Dalla Befana alle Pupazze, Corajisime/Kreshёmeze, Skarcopolli e Pupugheji, Dordolecët e Kukulla: una riemersione della tradizione lunare in area mediterraneo-pelasgica? Non solo!
Allorquando, verso la fine degli anni ’70 del secolo scorso, nel rincorrere la riforma conciliare del Codice di diritto canonico verso una sempre maggiore essenzialità, si aprì un acceso dibattito sull’opportunità circa la cancellazione dal calendario civile delle feste infrasettimanali; a farne le spese furono quelle meno significative, e poco tradizionali forse, per aver perso di valore nel tempo (60 anni dalla conclusione del primo conflitto bellico mondiale: 4 novembre), o per riuscire a riacquistarlo solo al ricorrere di determinati anniversari più importanti (unità d’Italia: 17 marzo 1911, 1961, 2011), mentre per la conservazione di Santo Stefano, Capodanno e Pasquetta valse la giustificazione di allungare il “ponte” delle vacanze principali dell’inverno e della primavera. La discussione si protrasse però ancor più sulle festività religiose che non potevano venire spostate in automatico alle vicine domeniche, riconosciute solennità primordiali (Genesi II, 2: “E il settimo giorno… si riposò”), a cui non può venire anteposta alcun’altra se non di sommo e autonomo valore (e non solo dalla Septuagesima del Tempo di Carnevale alla Settima di Pasqua). Trattandosi di celebrazioni del mistero essenziale della resurrezione, tale slittamento venne considerato liturgicamente corretto sia per Ascensione che per il Corpus Domini (rispettivamente 40 e 60 giorni dopo la Settimana Santa).
L’Epifania, innestata sul culto pagano di Giano e di Strenia, a chiusura dei Saturnali, s’era imposta in Oriente, nel IV secolo, come commemorazione del “battesimo” di Gesù. Anche il Capodanno, coincidendo con la circoncisione (Berit Milah dell’ottavo giorno dalla nascita), presentava pertanto, dal punto di vista religioso, un sensibile problema, e di non poco conto. D’importanza secondaria vennero definitivamente ritenute le giornate da dedicare ai Santi Apostoli Pietro e Paolo, d’interesse locale, per l’urbe capitolino, e a San Giuseppe, che per giunta ricorre durante il rigore dell’astinenza quaresimale. Nonostante ricada nel periodo dell’Avvento, invece, ha ben resistito l’Immacolata, la quale pure suscita qualche dubbio richiamo al VI comandamento, non commemorando il concepimento verginale, bensì la concezione della Madre di Dio al di fuori del peccato originale, dunque non soggetta alla morte (Dormizione, Κοίμησις, per la Chiesa orientale), e di conseguenza risultando strettamente interconnessa alla, a questo punto, necessaria Assunzione in cielo e dell’anima e del corpo della Madonna. Si tratta, comunque, di due dogmi del tutto recenti, l’uno proclamato da Pio IX nel 1854 e l’altro da Pio XII nel 1951.
La contiguità con la giornata diffusamente molto sentita dei defunti ha molto giovato all’inossidabile mantenimento di Ognissanti, nonostante l’inequivocabile legame con la dea romana Pomona e la celtica notte delle calende d’inverno (Nos Galan-Gaeaf). L’antica festa pagana gaelica di Bealtaine, corrispondente al nostrano Calendimaggio e alla Levata eliaca di Aldebaran (Alpha Taurus), sulla cosiddetta “Ruota del calendario”, occupa il fronte opposto al Capodanno celtico, Samhain, della durata di tre notti (Trinox Samoni), celebrato con la Levata eliaca di Antares (Alpha Scorpii) e diffusosi adesso a livello globale come Halloween (Oíche Shamhna). Yule segna il Solstizio d'Inverno (prossimo al Natale) e Ostara l’Equinozio di Primavera (che precede la Pasqua cristiana).
Si tratta di significativi esempi di come molte ricorrenze siano legate a precisi avvenimenti astronomici, mentre altre ne dipendano sempre, tuttavia in maniera indiretta. Il Carnevale, infatti, essendo strettamente collegato al ciclo lunare, dev’essere considerato un giorno “mobile”, retrodatato a partire dal Giovedì della Settimana Santa, contando a ritroso sino al Mercoledì delle Ceneri le domeniche di Quaresima, da “quadragēsĭmus dies” (40 giorni) prima di Pasqua, la festività che cade in data diversa ogni anno, perché consuetudinariamente calcolata in base al primo Plenilunio successivo all'Equinozio di Primavera, quindi dal 21 marzo, ed eventualmente fino al 25 aprile (cioè prima delle precedenti licenziosità dei Floralia).
Le celebrazioni per la dea germanica Eostre, equivalente alla greca Estia (latina Vesta), coincidevano con l’Equinozio, invece la Pasqua cristiana (tedesco: Ostern; inglese: Easter), impostata sul modello del Pèsach ebraico, ovverossia la cena rituale della notte fra il 14 e il 15 del mese di Nisan, risente delle influenze del calendario lunare. A partire dal secondo Seder (letteralmente “sequenza”) di Pèsach, la Tanakh israelita (Levitico 23: 15-16) impone poi di “contare” i 49 giorni (Sefirat Ha'omer, conteggio della misura israelita dell’orzo da offrire al tempio) che separano dalla festività di Shavuot (settimane), o Πεντηκοστή, Pentecoste (cinquantesimo) per i cristiani.
La festa ebraica paragonabile al carnevale, Purim (sorti), ricorre esattamente un mese prima di Pèsach, giorno 14 del mese di Adar, almeno negli anni non embolismici, quando cioè, onde sincronizzare il computo “calendariale” ogni 32 mesi solari, non occorre “inserire” l’intercalare d’una “tredicesima” lunazione per approssimarsi così al ciclo stagionale dell’anno “tropico”. Quanti piuttosto regolano la loro convenzionale suddivisione del tempo sulle costellazioni seguono invece l’anno “sidereo”. Ed ecco come si spiega, nella determinazione delle festività, il perché di tante variabili, quando dovute alle fasi mensili, altre volte alla coincidenza con solstizi ed equinozi, oppure alla levata eliaca di alcune stelle (per esempio: Capella, nella costellazione dell’Auriga, per Imbolc/Candelora; Sirio, in Canis major, nel periodo della “canicola” e Lughnasadh, "matrimonio di Lúg", il dio celtico, protettore della divinazione, identificato poi in Sant’Antonio abate, per via del “grande cinghiale bianco”).
Befana
Con il passaggio del calendario romano da prettamente lunare a lunisolare s’individuò una sorta di “interregno” temporale tra la fine dell'anno e il simbolismo della morte, e conseguente rinascita, di Madre Natura nelle dodici notti successive al solstizio invernale (e poi Natale: giorni dei presagi, od “oltre-giorni”), durante le quali delle figure femminili s’immaginava volteggiassero sui campi coltivati, per propiziarne la fertilità; mito da cui deriva la raffigurazione della vecchina “che vola” a cavallo d’una scopa, o della “bambola” ondeggiante al vento sulle piante e, dopo l’inurbamento, tra i balconi delle case. Si possono allora continuare a fare i nomi di Strenia (da cui strenna), Sàtia (dal latino satiaetas), Abùndia (da abundantia), Diana, Hera, Herodiana (Herodiade), Epona, ed Ecate, oppure di Frigg, Holda, Bertha, Perchta, come delle Parche latine, Moire greche, Norne norrene (Urd, il Passato, Verdandi, il Presente, e Skuld, il Futuro), ma pure, a questo punto e con ragione, quello delle “vaganti” elleniche Aleetidi, dalle quali sarebbero derivati i romani «oscilla», figurine di cera (da os-oris, bocca, più estensivamente “volti”), ricordate da Virgilio nel secondo canto delle Georgiche (II, 388-389: “et te, Bacche, vocant per carmina laeta, tibique oscilla ex alta suspendunt mollia pinu”), appese agli alberi, ed esposte al vento per dondolarvi, invitando il dio Bacco/Libero a concedere prosperità alle vigne, durante le festività in suo onore (Liberalia, Paganalia, Sementivae faeriae).
