Enea non era uno straniero né un profugo, ma forse un emigrato etrusco di ritorno?
“Roma si vestrum est opus Iliaeque/ litus Etruscum tenuere turmae,/ iussa pars mutare Lares et urbem/ sospite cursu,/ cui per ardentem sine fraude Troiam/ castus Aeneas patriae superstes/ liberum munivit iter, daturus/ plura relictis:/ di, probos mores docili iuventae,/ di, senectuti placidae quietem,/ Romulae genti date remque prolemque/ et decus omne.” (vv. 37-48 del Carmen saeculare di Orazio).
Basta collegare il “sine fraude” del verso 41 con il participio “ardentem”, per finire con l’ammettere una chiara allusione alla nota versione della Proditio Troiae da parte di un impius Aeneas, dal poeta venosino sarcasticamente definito “castus” (sic!), volgarizzazione testimoniata nel commento di Servio all’Eneide I, 242: “Antenor potuit mediis elapsus Achiuis…” (Antenore, sfuggito dalle mani degli Achei…), nonché dall’interprete dell’autore di Odi ed Epodi, Pomponio Porfirione, che, con varie mutilazioni e interpolazioni d'ogni genere, è andato a finire in quella congerie pseudo-acroniana, ovverossia rielaborazione posteriore agli scoli del grammatico romano Elenio Acrone, da doversi attribuire piuttosto ad autori medievali.
Gli antichi esegeti che commentarono il Carmen Saeculare non poterono escludere quindi una tale lettura insinuante il tradimento di Enea, accettando quella versione meno nota del mito che ricevette una rinnovata fortuna proprio nella tarda antichità.
Benedetto il Troviero (Benoît de Sainte-Maure-de-Touraine, un chierico francese del XII secolo, forse appartenente all'ambiente della corte plantageneta di Enrico II d'Inghilterra) viene ricordato come l'autore d’un lungo poema in versi, in francese antico, in cui si “rinarra” la “storia” della guerra di Troia (“Roman de Troie”, datato tra il 1160 al 1175, che, assieme al Roman de Thèbes e al Roman d'Eneas, viene considerato uno dei primi testi “volgari” appartenenti al genere “roman”, sia pur nel senso di "adattamento narrativo in versi di una fonte antica", e ancora una sorta di “movimento letterario” a cui s’è dato l’appellativo: "naissance du roman").
Interessante la riproposizione di respingere la fonte omerica, come menzognera, dando invece credito alle due brevi cronache tardo-antiche di Darete Frigio (Historia de excidio Trojae) e di Ditti Cretese (Ephemeris belli trojani), ritenute traduzioni latine di “autentici” resoconti da parte di improbabili “testimoni oculari”.
Cornelio Nepote?
Il nome di Darete ricorre nel V libro dell’Iliade, quale troiano sacerdote di Efesto; scampato alla tragedia, avrebbe quindi scritto le proprie memorie, rimaneggiate definitivamente in latino, «senza aggiungere né omettere nulla, né dare alcun tocco personale. Seguendo lo stile diretto e semplice dell'originale…» da un sedicente Cornelio Nepote, scrittore cisalpino contemporaneo di Cicerone, Attico, Varrone e Catullo, il quale avrebbe aggiunto nella prefazione dedicata a Sallustio Crispo: «Quando gli Ateniesi giudicarono questa questione, hanno ritenuto Omero pazzo per aver descritto gli dèi che combattono con i mortali.» (!).
