cristiana...

Sokrates ist kein Arztder Tod allein ist hier Arzt…”

«La più accecante luce diurna, la razionalità a ogni costo, la vita chiara, fredda, prudente, cosciente, senza istinto, che resiste agli istinti fu essa stessa solo una malattia, un’altra malattia – e assolutamente non un ritorno alla “virtù”, alla “salute”, alla felicità... Dover combattere gli istinti – questa è la formula della décadence: finché la vita è ascendente, felicità è uguale a istinto.Ha compreso anche questo, il più accorto di tutti gli ingannatori di sé stessi? Si è detto questo alla fine, nella sapienza del suo coraggio verso la morte?... Socrate volle morire: – non Atene, ma egli stesso si dette la coppa di veleno, egli costrinse Atene alla coppa di veleno... “Socrate non è un medico, sussurrò a sé stesso: solo la morte qui è un medico... Socrate stesso è stato soltanto a lungo malato...”» (Götzen-Dämmerung (1889), Das Problem des Sokrates, 11-12).

Una kènosis

Come la libagione, anche il rito dell’«offerta», sia pur di se stessi, fa indubbio riferimento a un contesto religioso, - ma anche a una kènosis (κένωσις, da kenós, κενός, vuoto –in cui “sta l’uso del carro” di Lao-Tse?), un impoverimento, una rinuncia, un gesto d’abnegazione, che coniuga il mistero dell’eucarestia al precedente mito di Dioniso.

La guarigione dalla “malattia della vita”

È possibile, pertanto, interpretare questa disposizione socratica come un, sicuramente, “contraddittorio”, ringraziamento per la guarigione dalla “malattia della vita”, ma ciò, soltanto dimenticando del tutto il senso “filosofico”, e metafisico, della sua morte.

Altrimenti, diventa evidente la semplice soluzione dell'«enigma» (ainigma, αἴνιγμα, dal verbo ainissomai, αἰνίσσομαι, parlare in maniera ambigua od oscura ed equivoca), nel riconoscere immortale proprio la parte migliore della vita del saggio che ha resistito alla sfida dell'«esistenza storica individuale» nel continuare a presenziarvi “dopo”: il dio della medicina merita dunque un particolare ringraziamento per aver assistito il protagonista e i suoi testimoni, “compresenti”, nella prova suprema.

Cinismo ed empietà?

Talmente inaccessibile ed elevata risulta la religiosità di Socrate che potrebbe essere intesa, in pari tempo ed egualmente, esempio d’eroica pietà o apparire spietato ed estremo cinismo.

Morte, momento di verità

La necessità di chiudere il legame col mondo diviene non solo occasione di testimonianza, ma anche di presagio, o aspettativa, in una terminale conquista di saturazione di verità. Una verità che sembra parteggiare per la morte, oppure un ultimo sacrificio di tutta la serie di esistenze, che, alla luce d’una concezione cosmica dell’amore, ottiene la liberazione finale (nirvāṇa) dal ciclo terreno delle rinascite (saṃsāra).

«Una generazione va, una generazione viene/ ma la terra resta sempre la stessa./ Il sole sorge e il sole tramonta,/ si affretta verso il luogo da dove risorgerà./ Il vento soffia a mezzogiorno, poi gira a tramontana;/ gira e rigira/ e sopra i suoi giri il vento ritorna.». È l’incipit d’un Qoelet dal gusto orientale, taoista o neoconfuciano.

Swaraj

Senza estremizzare sino all’inedia, la modalità di protesta venne riconosciuta dal Mahatma nell’utilità dietetica e spirituale del digiuno, e fu questo, ancor prima della charkha (il telaio che figura al centro della prima bandiera indiana: Swaraj - da sva, sé, e raj, regola-, poi sostituito dalla ruota di Ashoka), a contrassegnare il suo personale dissenso e quello del suo movimento.

Vrata

Si tratta d’un’altra osservanza (Niyama) d’austerità (Tapas)?

Anche se poi il termine Vrata in sanscrito significa "voto, devozione, risoluzione", e si riferisce pure ad altre cerimonie, come il pellegrinaggio (Tirtha), comuni nelle religioni indiane, quali l'induismo e il giainismo.

Dharma

Derivando dalla radice "vr" ("volontà, governo, controllo, condotta, scelta, selezione"), la parola suggerirebbe un significato correlato anticamente a Ṛta (regola, logos) e Dharma (fondamento della realtà, obbligo morale), nel senso di principi interiori e leggi universali che mantengono l'ordine più generale dell’intero cosmo (da κόσμος, in quanto “ordine” del mondo, contrapposto a caos, χάος, il “vuoto” che l’ha preceduto).