Il mistero della perpetua energia (ζωή) si cela nell’inverno-inferno, dimora dei defunti, governata da un invisibile ma “munifico” Plutone, e proprio da questo Ade proviene il Puer aeternus, e nuovo Aion d’un ordine cosmico che si continua a sviluppare lungo i cicli della vita vegetale. Intanto, il cristianesimo aveva assorbito l'antica simbologia numerica pagana nella dodicesima notte successiva al Dies Natalis Solis Invicti, con la sua “crisi solstiziale di passaggio” dovuta alla regressione al Caos, e all’illud tempus, in attesa del ripetersi della rivelazione; e il fantoccio femminile esposto per l'Epifania, dalla corruzione tutta italica di questo termine greco, ἐπιϕάνεια (apparizione), divenne Befana. O dobbiamo supporre forse una contrazione tra Betfàge (casa dei fichi primaticci) e Betània (casa dei poveri), i villaggi nei pressi del Monte degli Ulivi dove Gesù invia i discepoli per slegare il puledro dell’asina da cavalcare poi, il 9 del mese di Nisan, durante l’ingresso trionfale in Gerusalemme (Marco XI, 1-2; Luca XIX, 29-30; Matteo XXI, 1-2), e di conseguenza momento definitivamente iniziale della Settimana Santa (Hoshaná, ὡσαννά, del Pesach, “passare oltre”/trapassare, e dunque “crisi” equinoziale?)
Durante i dodici giorni tra Natale e l’Epifania, nelle campagne francesi, tedesche o inglesi, si svolgevano delle danze licenziose con maschere di vecchia o anche di cerva (per cui le Calende di Gennaio prendevano il nome di Cervula), finché il disordine del Caos non viene riassorbito nell’Ordine del Cosmo e dalle tenebre della “crisi solstiziale” non rinasce lo splendore della luce. A questa riemersione tumultuosa, e successivo contenuto rientro nei ranghi d’oltretomba di defunti, insieme con gli dei ormai superati, Odino/Santa Claus e Hölle/Befana, i quali, dopo aver svolto la loro competente funzione “distributiva”, momentaneamente svaniscono, Mircea Eliade (1907-1986) attribuì la denominazione di “complesso cultuale del visitatore”.
Nel meridione d’Italia, una scopa di saggina si poteva lasciare sull’uscio di casa, come altrove s’appende sulla porta l'Eguzkilore basco (Carlina acaulis, "fiore del sole", piuttosto simile al cardo, che, assieme alla "swastica", o Lauburu/quattro teste, è uno dei tipici simboli dell’Euskadi), per non farvi entrare gli spiriti maligni, costretti a fermarsi e contarne i molti fili, o brattee dell'infiorescenza, facendosi così sorprendere dalla luce del giorno senza aver terminato l’ingrato, e anancastico, compito.
In pianura padana, in coincidenza con le Feriae Sementivae, l’ultimo giovedì del mese di gennaio (circa una settimana prima della Candelora, il 2 febbraio, che al nord viene considerata l'ultimo scampolo di festività appartenente ancora a quelle natalizie), è prevista la riaccensione di grandi falò per bruciare sul rogo un fantoccio di paglia vestito di stracci, in rappresentanza della Vecchia dell’Anno Passato, un alter ego della Befana, detta Giöbia, o Giubiana (Joviana da Giovia, femminile di Giove). Ma è come se fossero antiche, e dimenticate, dee a rifondere l’astro solare nel calderone delle streghe. "Double, double toil and trouble;/ Fire burn, and cauldron bubble." (Macbeth: atto IV, Scena prima).
La stagione pre-quaresimale (nei paesi dell’Europa settentrionale: Shrovetide) corrisponde al periodo di preparazione che precede la liturgia della Quaresima, con inizio alla domenica di Septuagesima (incluse la domenica di Sexagesima e la Quinquagesima, o domenica di Shrove, e il lunedì successivo), e culmine nel martedì di Shrove, o Mardi Gras, che segue sempre una prima falce della luna nuova di febbraio.
Quaresima
Dal punto di vista numerologico, risulta evidente la valenza del ternario (Trinox Samoni, tria Fata), del quaternario (quaresima, quarantana) e di conseguenza del duodenario (che caratterizza lo zodiaco, e la pienezza dell’anno, composto di dodici mesi, e 30 x 12 più i 5 giorni supplementari, epagomeni, a cui s’aggiunge un sesto ogni 4 anni, per il bisestile), come del settenario (settimana e periodo di ciascuna fase lunare) e del coerente quadrato (7x7= 49, Giubileo ebraico, Yōbēl, al termine dei sette cicli di Shemittah - Levitico 25, 8), nonché del ritorno all’unità successiva (50 in quanto uno dopo 49, cinquantesimo, Pentecoste). Nella Cabala è senza dubbio il sette a rappresentare la suddivisione divina, la quale a partire dalla settimana della Creazione contempla la durata stessa del mondo, di 7.000 anni (e il 7millesimo è il Millennium, Grande Shabbat). Nel libro della Genesi (7, 4), a Noè vien detto: “Tra sette giorni farò piovere sulla terra per quaranta giorni e quaranta notti…”, collegando in tal modo il diluvio sia a quaternario che a settenario, purificazione e rinnovamento dell’intera creazione.
Pertanto, quando nella ricorrenza del mercoledì delle ceneri si ripropone un analogo fantoccio di megera, detto “la Vecchia” (che a Girifalco indossa l’abito tradizionale della pacchiana, ma, a Rota greca, in controtendenza, - sempre che non si tratti d’un fenomeno di moderna reinvenzione della tradizione -, appare pronuba, nel costume storico, risalente al 1745), la mano destra della quale regge un filo di lana con un fuso, l’identificazione con la Moira Lachesi (da λαγχάνω, tirare a “sorte”), forse più che con Cloto (la filatrice, ma non con Atropo, colei che recide), e l’accostamento alla celebrazione ebraica di Purim (sorti, per pareggiare le quali si opera Tzedakah, giustizia/carità) e alle streghe basche (Sorginak, generatrici di destino), intente a recitare le formule del Sabba (Akelarre, in euskara, o Prato del Caprone), sembrerebbero quasi del tutto scontati.
La cima del fuso, il mitografo alla corte estense Vincenzo Cartari (1531-1569), nelle sue celebri Imagini (1556), la paragona alla punta della lancia, o freccia, sorretta da Venere, “colei che mostra la via alle Stelle… d'onde viene la generatione … per ammonirci della fragilità della vita humana, il principio, e la fine della quale era in potere di una medesima dea.”
Tuttavia l’intrinseca prolificità di questa rappresentazione esplode in numerose riproduzioni ternarie (Parche, Norne… le profetesse dello shakespeariano bosco di Birnam, ecc.), mentre la Quaresima, Quarantana (a Ruvo di Puglia), Curuèmm (a Villapiana), Caremma (nel salentino, dal francese carème), si moltiplica, come in una specie di corteo notturno da “Caccia selvaggia” (Dianaticus, “exercitus mortuorum”, “familia Herlethingi”, o Masnada di Hellequin, Re dell’Inferno, e poi maschera della Commedia dell’Arte), in eptadi di Corajisime. E il tubero (ma a Campana, in provincia di Cosenza, un caciocavallo) intorno al quale s’inseriscono circolarmente “sette” penne di gallina, non più ovaiola, tradisce platealmente una simbologia ginecologica, sia di riferimento anatomico (alla “patata”), sia di quel tal periodo d’interdizione dall’attività sessuale (“quarantena”) forzata, o provocata dalla fisiologica menopausa.