Lucio Settimio
All'epoca della guerra di Troia, tuttavia, una qualsiasi eventuale storia sarebbe presumibilmente dovuta essere ancora elaborata in alfabeto fenicio, «che Cadmo e Agenore avevano diffuso in tutta la Grecia»; la qual cosa avrebbe fatto quel presunto leggendario cronista ufficiale al fianco del re di Creta Idomeneo, figlio di Deucalione e nipote di Minosse. La scoperta di certe «tavolette di tiglio» nella tomba di questo tal Ditti, a Cnosso, sarebbe stata resa nota a Nerone, il quale, sembra, si sia preoccupato di rendere il tutto in greco. E, dal bizantino Suda, o Suida, s’apprende che, originariamente, i libri scritti sulle tavolette di tiglio, incise con caratteri ormai “sconosciuti” ai più, erano ben nove, ma vennero abbreviati, nel IV secolo d.C., in sei da Lucio Settimio, che annotava in esergo d’aver traslato in latino, per intero, i primi cinque, mentre avrebbe sintetizzato in un unico tomo gli altri, riguardanti i vari Nostoi (Νόστοι, ritorni) degli eroi greci e peregrinazioni dei troiani sopravvissuti al conflitto.
Idomeneo
In proposito, avrebbe dovuto essere tenuto in seria considerazione il proverbiale stereotipo secondo cui «I Cretesi sono tutti bugiardi», anche se non è dato sapere se quanto Paolo scrive nell’Epistola a Tito: «Οι Κρήτες είναι πάντοτε ψεύσται» ("I Cretesi mentono sempre", 1: 12) si riferisca a tutti gli abitanti dell’isola, e dunque anche a Ditti, oppure soltanto ai Giudei che vi vivevano al suo tempo. A maledire Idomeneo e la sua stirpe, condannando i Cretesi a non dire mai la verità, era stata Medea, irritata con il nipote di Minosse per aver perso la disputa con Teti, querelle analoga a quella che avrebbe avuto quale giudice Paride, all’origine proprio della guerra di Troia. Nelle sue Fabulae (81), Igino sostenne che pure il figlio di Deucalione sarebbe stato annoverato tra gli spasimanti della bella Elena. Una volta tornato in patria avrebbe scoperto il tradimento della legittima consorte, divenuta nel frattempo amante dell’usurpatore del regno minoico.
Il delitto Palamede
Nelle Ephemeris belli trojani si dice, tra l’altro, che dagli invidiosi Diomede e Odisseo, venne ingannato, lapidato e ucciso il brillante Palamede, per vendicare il quale, il genitore Nauplio, re dell'Eubea, provò a rendere agli assassini disastrosi i loro Nostoi, sia facendo accendere, durante la notte, sul monte Cafareo, dei fuochi lungo la scogliera, dimodoché molte navi della flotta ellenica, credendo d’essere in prossimità d’un attracco, vi andarono a naufragare, sia, assieme all’altro figlio, Eace od Oiace, insinuando tra le consorti dei comandanti greci il dubbio circa la condotta dei coniugi, i quali, come diffondeva con pungente perfidia, buona parte del tempo la spendevano in compagnia delle amanti locali, che in seguito intendevano riportare in patria come concubine.
In-evitabili (?) tradimenti
Conseguenza di questa insidiosa malizia sarebbe stato l’adulterio della moglie di Diomede, Egialea, con un principe argivo e dell’infida Clitemnestra con Egisto, per cui l’amico di Oreste, Pilade, avrebbe perciò ucciso tutti i figli di Nauplio (Pausania, Periegesi della Grecia, I, 22, 6). Tace, comunque, Ditti di Penelope che, secondo le insinuazioni di Apollodoro, se non con proprio tutti i Proci, almeno con Anfinomo, avrebbe intessuto una relazione, come con il dio Hermes, in quanto assimilabile ella stessa a una semi-divinità anatide, madre di Pan, pertanto “figlio di tutti”.
Alla madre di Odisseo, Anticlea, Nauplio fece pervenire la falsa notizia che il figlio era morto in combattimento, inducendola così indirettamente al suicidio. Giunto a Creta, Odisseo riceve due navi per poter tornare a Itaca, ma finisce per essere ucciso dall’inconsapevole Telegono (Τηλέγονος, «nato lontano», perché figlio di Circe, o di Calipso), il quale sposa la vedova del padre, ingravidandola di Italo (almeno secondo Igino, la Telegonia e la tragedia sofoclea Odysseus Acanthoplex).