Qualunque vocazione si persegua, in cui ciascuno decida di fare del suo meglio, andrebbe allora considerata Vrata.

Un rito sacrificale privato

Sono i testi post-vedici a impiegare questo termine come una forma di restrizioni autoimposte su cibo e comportamento, a volte con un voto. Quindi, questo concetto s’è andato evolvendo come un sacrale rito religioso, personalizzato e interiorizzato, che non necessita d’una cerimonia pubblica, ma che viene osservato privatamente. Cosicché, il suo significato conserva un senso di sacrificio personale (digiuno, o dieta ristretta che sia), spinto dal desiderio del benessere dei propri cari, accompagnato da una preghiera a una divinità personalmente definita o amata, in cambio di speranza per il futuro.

Nirjala-vrata

Nirjala- vrata consiste nel digiuno completo, senza neppure bere acqua; da qui il nome Nirjala (senza acqua). A differenza dei normali (e più comuni) vrata, in cui è consentito il consumo di frutta, succhi, latte, acqua e zucchero, l’osservante questo rito (il 'vrati', appunto) non mangia o beve nulla, con l'intento di purificare il proprio corpo nella sua totale integrità.

È comune e diffuso nelle festività indù, come Chhath Puja o Nirjala Ekadashi, undicesimo giorno (ekadashi) della quindicina lunare crescente del mese di Jyeshtha (maggio/giugno).

Samadhi-marana

Un voto supplementare al codice etico di condotta del giainismo consiste nell’estremizzazione della pratica religiosa del digiuno volontario, riducendo gradualmente l'assunzione di cibo e liquidi fino all’inedia: Sallekhana, noto anche come samlehna, santhara, sanyasana-marana o samadhi-marana; porta d'accesso per il futuro avanzamento e progresso sul sentiero della definitiva liberazione (Mokṣa), e vero Nirvāṇa (estinzione del soffio vitale).

Un rito di passaggio

Per ottenere una morte propizia, l'intera vita dev’essere regolata e pura, perché tutti gli sforzi e le penitenze si rivelerebbero sterili e inutili, se l'aspirante non incontrasse la sua fine come un coraggioso e invincibile guerriero, che l’affronta con pace, serenità ed equanimità.

A vrata si possono accompagnare altre cerimonie, come la carità o la visita a un tempio, a volte osservate durante una festa o saṃskāra (rito di passaggio). Ma sono le Upanishad indù a concettualizzare Vrata come un processo comportamentale ed etico d’una disciplina interiore, in cui si dimostra devozione verso il cibo, ci si dispone ad aiutare i bisognosi, accogliere lo straniero, o il diverso, e si ci si continua a immergere nella ricerca della conoscenza, mediante una meditazione silenziosa.

Lo sciopero della fame e del silenzio

Così come il vegetarismo precede il digiuno, quest’ultimo conduce a quel mutismo dovuto al rifiuto della comunicazione orale (quasi che fosse manifestazione di ostilità, o violenza verbale?).

Eppure, in occidente, lo sciopero della fame, da rito di propiziazione, s’è trasformato in una sorta d’ordalia esortativa e financo ricattatoria. Gandhi soleva ripetere che chi effettua lo sciopero della fame dev’essere disposto sino in fondo a venire convinto dagli interlocutori con cui contratta che c’è un errore nella sua presa di posizione, onde poter porre fine alla sua astinenza dal cibo in maniera dignitosa e tacita.

Mauna

Anche quest’altra pratica di resistenza passiva proviene dalla filosofia indù, dove possiede una voce propria: Mauna (Silenzio), che, si riferisce alla quiete interiore, alla pace della mente, alla Realtà Assoluta e al Samādhi. E i testi insistono sulla corretta comprensione del silenzio, sperimentato attraverso la pratica del controllo della parola.

L’osservanza del voto di non pronunciare verbo potrebbe ridursi semplicemente alla calma, all’atteggiamento della taciturnità o assenza di affermazione e comunicazione, come pure alla totale astensione da qualsiasi suono.

Satya vs Mithya

Il termine che indica l’«inesistente», Asat, o indescrivibile, opposto a Ṛta (regola, ordine, verità, logos), differisce dalla parola Mithya, che significa falso o non vero, eppure è il linguaggio della non-Esistenza il fondamento originale per cui tutti i suoni contano, l'origine d’ogni percezione organizzata, come la base della medesima trascendenza.

Un’altra forma di inazione

Nel senso di "non-Esistenza", Asat, equivale allora a "inazione", e corrisponde semplicemente al silenzio; mentre, nel senso di "oscuramento", "copertura" o "caos", è puro rumore.