Il fatto che solitamente si espongano in numero di sette (come a Irsina, in provincia di Matera, o a Sambiase, dove vengono identificate in successione con i nomi di Anna, Rebecca, Diana, Lazzara, Susanna, Palma e Santa, e associate a dei rametti, cardi secchi, una sarda salata, fuso e conocchia, per significare il periodo di digiuno e di filatura; mentre a Castellaneta una diversa identificazione prevede, tra ovattatrice, filatrice, preparatrice delle spolette, tessitrice e sarta, qualche mastro fornitore d’attrezzi: Ièn/Anna, Paien/Pagano-Carnevale, Rubett'/Roberta, Susann/Susanna, Lazz'r/Lazzaro, Palm/Palma e Sant) rafforza quella loro valenza da calendario simbolico nell’attesa della Pasqua, analogo al duodenario (contando dal giorno della “vergine saggia”, con riferimento a Matteo 25: 1-13, di nome Lucia) dell’avvento natalizio (ripetuto poi da Natale all’Epifania, per la vecchia Befana), in modo da scandire con il necessario rigore il tempo quaresimale, nei suoi quaranta giorni di comportamenti sobri e privi di eccessi, di penitenza e astinenza, anche dalle carni, dallo strano parallelismo nei confronti dei cibi contenenti agenti di lievitazione (Chametz, in ebraico), vietati durante la festa ebraica di Pèsach.
Il simbolismo alimentare viene arricchito da collane di turduni (castagne), uva passita, fichi secchi, peperoncini, spicchi d'aglio, foglie d'ulivo secco, sarde e aringhe, che esulano dal divieto quaresimale, ma a volte paradossalmente anche dall’ammissione d’un pezzo di guanciale, che rimarca il contrasto con la rinuncia dei giorni di magra dopo il periodo grasso. Durante le sette settimane non si potevano mangiare dolci e neanche cucinare in modo troppo elaborato, proprio come dopo un evento luttuoso; neppure ci si doveva pettinare i capelli, né si doveva cucire, aggiustare i letti, o spazzare il pavimento (ασάρωτον) in onore dei defunti.
In certe località, nel cosentino per esempio, ritorna con assidua puntualità il settenario elenco delle cose da affiancare alla “Comare secca”, e allora ecco i sette sacchetti contenenti mpusaglie (ceci, fagioli, lenticchie, cicerchie, fave, piselli, lupini), sette tortaniaddhi (tarallucci di pane intrecciato), oppure una saraca (sardina secca), una coda di baccalà (che a Catanzaro sostituisce la carne nei giorni di magro: ’u morzeddhu d’a Crucia), una patata, una cipolla, un mandarino, un peperoncino, uno spicchio d’aglio, o altrettante padelle di varie dimensioni, ovvero bottigline di vino, aceto, acqua e almeno una d’olio.
A Villapiana, le sembianze femminili della Curuèmm vengono conformate da una maglia nera, sostenuta da due legni incrociati, o da un moderno appendiabiti a cui è stato raddrizzato il gancio, sul quale si fissa a mo’ di testa un’arancia amara; su di essa, a raggiera, dall’alto verso il basso, si infiggono le sette penne, con quella centrale di colore diverso da sfilare per ultima, prima del rogo del fantoccio, in un sacrificio posticipato rispetto a quello del marito: “carnevale morto”; «Ὁ μέγας Πὰν τέθνηκεν» è l’annuncio, riportato da Plutarco (De defectu oraculorum 17), che il nocchiero egizio Thamus deve dare una volta giunto al Pelódes Limén, da identificare con l’antica Buthrotum, attuale Butrinto, a sud di Saranda, nell'Albania meridionale.
Un rito di fuoco che l’ha resa vedova, durante la carnascialesca pantomima teatrale da sguaiata e primitiva Atellana improvvisata; dopo che le vestigia del defunto sono state portate in giro su d’una “barca”, lunare, notturna, assimilabile al “carrus navalis” (processione delle maschere, e “sconfinamento nei mondi” delle anime dei morti), la separazione dal Navigium Isidis si ricongiunge al primo plenilunio successivo all’equinozio primaverile, in cui la resurrezione permette infine la ricomposizione dello “smembrato” Osiris.
Argēi
Nell’antichità classica latina, nei giorni dopo le idi di marzo, s’andava in processione ai Sacella Argeorum (sacrari degli Argēi, intesi genericamente quali intrusi micenei, o forse persino minoici, ospiti di Saturno/ Kronos, in illud tempus, in locus amoenus), a prelevarvi i 24 (o 27) fantocci di giunchi da scaraventare nel Tevere da ponte Sublicio. Per certuni, però, questo lancio avveniva a metà maggio, da parte delle sacerdotesse vestali guidate dalla Flaminica Dialis, vestita a lutto e priva della tipica pettinatura nuziale che le competeva in quanto moglie d’uno dei massimi sacerdoti romani. Una cerimonia di purificazione simbolica per immersione nell’elemento acqua, avrebbe potuto sostituire un rituale geronticidio, oppure un precedente sacrificio umano, eseguito per annegamento, al fine di sancire il termine di quella fase atemporale di sospensione della realtà (iniziata a metà marzo) da ricreare ritualmente (alle Idi di maggio, il giorno successivo ai Lemuria, in onore degli spiriti maligni dei morti), dopo l’avvenuta espiazione.
Intorno all’equinozio di primavera, vengono gettate in acqua, strappate o date a fuoco le effigi di Marzaniok e Marzanna (in polacco; Morena in Macedonia e in Slovacchia, dove viene pure chiamata Kyselica; Mara in Ucraina e Bielorussia; Morana in ceco, bulgaro, sloveno e serbo-croato; Marena e Maslenitsa in russo). Ma la denominazione più significativa dal punto di vista etimologico è Marmora o Mauriena, che maggiormente ricorda il latino Mamurius Veturius, connesso ai sacerdoti Salii, al dio Marte, al mese di marzo e all’anno vecchio (veturius), come ai rituali del pharmakos e del capro espiatorio, e la cui equivalenza con Anna Perenna (la Befana!) ricongiunge il computo ciclico delle stagioni con quello delle fasi lunari.
Il calendario runico si basa sul ciclo Metonico di 19 anni, che correla Sole e Luna. Nel 1611, la prima commedia in lingua svedese dal titolo Disa, composta da Johannes Messenius (1579-1636), spiegava le origini della festa sacrificale del Dàsablàt, in onore degli spiriti femminili o divinità chiamate Dìsir (e Valchirie), divenuta poi mercato annuale ai primi di febbraio (Disting), raccontando la legenda d’un’eroina che si sarebbe opposta al massacro dei deboli e degli anziani strumentale a ostacolare l’eccesso di sovrappopolazione.