Completamento dell’Orestea
Dopo l'assassinio di Agamennone e la conseguente vendetta, con relativo matricidio, da parte di Oreste, quest'ultimo, proprio grazie a Idomeneo, si riappacifica con lo zio Menelao, che in precedenza non gli aveva concesso la mano di Ermione, andata in sposa, in un primo tempo, a Neottolemo; assassinato quest’ultimo, però, finalmente convola a nozze con la figlia di Elena (ancora Igino, l'ottava lettera delle Eroidi di Ovidio e l'Andromaca di Euripide).
La doppiezza degli Antenoridi
Il cretese accusa apertamente Antenore ed Enea d’essere passati segretamente al nemico, e in particolare Antenore d’aver rubato il talismano dell’invincibilità troiana, il famoso Palladio a protezione della città, proprio allo scopo di ingraziarsi gli Achei. Enea, come Antenore, scampato alla distruzione, secondo i patti, viene agevolato, più che costretto, a espatriare e va a rifugiarsi a Corcira (Libro V, capp. I- XVII).
Anche secondo le versioni di Ellanico, o Servio Mario Onorato, Antenore consegna a Diomede e Odisseo il Palladio, ricevendo in cambio la salvezza per sé e la propria famiglia. Secondo Tito Livio, invece, Antenore avrebbe svolto durante la guerra un ruolo moderato, grazie al quale ottenne la libertà dagli Achei (Ab Urbe condita, I 1). Arrivato nell’odierno Veneto con la moglie Teano, i pochissimi figli superstiti (una dozzina essendo i caduti durante il conflitto) e alcuni alleati quali i Meoni di Mestle (da cui Mestre) e i Paflagoni, o Eneti (da cui Veneti), rimasti senza guida dopo la morte del loro comandante Pilemene, fondò quell’Antenorea, denominata in seguito Padova.
Nell'Iliade (XI, 123), la figura di Antenore, fin da subito contrario alla guerra, viene contrapposta a quella di Antimaco, che invece esortava i suoi concittadini a opporsi alle richieste degli Achei; e lo stesso vale per i loro figli. Gli anti-Achei rampolli di Antimaco moriranno da vigliacchi, mentre gli Antenoridi, pur avendo cercato una soluzione pacifica e disapprovando la linea intrapresa da re Priamo, combattono da veri eroi.
Una “semiotic fiction”
L’altro “apocrifo” si situa più decisamente nel solco della tradizione mitografica rappresentata, in tarda età ellenistica, da Dionisio Scitobrachione, il quale, a parte la tipica erudizione alessandrina, s’era specializzato in quel coevo gusto del romanzesco, per cui gli elementi favolosi venivano concentrati fino a raggiungere lo straordinario effetto del "meraviglioso" e dove, sui miti tradizionali, potevano prendere il sopravvento varianti particolarmente avventurose e a volte inequivocabilmente inverosimili, spesso mediante contorte razionalizzazioni evemeriste, che successivamente, in età imperiale, avrebbero avuto vasta diffusione, con degli epigoni come Tolomeo Efestione, detto Chenno, il paradossografo che situa la propria “Storia strana” ai limiti tra un’opera erudita e la narrativa d’invenzione, venendo a creare così ciò che Karen ní Mheallaigh arriva a definire come una sorta di "semiotic fiction", interessantissima estremizzazione cioè della cultura neosofistica entro cui catalogare Δειπνοσοφισταί (I Dipnosofisti o I dotti a banchetto) di Ateneo, Ποικίλη ἱστορία (Varia historia) di Claudio Eliano, come pure Noctes Atticae (Notti attiche) di Aulo Gellio.