Svarupa

Il nucleo più intimo del nostro essere, privo anche della più piccola traccia del pensiero primordiale ("io") è svarupa (sé essenziale), stato d’assenza dell’ego, così individuata nel mauna (silenzio).

Tradurre il pensiero in parola e questa in fatto?

Se Satya è una qualità del parlare, Dharma è l'attualizzazione d’un discorso non menzognero (Ṛta) e Capitini, convinto della necessità d’una dimensione religiosa nella società, come nella vita privata dei singoli, traduceva, proprio per rivelare la propria coerenza interiore, il suo pensiero nel parlare e il parlare in “fatto”.

Satyāgraha

Per Gandhi questa sarebbe dovuta essere la “fermezza in una buona causa” (sadagraha), semanticamente rafforzata poi dalla sostituzione del primo termine con il secondo aṅga delle “astensioni” (Yama), in satyāgraha, quindi fermezza (agraha) nella verità, che nasce dalla forza dell’amore verso l’esistente, visto che la radice Sat significa pure Essere (‘ciò che è’ equivale alla Realtà, che se assoluta si dice paramārtha); un arzigogolato connubio linguistico che contiene anche quell’idea di non danneggiamento propria di ahiṃsā.

Alétheia

In greco, Verità (ἀλήθεια), e dunque il vero, τὸ ἀ-ληθές, contiene quell’alfa privativo che per i greci annullava ciò che prima era “velato”, non più velato, quindi dis-velato.

Ciò che manca di “velatezza” è qualcosa come un sipario strappato, equivalendo così a una brusca rivelazione apocalittica, che tale è difatti il significato di ἀποκάλυψις; una “svelatezza” che necessariamente conduce alla verità ultima, ed escatologica, consistente in una “contemplazione”, a metà strada tra la visione, apparizione, e la conoscenza - anch’essa visiva, visto che si viene a sapere in quanto s’è visto?

Una rivelazione culturale di rimbalzo

Per quella strana forma d’antropologica acculturazione, per cui i principi d’una data civiltà vengono assorbiti da un’altra cultura e a quella restituiti dopo una qualche mediazione, lo Śhākāhāri (in sanscrito, letteralmente: “mangiatore di verdure”, per via dell’abitudine giainista della madre) Gandhi si sarebbe riaccostato agli insegnamenti dietetici della famiglia d’origine, e ai suoi valori morali, a Londra, entrando in un ristorante vegetariano di Farringdon Street.

Il regno di Dio è dentro di noi

Il Mahatma, che riconosceva in Mazzini uno dei suoi principali maestri spirituali per quanto riguarda il processo d’unificazione nazionale del proprio paese, ammise d’essere rimasto profondamente colpito dalla lettura del Tolstoj de Il regno di Dio è dentro di noi (1893), che nel titolo cita un versetto del Vangelo secondo Luca (17, 21: «ἰδοὺ γὰρ ἡ βασιλεία τοῦ θεοῦ ἐντὸς ὑμῶν ἐστιν.»).

Porgi l’altra guancia

In tale saggio s’espone la dottrina della «non-resistenza al male per mezzo del male», basata proprio su quel Discorso della Montagna, riportato ampiamente da Matteo (5, 1; 7, 29), a cominciare dalle celebri Beatitudini (5, 1- 12: Μακάριοι), ma soprattutto sull’invito a non reagire alle offese (5, 39: «ἐγὼ δὲ λέγω ὑμῖν μὴ ἀντιστῆναι τῷ πονηρῷ· ἀλλ’ ὅστις σε ⸀ῥαπίζει ⸀εἰς τὴν δεξιὰν ⸀σιαγόνα, στρέψον αὐτῷ καὶ τὴν ἄλλην·», io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l'altra).

Civil Disobedience

A sua volta Tolstoj era stato ispirato da Resistance to Civil Government (1848, poi Civil Disobedience), di Thoreau, che vi scrive della necessità di disubbidire a leggi ingiuste, o perlomeno d’attuare una sorta di "boicottaggio" a esse, mediante una “non collaborazione” col governo che le ha imposte.

Cominciando dagli ultimi

A metà strada tra Tolstoj e Thoreau, quello che John Ruskin considerava il proprio libro più importante, Unto this Last (Fino all'ultimo, 1862, e poi: Cominciando dagli ultimi), riguardante l'attacco all'individualismo capitalistico, al quale l’autore contrapponeva l'ideale d’una società organica, alla maniera di Saint-Simon, in cui le classi fossero tra loro coordinate, senza egemonie, da parte dello Stato.

Perseguimento della felicità sociale

Nell'ultima fase della sua vita, il fondatore del socialismo francese, alla promozione della società “industriale tecnocratica” sostituisce un ideale di tipo religioso, poiché tecnica e industria non sono sufficienti per dare felicità sociale a quegli operai, le cui misere condizioni, li relegano a restare “la classe più numerosa e più povera”.