“Sega la vecchia” a “mezza” quaresima
Laddove esiste un periodo di “mezza quaresima”, inserito alla metà esatta della quarantana (ad Alife, in provincia di Caserta, il giovedì che precede la penultima domenica di Quaresima), s’assiste come a un rigurgito carnevalesco d’un ulteriore giovedì “grasso”, distratto dalla figura maschile e chiamato "sega la vecchia" (Vciaza, a Forlimpopoli), ovvero (in Abruzzo) “Saghe la vecchia e lu mezze”. Al fine d’interrompere il processo d’invecchiamento della natura, s’abbatte una quercia, come a Calendimaggio (Beltane) per l’albero della Cuccagna, quando si sancisce l’ormai avvenuta resurrezione con il preannunciarsi dell’inizio della bella stagione; ma la danza Maypole può essere eseguita anche a Pentecoste (Whitsun), come a mezza estate (Midsommar), mentre addentare mele che oscillano sulle corde per propiziare l’amore è tipico della Snap-Apple Night (di Halloween). Presso sorgenti ritenute miracolose (Clootie wells), nell’arcipelago britannico, divengono luoghi di pellegrinaggio alberi votivi, adornati con pezzi di stoffa; arbre à chiffons, in Belgio, o arbre à clous. Il rituale del Barisaa dei Buriati siberiani è più affine alle bandiere di preghiera (Lung-ta, "cavallo del vento", più delle verticali aste, darchor) dell’antica religione Bön, che si usa sostituire nel giorno del Capodanno Tibetano (Losar), quale simbolo dell’Ahimsa (pacificazione) per trasfigurarne quindi un originario significato militare.
Nei villaggi di montagna dei Pirenei, la Trontza basca è uno sport popolarissimo, nonché una plateale dimostrazione di forza da dedicare alla propria futura moglie. La domenica precedente la ricorrenza del Patrono, il 3 maggio, ad Alessandria del Carretto, per il rito della Pitë, occorre un abete bianco; il secondo sabato di agosto, a Martone, a fare da "ntinna" (antenna), in onore di San Giorgio, s’usa un faggio.
Le Georgiche di Virgilio
Il citato passo delle Georgiche di Virgilio (II, 388-389) nomina un pino, in analogia all’albero sotto il quale fu castrato il frigio Attis. E nelle versioni di Igino, Apollodoro ed Eliano, del mito dell’«Arianna di Ikarion» (inteso in quanto l’antico demo dell'Attica, situato sul versante nord del monte Pentelico), a venire ucciso dai pastori che ritengono d’essere stati avvelenati dal nettare non ancora “maturo”, o non accortamente tagliato con acqua, come con consona saggezza più tardi consigliò di fare Enopione (Οἰνοπίων, bevitore di vino), ormai divenuto un intenditore, è Dioniso stesso, che allora Erigone piange disperata quale amante amato, in una forma di mania tale da farla apparire un primo stereotipo di baccante. S’impicca, or dunque, alla medesima vite scaturita dal corpo del suo sposo; e l’impersonare una sia pur locale Arianna, dalla nota familiarità col celebre “filo”, l’approssima al lavoro di Clòto (Klothes), di Pròcne, e ancor più alla tela del ragno Aracne, dall’analogo infelice destino.
A una scheggia di lino è “legato” il risveglio di Zellandine, innamorata di Troylus, che, nel quattrocentesco roman di Perceforest (tra le antiche versioni della Bella Addormentata), aveva approfittato del sonno di lei per ingravidarla: "Per i nove mesi, in cui non hai mostrato alcun segno di veglia, hai portato nel tuo ventre questo adorabile figlio che oggi hai partorito! Ma non so chi sia suo padre…". Rivelazione del parto è qui la sottomissione, nei confronti del padre, prima, e dello sposo e del bambino, dopo, che interrompe ogni spensieratezza infantile.
Volando a mezz’aria, in preda ai fragori degli elementi e immerse nell’inclemente frastuono d’un clima sibilante tra indicibili torture operate con gli attrezzi propri dei loro stessi mestieri, la teoria delle Corajisime si propone quasi quale replica “presepiale” d’anime, inconsapevoli e inquiete, incamminantesi decisamente al periodo pasquale. E l’ambiguità che le caratterizza tende ad associarle ancora all’itinerante corteo di dannati che, per quanto infernale, adesso si trova proiettato però, attraverso la funzione penitenziale, - tuttavia non intesa in luogo particolare e definito di espiazione individuale, - d’un purgatorio temporale di cui è stata vaticinata l’universale scadenza con un’ulteriore e certa speranza di salvezza.
Pupazze/Persephoni
Certe tradizioni sono, per lo più, frutto d’un compromesso mitico che a livello storico ha poi permesso il passaggio da un “vecchio” a un “nuovo” cerimoniale senza dover problematicamente affrontare troppi traumi fideistico-religiosi. Le “pupazze” di Bova (Chòra), per esempio, della Domenica delle Palme, s’equivalgono a delle Persephoni: sagome femminili, alcune grandi, altre più piccole, definite ‘madri’ (Δημήτηρ) e ‘figlie’ (Κόρη), nell’intento d’evocare il mito greco dei classici Misteri eleusini; vengono costruite con foglie d’ulivo intrecciate attorno a un asse di canna, e adornate con fiori di campo e primizie, allo scopo di manifestare, con assoluta semplicità, l’esplosione di vita insita nel ritorno alla mitezza stagionale; e la ciclicità della vicenda vegetativa, attraverso il suo assorbimento all’interno delle festività pasquali, ha ottenuto prepotentemente in ambito cristiano una legittimazione della duplice figura/funzione femminile di madre e sposa. E anche le pupazze, smembrate in “steddhi”, vengono “appese” agli alberi per propiziare il raccolto, o sono conservate in casa per un uso apotropaico del tutto domestico. Le foglie d’ulivo benedette hanno il potere d’allontanare il malocchio, mediante il rito dello “sfumicari” (o “spummicari”), ossia fare delle apposite fumigazioni ponendo sulla brace ardente quattro di esse, disposte in croce, con giusto tre grani di sale (4+3=7).
Ragazze “in fiore”
Nella Creta minoica e in Oriente, compaiono miti simili, in culti di divinità maschili, come Attis , Adonis, Osiris. Di certo lo smembramento delle sagome rimanda a culti arcaici, che hanno come protagonisti personaggi tipo Dioniso, Romolo, e ancora Osiride, ovvero a quel cannibalismo rituale sublimato con l’Eucarestia nei confronti del “figlio” del dio cristiano, mentre nel nostro caso specifico le figure oggetto di tanta aggressiva devozione sono simboli speculari di “corpi” femminili “in fiore” (anthos, ανθός, come pure ricorda l’etimologia greca del mese Antesterione, da anthein, ανθειν, «fiorire»), in precedenza predisposti e condotti in corteo soltanto da giovinotti, mentre le promesse spose si sono adoperate, da brave massaie, a impastare i dolci pasquali per il proprio futuro marito, in un particolare periodo festivo in cui tra fidanzati si è soliti formalizzare un ufficiale e beneaugurante “scambio di doni”. Mentre magari altrove, come nel basso Piemonte, il trick-or-treat di Halloween si trasforma in questua di uova (Cantè j'Evu).
Skarcopolli
Qualcosa d’analogo avveniva laddove, in Arberia, la Corajisima viene chiamata Kreshёmeze, però intorno al Solstizio d’Estate, nella ricorrenza di San Giovanni Battista (in arberesco/arbëreshë: Shën i Njanjit), la pagana Litha (nel De mensibus anglorum di Beda: Junius Lida, Julius similiter Lida), con la comparsa di Skarcopolli pa shpirt, il “pupazzo di pezza senz’anima”, che fino a non molto tempo addietro ci si doveva ricambiare entro il giorno dei Santi Pietro e Paolo (Spezzano Albanese), per siglare, in base alla regola della “corrispondenza”, il sacrale patto in grado di creare quel forte legame affettivo, di comparaggio, o “vëllamia”, e quasi di onorata fratellanza che va al di là della stessa consanguineità, fino a rappresentare forse uno degli elementi fondanti della stessa identità arbëreshë. È interessante evidenziare come le ragazze tale vincolo spirituale e di solidarietà lo stringono facendo benedire una sorta di “pupazza” (pupugheji, o pupa e Shën Xhuvanit, a Carfizzi), fatta anch’essa d’erbe odorose e abbellita da freschi boccioli.