L’intento semantico del “sottotesto”
De excidio Troiae si presenta quasi alla stregua d’una riscrittura del mito omerico, spesso in senso antifrastico. Per cui la disambiguazione non può che essere suggerita dal contesto. Il celebre Cavallo di legno che doveva ospitare i guerrieri achei, viene sostituito da una protome equina, scolpita sulle Porte Scee, di cui Enea e i suoi complici consegnano le chiavi per far entrare l'intero esercito nemico.
A venire rapita per prima è la sorella di Priamo, Esione, figlia del re Laomedonte, il quale commise l’errore di minacciare gli Argonauti di passaggio dalle sue parti. Alessandro, Paride, si attiva per rendere la pariglia all’avversario, essendosi perdutamente invaghito della moglie di Menelao, mentre il fratello Eleno, gemello di Alessandra, Cassandra, e, alla pari della sorella, indovino dotato di facoltà profetiche, mette in guardia la famiglia reale del grave rischio in cui s’incorre; eppure, una volta scoppiato il conflitto, si sarebbe dimostrato un valoroso combattente, forse anche al recondito scopo di divenire meritevole delle grazie della bella sorella di Polluce, in luogo del germano rivale.
La stranezza come verità
Se non proprio parodico, l’intento appare quanto meno antitetico rispetto a ciò che racconta Virgilio nel II libro dell’Eneide, forse alla stregua di come la Storia vera (Ἀληθῆ διηγήματα, Alēthê diēghémata) di Luciano di Samosata avrebbe preso spunto da Antonio Diogene (“Le incredibili meraviglie al di là di Tule”), per poi influenzare la fantasia degli autori di scritti quali l'Orlando Furioso o I viaggi di Gulliver.
Eppure, una cosiddetta “dissacrazione” dell’epopea romana, incentrata su un antico progenitore e “pio” Enea, non è da escludere sia stata in buona parte una consapevole macchinazione, ricercata e voluta in netto dissenso a quella temperie augustea impregnata di rivendicazioni occidentalistiche e anti-ellenistiche dal mero sapore sovranista.
Nonostante le accese polemiche, Timagene di Alessandria, sostenitore d’una contraria posizione politica, ossia che tutti i popoli siano debitori nei confronti della Grecia civilizzatrice del mondo allora conosciuto, era cionondimeno tenuto in gran conto da Tito Livio, come da Strabone, Ammiano Marcellino e Pompeo Trogo.
Allostoria, fantapolitica o … distopia?
In effetti, dopo la fine dell’ultimo regno ellenistico e soprattutto in seguito alla vittoria decisiva di Azio sulle forze di Marcantonio e Cleopatra, qualcuno nostalgicamente ipotizzava cosa sarebbe accaduto se Alessandro Magno, invece di dirigersi a Oriente, si fosse in alternativa rivolto contro Roma. E questa ucronia venne presa in seria considerazione da quell’organico intellettuale augusteo che fu Livio. È in questo clima di insofferenza verso un asfissiante conformismo, il cui prodotto più indigesto poteva apparire il VI libro dell’Eneide, che andrebbe inquadrata quell’operazione di Darete Frigio, o di chi si occultò dietro tale pseudonimo.
«Dov'è Eleno? Dove Cassandra (i miei figli/ fatidici)? Loro potrebbero, amiche, / chiarire, forse, i miei sogni.» (Euripide, Ecuba, versi 87-89)
Dopo la morte di Paride, ucciso da una freccia scagliata da Filottete, la mano di Elena venne da Priamo concessa a Deifobo e non a Eleno, per cui quest’ultimo si ritirò sul monte Ida e, quando Calcante rivelò ai Greci che soltanto il vate troiano era a conoscenza dei segreti oracoli che proteggevano la città assediata, e pertanto occorreva richiederglieli, si dimostrò obliquamente collaborativo. Assegnato a Neottolemo se ne guadagnò la fiducia a tal punto da succedergli al trono in Epiro, dove, ammogliatosi con Andromaca, fondò una nuova Ilio di nome Butrinto, ricevendovi la visita di Enea, per Virgilio e forse solo per questo poeta di corte a Roma, in viaggio verso l’Italia (Eneide, III).