Un “Nuovo Cristianesimo”

Ritiene più efficace che si diffonda un “Nuovo Cristianesimo” (Le Nouveau Christianisme è il titolo d’un importante scritto del 1825), capace di realizzare il messaggio evangelico dell'amore per il prossimo in ogni dove.

Omnicrazia

In nuce”, una capitiniana “Omnicraziain fieri (si badi bene non democrazia, potere del démos, δῆμος, "popolo", bensì governo di Tutti, e di “tutti i Tu”- “… sei me”), fatta di condivisione in una “Realtà liberata”, aperta a ognuno, nessuno escluso, e all’idea stessa del “ritorno dei morti”, inteso come éskhaton  (ἔσχᾰτον) d’una loro presenza mai davvero annichilita, anzi migliorata dal rapporto coi viventi e dal loro eksistere (da ex-, "avanti, o fuori", e sistere, "mettere in risalto"), oltre i limiti del male, come scrive Roberto Mancini in “L' amore politico. Sulla via della nonviolenza con Gandhi, Capitini e Lévinas” (Cittadella, Assisi 2005).

Forse, di Capitini si può dire l’inverso di quello che scrisse il poeta e latinista Luca Canali di Lucrezio: si sentiva più nella società che nell’universo! (Lucrezio, poeta della ragione, Editori Riuniti, Roma, 1963).

Eskhaton

Ma, questo tempo “ultimo”, che pure viene prima della fine di tutti i tempi, éskhaton, è talmente conclusivo ed estremo da finire per coincidere proprio con questo limite, risultato ed epilogo, che sia il Giorno del Giudizio o la Resurrezione dei defunti, apokatástasis (ἀποκατάστασις) o parousía (παρουσία), in risposta all’invito paolino: “Maràna tha” (⸂Μαράνα θά⸃, Vieni o Signore - 1 Cor 16: 22).

Dopo il nulla

Successivo a questo paradossale insieme di “dopo il nulla” ed éskhaton, che non prevede proseguimento, si rivelerà l’ultimativa consumazione dell’atteso avvento del Regno dei cieli, della Gerusalemme Celeste, e di tutti quei “momenti/ luoghi/ concetti” di cui ci ha parlato la tradizione, non solo cristiana: Terra Promessa, Eden restaurato, Paradiso riacquisito (o di recupero?), o “Temps Retrouvé” da una “Recherche du temps perdu”?

Arché

Ma cos’è un éskhaton ed escape, un “escamotage”, punto di fuga e dispositivo “illogico”, sotto forma d’un ideale, e quindi del suo stesso contenuto, quale “struttura da destrutturare”, o strumento di contro-interpretazione?

Dall’escatologia occorre, forse, tornare indietro a una sorta di metafisica, solo filologicamente, “archeologica”, riferita all’ἀρχή dei presocratici, per scoprire che tutta la filosofia occidentale non si sarebbe ancora saputa affrancare da quei due poli misurati dalla prima e dall’ultima lettera dell’alfabeto greco, da quell’Alfa e Omega, che nel rappresentare un primo e un ultimo, sono principio e fine di ciò che ci resta ignoto, anche in quanto non lascerebbero spazio neppure per un qualche, ipotetico, “dopo”, se non nella contraddittoria coniugazione del verbo essere: ἐγώ εἰμι ὁ ὤν,  ʾehyeh ʾašer ʾehyeh (Esodo 3: 14: “sono quello che sono…”) … fui, e sarò; oltre me stesso?

Una teologia inespressiva

La prima parola (e Logos) della teologia, d’una teologia che voglia essere, sia pur anche leggermente, cosciente di ciò di cui deve parlare, consisterebbe nel dichiarare  impossibile profferire un qualsiasi “Verbo”, che sia tale, e riferimento ad altro, sull’argomento, purtuttavia parlandone.

Dire che è impossibile discutere di Dio è già un renderne testimonianza. E, comunque, quale eventuale atteggiamento adottare nei confronti di ciò su cui non possiamo esprimerci, di ciò che non possiamo dire, di quello che non sappiamo, perché non possiamo conoscerlo?

Nonostante tutto, quanto si può appena accennare darebbe inequivocabilmente luogo a sequenze di frasi che, non potendo concatenarsi, incatenerebbero, rivoltolandosi tra loro. E l’unica guida rimarrebbe sempre quell’indicazione impotente di parlare di Dio, pur sempre ammettendo l’impossibilità di farlo.

Gott ist tot!