Jarilo o Jarovit, il dio slavo della primavera o dell’estate, s’identifica tanto con San Giovanni quanto con San Giorgio (identificabile pure con l’Al Khadir mediorientale), le cui festività vengono denominate Jurjevo o Zeleni Juraj, in corrispondenza con la mitologia dell’uomo “verde”, il britannico Jack o' the Green di maggio (simmetrico corrispondente al Jack o'lantern di Halloween), l’Osiride egizio, l’azteco Tlaloc, il nordico Odino, il celtico Lud, o Nodens, e perché no, l’odierno Babbo Natale (e il suo doppio Krampus), evoluzione moderna dell’archetipo di selvatico. Il festival Užgavėnės della Romuva lituana, è divenuto il giorno di San Giuseppe, quando, in Samogizia, si brucia l’idolo dell'inverno e della morte, detta Morė o Giltine, nell’effige d’una vecchia. E sempre alla festa di San Giuseppe è stato associato il falò precristiano de las fallas di Valencia.
Nel mondo slavo, alla soppressione di Marzanna, legata alla morte, ai fantasmi, agli incubi, alle allucinazioni, segue la rinascita di Lada, Vesna o Kostroma, lo “spaventapasseri” che prenderebbe il nome dal falò (kostyor), a simbolizzare l'arrivo della primavera. Per il giovedì della settima settimana dopo la Pasqua (Semik, e siamo già agli inizi di giugno), erano previste celebrazioni funebri per placare coloro che sono deceduti prima del loro tempo naturale e soprattutto per quegli spiriti inquieti di giovani donne suicide per annegamento, o abusate e uccise, e trasformatesi in Rusalki, o sirene.
Dordolecët
Senza spostarsi troppo, dal punto di vista geografico e storico, scomodando magari Calaveras e Catrinas del "Día de Los Muertos" messicano, che mascherano un cinocefalo scheletro Xolotl tolteco, recentemente e a noi quasi dirimpetto, con la fine del comunismo e del forte autoritarismo d’uno stato apertamente ateo, nonché con la privatizzazione delle proprietà, nella madrepatria schipetara, al di là dell’Adriatico, s’è manifestata la riemersione del fenomeno della protezione dal malocchio con un sommario ricorso ai Dordolecët, una specie di “spaventapasseri”, formati però da comuni giocattoli usati, bambole o animali di peluche, appesi a balconi, recinzioni, alberi da frutto, e ovviamente in particolare viti, a ribadire ulteriormente il legame con i vecchi culti dionisiaci.
Kukull
La tradizione avrebbe forse richiesto una rappresentazione a più netta forma umana, fatta con vecchi vestiti imbottiti di paglia, mentre l’approccio minimalista potrebbe persino arrivare a ridursi a un semplice camicione dalle maniche distese e legate a una staccionata; il consumismo attualmente imperante ha indirizzato le scelte verso i più numerosi vecchi giocattoli dismessi dai bambini, quali morbidi orsetti, o scimmie, e altri animali, pure di plastica, indicati spesso col termine generico: “kukull” (bambolotto). L'ideazione magica s’è puntata sulla ferma convinzione che il Dordolecë abbia il potere di "fissare" su di sé l’attenzione del passante e sviarne la bramosia o invidia, che non resterebbe attaccata a quella proprietà così protetta, come lo sarebbe dovuta essere dalle restrizioni imposte biblicamente dal nono e decimo Comandamento mosaico di non desiderare la casa, la moglie, i servi, il bue o l’asino, “né alcuna cosa che appartenga al… prossimo”. Non esiste tuttavia una netta correlazione tra questa superstizione e le varie credenze religiose presenti in Albania, potendosi riscontrare un po’ in tutte le comunità territoriali, siano esse musulmane, sia cristiane ortodosse, con una minore diffusione però nell'area settentrionale, intorno a Scutari, dove è più presente la fede cattolica. Infatti, questo fenomeno superstizioso appare maggiormente intorno alla città di Saranda, nella parte meridionale del paese, in cui sarebbe più sentita l’influenza culturale ellenica.
«In ogni nodo dico una preghiera»
La caratteristica preminente consiste nella constatazione che tutti questi kukulla, bambolotti o animali di pelouche, siano sempre attaccati, quasi a delle forche, la qual cosa ci autorizza a riprendere in considerazione il rito delle Aleetidi, “vaganti”, come le volanti Befane, e dondolanti a mo’ di latini oscilla e calabre Corajisime. Se i comuni spaventapasseri hanno lo scopo precipuo di tenere lontani gli uccelli dai campi seminati, l'impiego del Dordolecë non risponde all’esigenza di bandire qualcuno, bensì s’affianca a quella vecchia abitudine d’esporre ferri di cavallo, chiodi arrugginiti, mazzi d’aglio, corna e teschi d’animali nei punti strategici delle varie attività umane, probabilmente con la medesima frequenza e nonchalance con cui vengono tenuti in mano, con aria distratta, i classici κομπολόι, che già etimologicamente (σε κάθε κόμπο προσευχή λέω, in ogni nodo dico una preghiera) hanno il medesimo significato di rosari, subhah del dhikr (ripetizione) islamico, o mālā di mantra indù.
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L’anancasmo rituale
Senza trascurare gli aspetti cerimoniali di molti giochi infantili, come la campana, o di manifestazioni convenzionali etno-sociali, a volte risolutorie mediante derisione aggressiva, tipo capramarito (in francese charivari, dal greco καρηβαρία, vertigine), o attraverso interventi concretamente più drastici nell’alleviare una prolungata agonia di moribondi (s'agabbadóra; ereditati da arcaici riti d’avvelenamento dei decrepiti con Oenanthe crocata e conseguente risus sardonicus), e non dimenticando altresì quelle consolatorie, quale il pianto rituale di prefiche, rèpute, o chiangimorti, in generale un po’ tutte le pratiche magiche, o pseudo-tali, richiedono maggiore concentrazione, dai nodi da sciogliere alle varie altre “legature”, tipo l’intreccio di tre nastri colorati, e soprattutto il far roteare vorticosamente su d’un solo piede una sedia di legno impagliata dalla parte della seduta (‘u chiamo d’a seggia), e ciò non soltanto a scopo di sortilegio, seppure suggestivo nel preparare un fugace incontro con l’inintelligibile potenzialità della vita (ζωή), intesa come esistenza incondizionata, senza limiti e senza alcuna ulteriore caratterizzazione.
Il culto di Pan e la gestione del panico
Il fine recondito, e forse inconscio, di talune di queste esperienze consiste nella spinta all’arrendevolezza nei confronti d’una specie di spasmo, tale da sovvertire la fragile sovranità del reale e, grazie all’instabilità della percezione, procurata da cambiamenti disorientanti nella direzione del movimento, autoinfliggersi una sorta di voluttuoso (simil-orgasmico), e parzialmente controllato, stato di panico.
Artemide, Selene, Ecate, Perse-ide/Perse-fone
La semplice ripetitività ludica dell’altalena diventa metafora del ciclo lunare, le cui fasi principali sono rappresentate dalle tre facce della Grande Dea, dapprima “vergine”, per poi essere “ninfa”, e infine “vegliarda” (Luna crescente, Artemide; Luna piena, Selene; Luna calante, Ecate uguale alla Luna nuova, Perseide/Persefone), rispettivamente connesse all’aria, alla terra e al sottosuolo.