L’etimologia di Ainèias
Nel “Laocoonte”, Sofocle dice che, prevedendo la caduta della città, fu Anchise a sollecitare alla fuga il figlio avuto dalla dea - a cui l’unione con un mortale, sebbene desiderata, fu tanto oltraggiosa da lasciare traccia nel nome Ainèias (Αινείας, forse da αινόν αχός, ainòn achòs), ovverossia quell’«atroce dolore» provocatole da tale contaminazione? Αἶνος, o αινη, è sufficiente, tuttavia, a indicarci un etimo più plausibile: “terrore”, per il presente conflittuale e “apprensione” per un futuro incerto, anche se infine coronato da un meritato “riconoscimento” (sempre αἶνος, in alternativa)?
Alla corte degli Eacidi
Nelle “Cose di Licia”, opera, andata perduta, e tuttavia commentata in alcune parti da Dionigi di Alicarnasso, Menecrate di Xanto sostiene che dagli Achei il tradimento fu ricompensato con l'immunità. “Ilio fu presa, perché consegnata da Enea ai nemici: … Enea, infatti, poiché non era onorato da Alessandro ed era anche stato escluso dalle cariche sacerdotali, rovesciò Priamo e, comportandosi in questo modo, era divenuto uno degli Achei.”. Quantunque sia abbastanza vaga la collocazione storica, tra il IV e il II secolo a.C., s’insinua il sospetto del forte legame dello scrittore dell’antica città della Licia con il contesto ellenistico di quella resistenza all’espansionismo latino in Grecia e in Asia (la distruzione di Corinto è del 146 a.C.), oppure con la corte epirota degli Eacidi (Pirro – il cui sbarco in Italia risale al 280 a.C.-, Alessandro II, Olimpiade II, Pirro II, Tolomeo, Pirro III, Deidamia II). Difatti, fu all’epoca della venuta di Pirro che si ebbe, ovviamente legata a motivazioni ideologiche antiromane, la maggiore diffusione della tradizione di Enea proditor, come attestato pure nell’Alessandra di Licofrone.
Excusatio non petita…
Con un occhio diretto al relativismo storico e l’altro concentrato sulla “Thick description”, occorre investigare un po’ meglio tutto il mito (racconto dei vincitori), unitamente all'anti-mito (contro-narrazione dei vinti), per leggere tra le righe, come si suol dire, certi versi altrimenti sibillini, e poco spiegabili, resi necessari proprio da un malcelato impegno inteso a negare, anche contro notevoli evidenze, delle esplicite accuse al personaggio scelto dall’imperatore quale antenato illustre. E, a questo punto, chi può impedire di sospettare come sia “excusatio non petita, accusatio manifesta...”?
Si scrive per chi legge
“L'ultimo dei troiani il primo dei romani” (come declina il sottotitolo del saggio su “Enea” del prof. Mario Lentano, pubblicato da Salerno Editrice, Roma 2020) è innanzitutto un personaggio “costruito”, di volta in volta (“pio” per i latini, oltremodo ambizioso per i greci), in favore del lettore di turno.
Thick description
La thick description (descrizione “densa”, thick, e di spessore, profonda, contrapposta a una descrizione “esigua”, thin, o superficiale) potrebbe individuare degli spazi contigui di maggior limpidezza in specifici contesti culturali di riferimento: dal valore simbolico del nome, e della sua etimologia nel mondo antico, all’intricata interpretazione religiosa degli dèi indigeti, come alla precipua modalità rituale di fondazione delle città... In fondo, in fondo se Enea, Αινείας, era scampato alla distruzione e all’eccidio, i disegni del destino lo avevano prescelto quale “fato profugus” e futuro “deus indiges”, in seguito a un fattivo, quanto indiretto, per interposta persona, contributo alla futura nascita dell’Urbe.