Subdolamente, in età classica s’era già insinuato il sospetto della sua morte: «Gott ist tot! Gott bleibt tot! Und wir haben ihn getötet!» (Dio è morto! Dio resta morto! E noi l'abbiamo ucciso!), ma ce ne si è accorti allorquando s’è fatta più pressante l’esigenza d’uno sconfinamento della filosofia, dalla prassi mistica, nel pragmatismo spicciolo della politica. Da questa prospettiva, non più autenticamente né teologica né morale, è l’escatologia che si sarebbe andata trasformando, di fatto, in un’ulteriore  teleologia di sé stessa.

Apocalypse Now!

«Je vous le dis en vérité, ce n’est pas seulement la fin de ceci, mais aussi et d’abord de cela, la fin de l’histoire, la fin de la lutte des classes, la fin de la philosophie, la mort de Dieu, la fin des religions, la fin du christianisme et de la morale (ça, ce fut la naïveté la plus grave), la fin du sujet, la fin de l’homme, la fin de l’Occident, la fin d’Œdipe, la fin de la terre, Apocalypse Now (…). Et quiconque voudrait raffiner, dire le fin du fin, à savoir la fin de la fin, la fin des fins (…) qu’il faut encore distinguer entre la clôture et la fin, celui-là participerait, qu’il le veuille on non, au concert» [Vi dico la verità, non è solo la fine di questo, ma anche e prima di tutto di quello, la fine della storia, la fine della lotta di classe, la fine della filosofia, la morte di Dio, la fine delle religioni, la fine del cristianesimo e della morale (quella fu l'ingenuità più grave), la fine del soggetto, la fine dell'uomo, la fine dell'Occidente, la fine dell'Edipo, la fine della terra, Apocalypse Now (…). E chi volesse affinare, dire la fine del fine, cioè la fine della fine, la fine delle fini (…) che bisogna ancora distinguere tra la chiusura e la fine, quello parteciperebbe, se lo volesse oppure no, al concerto. - Jacques Derrida: D'un ton apocalyptique adopté naguère en philosophie, Galilée, Paris 1983).

I morti danno vita ai vivi

La “compresenza” tra i defunti e i viventi di Capitini sussiste nella sospensione temporale del “qui e ora”, un “hic et nunc” che ne risolve l’impegno dell’attuazione e annulla l’ainigma (αἴνιγμα) della risposta/ oracolo di Clitemnestra nel terzo episodio dell’eschileo Khoēphòroi (Χοηφόροι): «δόλοις ὀλούμεθ᾽, ὥσπερ οὖν ἐκτείναμεν» (d'inganno moriremo come d'inganno uccidemmo), profferito al momento dell’irruzione nel gineceo, accompagnata da un’espressione volutamente oscura: «τὸν ζῶντα καίνειν τοὺς τεθνηκότας λέγω» (che i vivi vengono uccisi dai morti dico” - Coefore, v. 885/6). È il medesimo «spirito di vendetta» che si autoproclama punizione e pena del delitto?

Dei delitti e delle pene

Ma fu la distinzione tra peccato e reato a mettere all’indice il trattato del Beccaria Dei delitti e delle pene (1764). Il reato viene considerato, in maniera laica, come una violazione del contratto sociale, e non come offesa alla legge divina, che invece appartiene alla coscienza della persona.

«Parmi un assurdo che le leggi, che sono l'espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l'omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall'assassinio, ordinino un pubblico assassinio» (Dei delitti e delle pene, cap. XXVIII).

Gesetzliches Unrecht

Successivamente, il dover essere (Sollen) venne pure giuridicamente distinto dall'essere (Sein), in quanto il primo non implica necessariamente l'altro; e ciò che dev’essere non è affatto necessario che lo sia sempre. In caso d’incompatibilità tra i principi di giustizia sostanziale e legge statutaria, insomma, quest’ultima non va applicata, in base alla formula del “gesetzliches Unrecht “ (torto legale) di Gustav Radbruch.

Il soffio della compresenza alita sopra la riflessione sull’umanità e la ricerca che vi sia qualcosa di meglio del semplice diritto penale, e che, nel travalicare il delitto, la condanna del reato non sia lo scopo ultimo della vita.

Spes contra spem

Uno tra i fondatori del Partito Radicale, Marco Pannella, che pure ha espresso come suo  metodo quell'«osare l'inosabile» di Giorgio La Pira, fece spesso, poi, anche ricorso alla formula paolina «… παρ’ ἐλπίδα ἐπ’ ἐλπίδι …» (Romani 4, 18), nel senso di “farsi”, o quanto meno, sforzarsi d’«essere speranza (spes) piuttosto che averne (spem) ».