ζωή e βιος
Tra la morte e la sensualità v’è un nesso misterico che può essere compreso appieno soltanto assumendo coscientemente il senso religioso di quel movimento della vita preordinato a ritornare su se stesso, in una spirale che lambisce la libidine erotica. È il principio femminile a fornire all’energia vitale cosmica (ζωή, "vita qua vivimus") l’animazione in grado di mettere in moto le singole vite particolari (βιος, "vita quam vivimus") in quell’ondeggiante flusso e riflusso, il quale con le sue carezze oscillatorie eccita i corpi suscettibili a essere provocati ed esaltati.
La Canofiena di Bartolomeo Pinelli (1781-1835)
A Pedace e a Savelli, il gioco dell’altalena s’accompagnava in prevalenza a canti di corteggiamento, richiedenti una risposta a tono; altre volte, approfittando del caos carnascialesco incuneatosi repentinamente in una routine altrimenti fin troppo assestata e senza concessioni di sorta, erano intesi a suscitare ilarità, nel concedersi all’ironia e ai doppi sensi. Durante le vendemmie laziali del XIX secolo il divertimento popolare tipicamente femminile era costituito dalla multipla Canofiena, con accompagnamento musicale, per lo più non strumentale, secondo una tipologia ugualmente riscontrata nei paesi del Maghreb.
La Taurocatapsia minoica
Al fondamento cultuale, sul quale si tende a basare la ricostruzione del mito da cui scaturisce il rito delle Aleetidi, occorre forse un’acquisizione storica più remota, da ricercare nella taurokathápsia (ταυροκαθάψια) minoica (ma riscontrabile anche nell'Anatolia ittita, in Battriana e nella Valle dell'Indo), che sta a conferma, se ce ne fosse ancora bisogno, dell’identificazione dell’Erigone d’Ikarion con l’Arianna del Labirinto, in seno a un’unica Grande Madre mediterranea. Il salto tra le corna del toro, da parte di prestanti quanto audaci giovinotti, ripercorreva atleticamente il moto ondeggiante dell’altalena sulla quale idealmente stava seduta la Dea, mentre il poderoso animale ne rappresentava l’ipostasi teriomorfa.
La Dea sumera seduta in trono
In una statuetta risalente al III millennio a.C., la sumera Ninhursag ("Signora della montagna sacra") sarebbe stata rappresentata nell’atto di dondolarsi sul proprio trono, come su di una comune “seggiola” da far oscillare su e giù, ben prima d’imprimerle il movimento rotatorio del sortilegio di attrazione, o ritorno (‘u chiamo d’a seggia).
Ilinx
L’ebbrezza che strappa al mondo razionale e, ponendoci sull’orlo dell’abisso imponderabile, espone alla visione del “gorgo” (voragine che inghiotte, dalla radice gar, ingoiare), nel quale forze ingovernabili “gorgo-gliano” (gar-garizzandosi con suono gutturale), per Roger Caillois (1913-1978), è da connettere innanzitutto al principio dell’Ilinx (Ίλιγξ), una delle categorie in cui tende a classificare ogni formula ludica, sia pur in maniera non esclusiva; le altre essendo "alea" (άλη), "agon" (ἀγών) e "mimesis" (μίμησις).
L’altalena si potrebbe interpretare allora come un “gioco”/rito che, risolvendolo almeno formalmente, “svolge” il mitico labirinto cretese, in cui si nasconde il mostro interiore, in un itinerario curvilineo; e quello che, probabilmente in origine, era una danza a spirale, un girare in tondo, e attorno, come il corteggiamento delle gru (Ο χορός των γερανών), si dipana nel più sintetico e ossessivo moto pendolare, traducendo il contorto percorso terrestre in continua oscillazione aerea, la cui traiettoria arcuata, nel districare gli involuti meandri in ripetute fluttuazioni, ripercorre le diverse fasi della luna iconicamente rappresentate tutte insieme dalla sintesi della sua falce.
Miti «esistenziali»
Quei miti posti a simbolo dei vari periodi della vita, Raffaele Pettazzoni (1877-1959) li definiva «esistenziali», anche perché inseparabili dai riti che ciclicamente li riattualizzano. È uno dei motivi per cui, tra le altre sue vicissitudini, in una delle sue tante tragedie, il cui finale si compie con il suicido per impiccagione, anche una qualsiasi “Arianna piantata in (N)asso” si potrà identificare con l’Erigone icaria.
Nell’andare a verificare se il tarantismo fosse una patologia specifica o, piuttosto, la manifestazione d’un rito di passaggio dall’espressività molto fisica, Ernesto de Martino (1908-1965) riuscì a rilevare degli elementi simbolici ricorrenti: il periodo della vita (la pubertà e, per le donne, ovviamente il menarca); la recrudescenza ciclica dei suoi effetti; l'efficacia dell’esorcismo musico-coreutico risolutore; l'ora del giorno in cui viene avvertito il primo morso, puntualmente rimarchevole dal punto di vista numerologico, le dodici esatte. Elementi questi, di ordinamento arcaico e ripetizione annuale, inequivocabili per far propendere la rappresentazione liminale, tra sacro e profano, verso la tesi dell’istituzionalizzazione d’un arcaico cerimoniale iniziatico.
Tarantismo
Non meno netto il parallelismo con il “rito/gioco” dell'altalena, per come impostato durante le feste delle Aiora dedicate alla povera Erigone. “Tarantati motum pensilem amant”, aveva già osservato lo iatrofisico dalmata Đuro Baglivi (1668-1707). La sospensione sarebbe stata ricercata soprattutto da quanti si ritenevano morsi da quelle tarantole intraviste o immaginate solite tirare i fili della loro ragnatela dai rami delle piante. L’identificazione con l’aracnoide occupava, in questo caso, la maggior parte della valenza simbolica, avvalorata dal potere esorcistico del luogo prescelto, in mezzo alla natura, tra alberi e in vicinanza di fonti, mentre la liturgia domestica doveva, per forza di cose, limitarsi a una fune sospesa al soffitto, alla quale reggersi nel corso della spasmodica danza, irrefrenabile quanto irresistibile, al suono dell’idonea strumentazione.
Argia
L’Argia sarda si caratterizza piuttosto per “pizzicare” individui di sesso maschile e per i colori: bianco se sposa, nero se vedova, screziata se riprende la livrea del Latrodectus o della Mutilla quinquemaculata, che è però un imenottero; ma l’animale mitico può essere anche una formica, una vespa vasaio (“Sa Varja”, a Mamoiada), oltre che la malmignatta. Chi, maschio, ha subìto la puntura indosserà il costume tipico dell’insetto, nubile o partoriente, nel qual caso ne mima i dolori del travaglio oppure vezzeggia una bambola di pezza. La “farsa” comprende l’esibizione narcisistica del posseduto, mentre gli altri partecipanti, in licenziosi travestimenti, si lasciano coinvolgere con lazzi osceni, prossimi al Charivari. Importante anche il numero delle donne che vanno a eseguire la danza (“Su ballu ‘e sa varja”), di solito all’aperto, ma in luogo appartato, prevedendo l’esposizione dei seni, intorno al “malato” di “neuro-astenia”, dillu (contrazione di dilliriu, delirio, cha dà il nome al ballo tipico della subregione centrosettentrionale del Goceano: “Su Dillu”, e consistente in due saltelli sul piede destro e due sul piede sinistro, quasi come nel gioco della campana; altro etimo, da “dillisu”, “beffa, scherno”). Anche qui ricorre il settenario: sette coniugate, sette vergini, o sette vedove (“su ballu ‘e sas viudas”), come pure il ternario per quanto riguarda i giorni (di degenza) che possono trascorrere dal morso alla rianimazione.