Dardano
In primo luogo, e non necessariamente quindi un vero e proprio autentico patriota troiano, bensì, da lontano parente di Priamo, un suo forzoso naturale alleato, in quanto discendente da Dardano - per la tradizione lucumonica, seguita dall’epopea virgiliana, figlio del re Corito, fondatore di Cortona, a sua volta padre anche di Iasione, promulgatore dei riti misterici dell'isola di Samotracia. Sarebbero stati infatti per questo gli dèi Penati a imporre il rientro dei superstiti “levantini” in Esperia, e alla foce del tirreno ed etrusco Rumon (o già Thybris - dapprima però Albula, poi Tiberis), al confine con il Latium vetus, allo scopo d’ottenere quel fatale affidamento del comando dell’intera federazione della Dodecapoli, grazie all’assenso dello stesso Tarconte, eroe eponimo di Tarquinia?
Iulo e la sua “gens”
Alla base stessa della cultura romana, dunque, Enea, nientemeno che antenato di Roma e dell’urbe dei Cesari e tale riconosciuto da Augusto, in base alla pretesa che la “gens Iulia” discendesse da Iulo, suo figlio. Su questo fondamento si erigevano i valori costituenti il seme medesimo della potenza dell’Impero. Screditando quella figura primigenia si sarebbe rovesciata l’intera rappresentazione della città, dei suoi prìncipi e princìpi, e del diritto divino (per via della madre Venere) a perpetuarne il predominio.
Tesi, antitesi… antifrasi
Assieme all’antitesi si è pure potuto far ricorso alla retorica antifrastica, come in quella scherzosa palinodia di Omero in cui si sarebbe cimentato l’erudito neo-sofista Dione Crisostomo all’interno del “Discorso troiano”, secondo cui, a dispetto delle “bugie” elleniche, i greci avrebbero anche potuto primeggiare in qualche battaglia ma alla fine la vittoria arrise ai Troiani e l’arrivo di Enea nel Lazio sarebbe avvenuto all’interno del conseguente processo di colonizzazione da parte dei trionfatori orientali.
Le interpretazioni capziose coinvolgono la moglie Creusa, abbandonata dal disertore, e per giunta uxoricida. Alla regina Didone spiega la provenienza di alcuni gioielli che intende donarle; sostiene di averli “strappati” agli Achei, ma è più presumibile che costituissero i “trenta denari” di ricompensa (o ancora peggio il riciclaggio dei monili della consorte tradita, insieme con la patria?).
Lo storico israeliano Amos Funkestein spiega queste “contro-storie” non come un esercizio di retorica neosofistica, bensì con la deliberata finalità di minare l’identità d’un avversario. L’esempio più significativo lo rintraccia nell’Esodo del popolo ebraico, scacciato dal faraone per l’empietà dei loro culti, che avrebbero provocato l’ira degli dèi e suscitato una pestilenza. Ma, in una specie d’inconscio meccanismo reattivo, potrebbe anche essere l’inverso e degli appestati ed empi sbandati, costretti a emigrare, per salvaguardare la propria intima dignità, si sarebbero raccontati d’essere il popolo più amato dall’Altissimo.
Funkestein A. Perceptions of Jewish history, University of California Press, Berkeley 1993
Ierace G. M. S. Le porte del mito – accesso alle polivalenze della polisemia – la Cura di Igino e l’Odi-o di Odi-sseo, Il Minotauro, XLVII, 2, 123-35, dicembre 2020
Lentano M. Enea, L'ultimo dei troiani il primo dei romani, Salerno Editrice, Roma 2020
Ní Mheallaigh K. Reading fiction with Lucian. Fakes, freaks and hyperreality, Cambridge University Press, Cambridge 2014