La contemplazione delle generazioni

Così la tua «discendenza»” (ma leggi: “compresenza”) sarà quella di non perdere mai la speranza, o meglio, non verrà mai meno la speranza nella tua «discendenza», insieme con la memoria nell’elencazione dei nomi dei figli dei figli, o dei padri dei padri, a seconda della prospettiva: Isacco, Giacobbe, Giuda, Fares, Esrom, Aram… fino a Iesse, o a Davide, il cui nome, nella ghematria, corrisponde al numero 14 (7x2), e i cui multipli contemplano le generazioni dei suoi antenati e dei suoi successori.

La compiutezza

Il numero 7, di cui 14 è doppio, e multipli sono 42, in Matteo, e 77, in Luca, nelle letterature semitiche, indica completezza, divenendo simbolo di quella “compiutezza” dei tempi di cui parla Matteo quando dice: «τοῦτο δὲ ὅλον γέγονεν ἵνα πληρωθῇ τὸ ῥηθὲν…» (Tutto questo è avvenuto perché si compisse… - 1, 22) ciò che doveva essere compiuto («ἡ βασιλεία τοῦ θεοῦ»?); e che torna a divaricare quel Sollen dal Sein.  

Compresenza come culto degli antenati?

Antropologicamente, questa memoria collettiva, come la commemorazione dei defunti, rientra nel culto degli antenati a cui si riconosce il potere d’influire sulla vita dei discendenti.

Nanissáanah

Anche la Danza degli spiriti (Nanissáanah) di Paiute (Dance In A Circle) e Lakota (Ghost Dance) era stata elaborata come una specie di predicazione del messaggio d’amore universale, promulgato mediante delle “danze in cerchio”, tradizionali dei nativi americani, che simboleggiavano il percorso celeste del sole attraverso il cielo.

Una visione

L'antropologo James Mooney, che condusse un'intervista con Wovoka (ribattezzato Jack Wilson), confermò che il “messaggio” consisteva nella “visione” di molti dei suoi antenati impegnati nei loro passatempi preferiti, in una bellissima terra piena di selvaggina e nell’ordine di diffondere pace e amore. Le persone dovevano lavorare, astenendosi dal rubare o mentire, né dovevano più impegnarsi nelle vecchie pratiche di guerra o nelle tradizionali cerimonie di automutilazione legate al lutto per i morti. Qualora il suo popolo avesse rispettato queste regole, non avrebbe patito malattie e vecchiaia, e si sarebbe riunito alla famiglia e ai suoi amici nell'altro mondo e alla “presenza” di Dio.

Dance In A Circle Paiute

Se eseguita agli intervalli giusti, la danza avrebbe assicurato prosperità, benessere e accelerato la riunione dei vivi e dei defunti (compresenza). Se ogni indiano dell'Occidente avesse ballato la nuova danza, "Dance In A Circle", per "accelerare l'evento", tutto il male nel mondo sarebbe stato spazzato via, lasciando una Terra, rinnovata, piena di cibo e di speranza.

Ghost Dance Lakota

La Danza dei Fantasmi fu studiata anche da molti mormoni dello Utah, per i quali la concezione del profeta “indiano” tornava familiare; ed erano molti i seguaci della Ghost Dance che reputavano Wovoka un conciliante predicatore e insegnante di irenismo, aspirante a un ideale di fratellanza.

Quaccheri

Anche quanti anglicani del XVII secolo ritenevano stesse scendendo su di loro lo Spirito Santo (altra testimonianza di mistica “compresenza”), riconoscendo ciò in manifestazioni fisiche, ed esteriori, di fremiti estatici, dal termine tremante (quaker), presero il nome di quaccheri.

In quanto figli del regno di Dio e della luce interiore, si sentono chiamati a rigettare la guerra e a proclamare la pace. Rifiutano la lotta di classe, non prestano giuramenti, non si fregiano di titoli onorifici, e in tutte le sfere della vita perseguono una condotta illuminata dalla semplicità e dalla santità. Vestono abiti identici, ripudiano la schiavitù e il consumo di alcolici, come le gerarchie ecclesiastiche e i sacramenti, promuovono opere filantropiche in progetti d'uguaglianza sociale e riforme del sistema penitenziario.

La questione del “thou”

Provenendo dall’antico inglese þū, Thou è affine all'islandese e al norreno þú, tedesco e scandinavo continentale du, latino tu e greco σύ (derivato dall'assibilazione della forma originaria, con regolare occlusiva).