La precarietà della condizione femminile
Il culto della Taranta e il mito di Erigone hanno in comune sostanzialmente quel nodo fondamentale della fase adolescenziale, condensato nella difficoltà di riuscire a costruire una propria identità, tra i tanti timori di cui inevitabilmente si può diventare facile preda. Se il rito non è che simbolica trasposizione del mito, tra le paure ancestrali d’una fanciulla “in fiore”, va annoverata innanzitutto quella di non essere desiderata, e di conseguenza di non poter procreare, con l’istintiva reattiva urgenza di mitigarne le angoscianti prospettive.
La risoluzione coreutica delle convulsioni
Nel mondo femminile, soggetto a crisi della presenza, l'impulso a sfuggire a dettati e aspettative della comunità poteva spesso comportare un forte rischio di suicidio, messo in atto di solito per annegamento, ma ben più frequentemente mediante impiccagione. Se una tale “fuga”, senza alcuna meta concretamente possibile, la si riusciva a imbrigliare in una riformulazione motoria, la modalità dell’appendersi si riproponeva nell’ondeggiare dell’altalena e quella pseudo-convulsiva nella consumazione coreutica.
Atropo, Ecate, Thánatos…
Tutti i riferimenti mitologici di questi riti di passaggio, e contemporaneamente ciclici d’un “eterno ritorno”, riconducono a simboli mortiferi (Atropo, Ecate, Thánatos, “Comare secca”) che, momentaneamente almeno, hanno reso soccombente la potenzialità creativa.
La bambola, che nei giochi infantili fa pensare a un’ideale maternità, in questo frangente non può che essere “di pezza”, stoffa usurata e di scarto (un aborto!), per rappresentare una vecchia a lutto, una prefica in menopausa, e dunque sterile, addobbata per di più con penne di gallina non ovaiola e i colori funerei della negazione dell’esistenza, quindi in dichiarata controtendenza verso qualsiasi atteggiamento festaiolo, bruscamente interrotto dalla carestia a cui si tenta di dare rimedio con digiuno e penitenza.
Implicazioni mito-astrologiche
In certi casi la Corajisima assume l'aspetto metaforico d’un cane rabbioso teso a mordere degli infanti, alla stessa stregua del mastino che, sulla prima lama dei Tarocchi, attacca il viandante sul lato interno della coscia sinistra, procurandogli la medesima ferita maggiormente evidenziata nel malcapitato lottatore azzannato sulla parete destra della Tomba degli Auguri, a Tarquinia, dietro incitazione di Phersu (il “volto” maschile di Phersipnai/ Persefone, e quindi Perseus/Medusa), Genio del Destino (e dunque Ade). Raffigurato cinocefalo, o più spesso con indosso un copricapo a forma di lupo, in grado d’evocare la kynée (ἡ Ἄϊδος κυνέη), fabbricata con pelle di cane (kúon), di cui si ricoprì Perseus, con questa maschera Ade attualizza la potenza dell’oltretomba, mimata da Phersu, proprio come Persefone presiede al mondo degli inferi attraverso il “viso” preso in prestito dalla Gorgone decollata, la cui iconicità in ginocchio, o nell’atto di correre, avrebbe potuto dar vita al noto Triskelion (l’arula di Gela).
Tra gli “spaventapasseri” (Dordolecët) e i “guardiani della soglia” che sbarrano l’accesso ai luoghi proibiti c’è tutta la discendenza di Forco e Ceto, a partire dalle Graiai (da graus rugoso), canute sin dalla nascita. Penphradon è rana vorace del sottosuolo ed Enio riecheggia il grido di guerra alale emesso in onore di Enialio. Anche le Gorgoni (βροτοστυγής), “orrore dei mortali”, possiedono una voce squillante (λιγύφωνοι) da far “gorgogliare” profondamente. La mortale Medusa s’unisce carnalmente a Poseidone sulla medesima soffice prateria fiorita dalla quale Kore viene rapita per essere trasformata in Persefone. Dal collo decapitato di Medusa fuoriescono Pegaso e Crisaore, che genera il tricefalo Gerione, la cui voce ancora rimbomba come l’hypertonon geryma (ύπερτονον γήρυμα) della tromba etrusca, a cui fa eco il coro delle rèpute vociferatrici.
Il cielo del periodo quaresimale
Tra febbraio e marzo (periodo quaresimale), il cielo è caratterizzato dalla luminosità della costellazione del Cane Minore, che sembra quasi agguantare quella dei Gemelli, rappresentati di solito quali fanciullini, eppure Dioscuri. Si tratta di Maera, il cane di Icario, e guida della figlia di quest’ultimo, Erigone (nata dalla primavera e, in quanto amante di Dioniso, personificazione della vigna al momento del suo primo fiorire), presso le spoglie del padre assassinato da ebbri pastori, irriconoscenti verso il messaggio estatico del dio, e a loro volta sbranati dall’animale inferocito dal dolore per la perdita del padrone. Nello stesso pozzo, detto "Anigro", dove era stato scaraventato Icario, si gettò poi il fedele vendicatore, mentre Erigone si impiccò all’albero cresciutovi accanto.
Secondo la mitologia narrata da Igino, in Astronomia Poetica (II, 4) e Favole (130), Erigone venne assunta nella costellazione della Vergine, Maera in quella del Cane minore e Icario in Boote, il «clamoroso», per via dell’ululato del segugio (oppure “colui che spinge avanti il bue” del gran carro dell’Orsa Maggiore).
Complesso/desiderio di castrazione
Nelle Metamorfosi ovidiane (VI libro) c’è un altro interessante resoconto di trasformazioni legate al culto dionisiaco e all’abilità di tessere e ricamare, insieme associati al “rapimento della rondine”. Violentata dal cognato Tereo e resa muta, “senza voce”, Filomela viene vendicata dalla sorella Progne a cui fa giungere una tela eloquentemente ricamata; quest’ultima, travestita da invasata baccante, partecipa a un sacro sparagmos (σπαραγμός, che riduce il mistero del dio a quello della cretese Potnia, Πότνια), offrendo da mangiare al marito le carni dell’incolpevole figlio Iti, unico erede e sostituto del padre. Tutti divengono uccelli: Tereo un’upupa, Filomela un usignolo e Progne una rondine.
La cruda “castrazione” (della lingua) subita dall’una («Guizzò la radice della lingua, il resto giacque sulla terra scura,/ mormorando e tremando come si muove la coda d’una serpe mutilata…» - VI, 555-560) viene compensata da quella metaforica imposta all’aggressore sessuale, privato della progenie e d’una continuità nel futuro. Il valore propiziatorio, durante le feste agrarie, s’intrecciava, assommandone i molteplici significati, con le connotazioni sessuali, riguardo la sfera psichica individuale dei diversi generi e nelle varie età, invertendo il rischio di suicidio delle fertili giovinette con la sterilità della decrepitezza.
“Abisso orrido, immenso…”.
Più «nata all’alba» che «copiosa figliolanza» (eppure entrambi appellativi includenti nei tanti aspetti della Grande Dea), Erigone è soprattutto la raminga “Alêtis”, e non tanto a causa dell’affannosa ricerca di quelle spoglie abbandonate, come gli stracci vecchi con cui sono composte le bambole delle Corajisime, bensì per l’evidente suo carattere lunare, estremamente mutevole. Alla stregua della silenziosa luna in ciel, Erigone non sa che fare se non vagare senza posa, come un viaggiatore errante dell’Asia (canto XXIII): “Sorgi la sera, e vai,/ contemplando i deserti; indi ti posi.”; a volte scompare inghiottita dal mondo infero nell’oscura invisibilità d’un minaccioso novilunio; “ove tende/ questo vagar …,/ il tuo corso immortale?...”; verso un “Abisso orrido, immenso…”, gorgogliante?