Quando il “thou” cadde in disuso nella lingua inglese standard, persistette in quella di alcuni gruppi religiosi, come appunto la Società degli Amici e, a volte, in forma modificata, in vari dialetti regionali, perché nelle prime traduzioni della Bibbia, così come del Corano, quale seconda persona “singolare”, era usato “thou” e non “you”, con il doppio scopo di mantenere thou in uso e anche di impregnare la trattazione con un'aria di solennità religiosa, antitetica rispetto al suo antico senso di familiarità o, persino di mancanza di rispetto.

La pratica d’abbinare forme con connotazioni formali (plurale) e informali (singolare), equivalente in italiano al dare del voi o del tu, era dovuto all'influenza del francese, in cui,  per riferirsi a qualsiasi persona di rango sociale superiore, si ritiene più riservato ed educato ricorrere alla forma plurale “vous”.

Una modalità per indirizzarsi a una persona da potenziare, o quanto meno a un pari, e mai per stigmatizzare nel prossimo un’inferiorità.

Vivere i “tutti (Tu)” come singoli equivale a partire dalla relazione (“sei me”) e non dalla forza dell’egoismo, sottomettendo quest’ultimo all’incontro e all’accoglienza di infinite possibilità da valorizzare.

Emmanuel Lévinas

Il filosofo francese d’origini ebraico-lituane Emmanuel Lévinas aveva lasciato, nonostante le critiche, un’impressione di disarmante amabilità in Emanuele Severino: «… lui vede nell'essere la radice della violenza; nei miei scritti si mostra che tale radice (che è insieme la radice dell'errare) è la negazione dell'essere. Quando sosteneva il nostro esser-per-l'altro – cioè la nostra responsabilità di fronte all'altro, il nostro essere ostaggio dell'altro, la primarietà dell'etica ecc. – si arrabbiava molto con chi gli dava torto… » (“Il mio ricordo degli eterni. Autobiografia”, Rizzoli, Milano 2012).

Il Volto dell'Altro

«Percepire l'Altro significa vedere la mortalità come tale [...] Il Volto dell'Altro significa richiamo per me, una chiamata. Non lo devo lasciar morire da solo. E neppure lo devo uccidere. C'è qui un comando e una proibizione [...] Comando e proibizione sono le 'sorgenti della responsabilità'. Ho una responsabilità per ciò che è in mio potere. È così. Per ciò che non rientra nello spazio della mia libertà. Sono... consegnato all'Altro ancor prima... di essere per me stesso» (Bernhard Casper: Angesichts des Anderen. Emmanuel Levinas – Elemente seines Denkens, Schöningh, Paderborn u. a. 2009).

Sperare contro ogni cosa sperabile

In “Contro la morte. Sulla filosofia di Aldo Capitini” (Città del Sole Edizioni, Reggio Cal. 2024), Vincenzo Musolino si sofferma sulla fiducia di Capitini in “ciò che è” e non svanisce, poiché «non siamo fatti per la morte ma per la nascita, per il risveglio./ La fiducia nel volto dell’altro come specchio del volto di Dio. La fiducia in un dio da “far nascere”, da crescere, da custodire senza evidenze ma con la volontà creatrice di una necessità coessenziale al nostro respirare e vivere autentico./ È vero, si muore, ma credere di credere, sperare contro ogni cosa sperata, volere e decidere senza rete di protezione e sicurezze, prendere parte in maniera persuasa per l’altro, per ogni vita, significa vincere anche la morte».

Rendere omaggio allo Spirito presente in entrambi

Per Capitini, l’Altro non ci tiene in ostaggio, riflette semmai la nostra immagine, per cui «se io, anche nel silenzio e nella solitudine della mente, rispetto l’immagine di un uomo, affermo in quel momento stesso la mia dignità di uomo, rendo omaggio all’essere spirituale in lui e in me. Chi non rispetta un altro, in realtà non rispetta nemmeno se stesso. Meglio è essere offesi che offendere; bisogna ricambiare il male con il bene: noi non dobbiamo dare che il bene, la vita, l’amore, la luce, la vicinanza, l’atto infinitamente aperto. Bisogna che qualcuno si porti su questo piano religioso, cominci a non rispondere alla violenza, a uscire dall’antagonismo dell’offesa e difesa, e porti il fatto nuovo» (Elementi di una esperienza religiosa, Laterza, Bari 1947). 

Il principe Myskin

E il “fatto nuovo” non è altro se non l'attualizzazione della sacrale Satya nella cerimonia del Dharma, quale contributo al ripristino dell’ordine cosmico, grazie alla tenacia del candore da dostoevskijano principe Myskin, prekrasnyj (прекрасный), inteso esteticamente “bello”, per quanto eticamente buono (kalokagathia, καλοκαγαθία), e dal tono di voce conseguentemente gentile e conciliante.