Stafilos
Dalla relazione tra Erigone/Arianna e Dioniso nascerà Stafilos, l’argonauta, un’ulteriore incarnazione della vita destinata a morire e risorgere ancora. Così la prima baccante, vergine e amante del dio, ripropone una delle tante personificazioni dell’eterno femminino deputato a presiedere e tutelare il ciclico rinnovamento della Natura. Forse di più, in quanto principium individuationis d’un’esistenza dionisiaca, ancor priva di caratterizzazioni (ζωή, "vita qua vivimus"), arriva a infonderle l’anima, trasformando in attuale (βιος, "vita quam vivimus") la potenzialità seminale della Natura caotica.
Aioresis
In seguito all’atroce delitto, sulla circostante regione d’Icaria s’abbatté una tremenda siccità, o una pestilenza; e per porvi fine Aristeto, figlio d’Apollo, su suggerimento del padre, istituì le festività delle Aiòra, nel corso delle quali le fanciulle provavano a tenersi in bilico sopra un dondolo, cantando una canzone chiamata Aletis (Vagabonda), onde significare, nel simbolismo ludico, la loro inquietudine nel lungo vagare di Erigone quando, ignara del destino dell’amato, lo andava cercando nella foresta.
Errante prostropaios
Il προστρόπαιος (spirito supplice, e vendicativo) della giovane Erigone aveva scagliato contro tutti coloro s’erano macchiati di tanta colpa una maledizione indirizzata alle coetanee onde farle impazzire e impiccarsi in massa; e per placare tale menade ossessa si decise d’istituire l'usanza delle altalene su cui lasciarsi dondolare dal vento: nel corso d’una solenne cerimonia pubblica, poi ripetuta in privato, la "αλητις" appunto; per cui coloro che seguono il rituale vengono chiamate "aletidi", dal verbo αλητευω, errare. Su di un vaso attico a figure rosse (Skyphos risalente al 440 a. C., trovato nei pressi di Chiusi, ma attualmente custodito a Berlino, Pergamon Museum), nell’atto di spingere una donna seduta su un'altalena (ai cui piedi si legge la scritta ΑΛΗ, iniziali di ΑΛΗΤΙΣ), si vede un Sileno incoronato, il che conferisce un’inequivocabile connotazione bacchica alla scena.
Oscilla
Nel rito degli oscilla, praticato a Roma, durante le festività in onore del Dioniso italico, il Liber Pater, per cui Liberalia, il sacrificio delle ragazze, che sarebbe potuto essere cruento alle origini, venne, in seguito, sostituito dall’aggancio sulle piante di dischi, sui quali si raffiguravano dei volti umani, a mo’ di frutti/maschere.
Antesterione
Nel terzo giorno delle Antesterie (Giorno dei paioli, χύτροι, nei quali si cucinavano insieme cereali e miele, panspermia, delle "antiche dionisie"), ovverossia il 13 del mese di Antesterione (Ἀνθεστηριών), all’incirca dalla seconda metà di febbraio alla prima metà di marzo («Ora è venuto il tempo, ora ci sono i fiori»), la scena si spostava a quando il signore del mondo infero, Ade, rapì la Kore intenta a cogliere boccioli nel prato primaverile.
La vicenda umana o divina, di Ade o Dioniso, è una storia senza importanza in fondo, poiché come sosteneva Eraclito, nel riecheggiare la sapienza vedica “Prajapati [la vita] è l’Anno”, “l’Anno è la Morte”: «Ade e Dioniso […] sono un’unica e medesima cosa» e quello che conta è il dato calendariale dispiegato su un precipuo periodo temporale in cui è possibile un’emersione dal mondo sotterraneo capace di trascinare con sé anche quelle anime dei defunti, assetate (δίψιοι), e desiderose d’abbeverarsi di vino dai πίθοι (i grandi recipienti d’argilla aperti nel primo giorno della festa, Pithoígia) e dai quali veniva poi trasferito nelle χοές (da cui si poteva versare più agevolmente), caratterizzanti il successivo giorno delle celebrazioni. Ed è questo, in ultima analisi, quell’eterno ritorno sull’altalena della vergine impiccatasi!
Κῆρας e Καθαρμοί
Dal sottosuolo, durante il “rifiorire” delle Ἀνθεστήρια, non riemergevano soltanto δίψιοι, ma anche Κῆρας, inviate dal Destino a delineare il tipo di morte, violenta o furtiva, spettante a ciascuno; forme misteriose queste, veicolanti, coi miasmi d’oltretomba, le nefaste influenze da purificare con appositi riti (Καθαρμοί), da Empedocle associati ai quattro elementi: “Ora ascolta la quadruplice radice di tutto:/ Zeus splendente, animatrice Hera, Aidoneus,/ e Nestis, che con le sue lacrime inumidisce le primavere terrene”; Fuoco, Aria, Terra, Acqua, depurano rispettivamente attraverso le operazioni di bruciare, fumigare, incenerire, e immergere, e quest’ultima attribuita espressamente a un titolo eufemistico di culto (νήστις vuol dire digiuno) della Persefone, il cui nome quale regina dei morti è assolutamente tabù. A conclusione delle celebrazioni, dalle case infestate venivano scacciate tutte queste entità oramai temporaneamente appagate.
La notte delle altalene (Αιώρα) era preludio alla ierogamia con Dioniso della regina Basilinna (e, a Rota Greca, ripopolata da profughi probabilmente arvaniti, alle Kreshёmeze, non sappiamo quanto consapevolmente, si fanno indossare infatti il tradizionale abito da sposa); identificandosi con Erigone, proprio come la loro eroina, le vergini si preparavano esse stesse all’ambivalenza dell’incontro col dio, a un tempo Eros e Thanathos. E comunque, col dondolio, ricordavano la voluttà dell’amplesso e, mediante la sospensione, il passaggio al regno dei morti della promessa sposa che dell'albero, maliziosamente cresciuto dal corpo del dio, fece la sua forca. Essendo la pianta simbolo fallico, di vita e di prosperità, si compiva in toto pure il rito augurale di fertilità, oltre che di devozione al «signore dell’ebbrezza», araldo di quella particolare situazione di arrendevolezza mistica e d’erotica «vertigine».
Secondo Károly Kerényi (1897-1973), il dondolio poteva essere un modo per raggiungere una sorta di trance: "una naturale azione magica, in quanto mediante un artificio, favorisce il raggiungimento da parte di chi dondola d’una particolare condizione di sospensione, una sorta di estasi". Questo particolare cerimoniale espiatorio, rientrando nella cosiddetta purificazione, tipica della liturgia bacchica e del mese di febbraio (latino februare, sabino februm, etrusco Februus, da cui i Februalia, in coincidenza dei Lupercalia), attraverso l'elemento aria (Rūăḥ ha-Kōdēš, Acquario), s’affiancava dunque alle altre purificazioni più note, mediante acqua (battesimo, Scorpione), sale (Terra, Figlio, Toro) e fuoco (Leone; Atti 2, 3: “Et apparuerunt illis dispertite lingua tamquam ignis…”). Quattro, quanti gli elementi, le modalità di penitenza e sacrificio durante sette settimane, più un altro giorno, e si raggiunge la Teofania della Pentecoste.
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