Il dialogo interiore con l’altro

«Nel disegno di Dostoevskij, Myškin è già il portatore della parola penetrante, cioè di una parola tale che è capace d’introdursi attivamente e con sicurezza nel dialogo interiore dell'altra persona, aiutandola a riconoscere la sua propria voce.» (Michail Michailovič Bachtin: Problemi della poetica di Dostoevskij, 1923).

Ouverture

Per significare il massimo di disponibilità interiore contro quel conformismo, che i francesi stigmatizzano come “routinière” in quanti siano privi d’inquietudine gnoseologica, Capitini adottò in anticipo sull’uso che successivamente ne avrebbe fatto Bergson - di “ouverture” verso i diritti -, il termine “apertura”, pure in quanto approccio, e interesse verso, i poveri e gli sprovveduti, mediante una “democrazia” (omnicrazia) progrediente dal basso; ma anche verso le altre confessioni religiose, le orientali per prime, poi verso la scienza, la bellezza, l’infanzia; i malati, deboli, minorati, e i “minori” di Francesco d’Assisi (e i “minimi” del Paolano), e pure i morti, mediante quella misteriosa tensione della nostra “compresenza” con loro nell’ambito del “valore”.

Una trasformazione della realtà

«… Bisogna aprirci a una trasformazione della realtà stessa. Se queste due aperture, che sono intrinsecamente una, sono importanti [l’amore e la liberazione] la religione è, dunque, cosa fondamentale, e nello stesso tempo transitoria. …. Ma oltre l’apertura , come ne parliamo e come la pratichiamo e promuoviamo nella situazione drammatica del mondo, c’è la realtà pienamente realizzantesi, la realtà estrema l’eschaton di altre aperture che non sappiamo» (Religione aperta, Vicenza 1964).

Democrazia trascendente

Per Bergson, una società “che si apre” trova la sua espressione politica solo nella democrazia, e «di tutte le concezioni politiche è, infatti, la più lontana dalla natura e l'unica che trascende, almeno nelle intenzioni, le condizioni della “società chiusa”».

Quest’intenzione mira a un'organizzazione delle relazioni sociali, che è l'opposto dell'ordine richiesto dalla società chiusa. La democrazia attenua il dimorfismo dell'uomo sociale, impegnando ogni individuo che diventa cittadino, a esercitare la propria autonomia politica nella partecipazione attiva alla vita pubblica.

Ma soprattutto tende alla realizzazione di tutti gli uomini in seno a un rapporto fraterno?

Servizio dell’impossibile

In ciò, «La religione è servizio dell’impossibile, rifiuto di accettare i modi attuali di realizzarsi della vita e del mondo come se fossero assoluti e gli unici possibili; e chi l’ha detto? […] nella religione, non basta l’amore agli altri e il sacrificio per loro, perché questo non è che uno dei due elementi: occorre ci sia anche l’altro, la liberazione per tutti, la prosecuzione di tutti in una realtà liberata» (Religione aperta, Vicenza 1964).

Come il vero (Satya) e l’essere (Sat), dunque, neanche la Realtà ultima (Brahman, “colui che è”, Sat) può venire “uccisa”, poiché è semmai la manifestazione (sṛṣṭi) destinata al continuo dissolvimento (Nitya-Pralaya), per opera della Natura (Prakriti), a completamento di cicli ed età (kalpa); pertanto, non potendo eliminare ciò che non può morire, un satyagrahi non teme la morte, che considera anzi il dono estremo con cui offrirsi alla propria causa e al suo stesso avversario, nella consapevolezza che anche in questo modo serve il bene di tutti.

Liebe/ lebe

Franz Grillparzer paragona quest’azione (nonviolenta e immortale) alla continuità d’un sogno che si fa vita nell’amore: del resto anche linguisticamente, in tedesco, per distinguere l’amore (liebe) dal vivere (lebe) non c’è che una sola e semplice “i”. «La speranza è che coloro i quali hanno vegliato durante la lunga notte possano incontrarsi con quelli  che verranno nel nuovo mattino» (Der Traum, ein Leben, 1834).

Così il satyagrahi guarda alla perdita della vita come a «una porta verso la beatitudine. Quando ci viene insegnato che il nostro proprio corpo e la nostra anima si uniscono e poi si separano, dimmi quale persona saggia dovrebbe essere tormentata dalla separazione dagli oggetti esterni dei sensi?».

Nel Raghuvaṃśa, Kālidāsa scrive: «i saggi dicono che è la morte lo stato naturale delle creature incarnate ed è la vita un cambiamento in quello stato…» (8: 88-90). 

Nessuno, allora, muore mai veramente, perché è già morto prima di nascere, e alla fin fine, riprende il posto che gli spetta, e, appunto, da sempre gli appartiene.


 

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10 Settembre 2024

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