- Come un film sia riuscito a cambiare la concezione stessa del Cinema e Hitch… a sdoganare …Cock
“We all go a little mad sometimes. Haven't you?” (Tutti noi diamo un po' di matto a volte… Non è vero?) – Norman Bates -
È vero, a volte, bisogna un po’ dare di matto per vedere in un film tutto quello che ci scorgono cinefili e critici cinematografici, psichiatri e psicanalisti… e che forse neanche gli autori si sono mai sognati di mostrare, almeno consapevolmente… Un pizzico di follia è necessario pure per immergersi nella lettura, peraltro affascinante ed erudita, di “Psycho - Come Hitchcock insegnò all’America ad amare l’omicidio” (Minimum Fax, Roma, 2020), in cui David Thomson svela tutti gli impensabili retroscena della gestazione d’una pellicola a basso costo che, in un periodo particolare della situazione socioculturale degli Stati Uniti, gli anni ’60, ha segnato una sorta di pietra miliare per la storia mondiale dell’intrattenimento cinematografico: The Moment of 'Psycho' (come titola l’edizione originale …How Alfred Hitchcock Taught America to Love Murder). Spesso quanti vengono considerati “pazzi” sono solo ben consapevoli e informati su quegli aspetti della vita ritenuti di secondaria importanza, come per esempio solitudine e voyeurismo, che Hitchcock aveva già approfondito in L'altro uomo (Strangers on a Train, 1951) o La finestra sul cortile (Rear Window, 1954).
Ascendenze
Lo storico e critico cinematografico londinese, autore, tra i molti altri saggi, di “Have You Seen...?: A Personal Introduction to 1,000 Films” (2008) e “The New Biographical Dictionary of Film” (alla sesta edizione nel 2014), dopo aver alluso a strani, e forse persino inconsapevoli, crediti di Hitchcock nei confronti de L'infernale Quinlan (Touch of Evil, 1958) di Orson Welles, e fatto più chiari rimandi a Les Diaboliques (1955) di Henri-Georges Clouzot, traccia pure, nel capitolo “Altri corpi nella palude” (Other Bodies in the Swamp), dei collegamenti con le pellicole successive che ne avrebbero invece subito le influenze.
Influssi
L’inquadratura dello sciacquone che aveva scandalizzato i censori, viene ripresa quattordici anni dopo con compassata nonchalance da Francis Ford Coppola nella scena del gabinetto intasato di "The Conversation", tralasciando che la violenta colluttazione sotto la doccia ha poi spianato la strada alle cruente aggressioni in "Bonnie e Clyde" (Gangster story, 1967), o Arancia meccanica (A Clockwork Orange, 1971), come nei seriali e molto meno cupi franchise di “James Bond”. Senza neppure prendere in considerazione The Texas Chain Saw Massacre (Non aprite quella porta, 1974), o Halloween (1978), già il solo caratterizzante effetto distraente MacGuffin viene ripreso in Pulp Fiction (1994), Ronin (1998), Mission: Impossible III (2006), e che dire della scatola blu di Mulholland Drive (2001)?
A sense of amusement
Da critico impegnato, David Thomson si premura di deporre “il corpo del reato” in sala settoria, come farebbe un meticoloso medico legale, per scandagliare il reperto anatomico, raccogliendo con acribia dati ben più importanti di quanto potrebbero apparire a prima vista, a cominciare da quell’iniziale scoperta dell’inserimento d’un tocco, più canzonatorio che di sottile ironia, nel trattare i temi della crudeltà o dello sfruttamento sessuale, i quali di norma non avrebbero certo potuto facilmente indurre al sorriso.
“You have to remember that Psycho is a film made with quite a sense of amusement on my part. To me it's a fun picture. The processes through which we take the audience, you see, it's rather like taking them through the haunted house at the fairground..." (Occorre ricordare che Psycho è un film fatto con un certo senso del divertimento da parte mia. Per me è un'immagine divertente. I processi attraverso i quali portiamo il pubblico, vedete, è un po' come portarlo attraverso la casa stregata al luna park ... ", dall’intervista a Hitchcock, su Movie 6).
Un fermento culturale
Il 1960 coincide con eventi d’una certa importanza per la cultura d’ogni tipo, e d’ogni paese, non esclusa quella cinefila (basti ricordare: Ombre/Shadows, scritto e diretto da John Cassavetes, nel ’59, L'occhio che uccide/ Peeping Tom di Michael Powell, La dolce vita di Fellini, o di Bergman La fontana della vergine/ Jungfrukällan e L'occhio del diavolo/ Djävulens öga; senza accennare alla Nouvelle vague francese!), i programmi televisivi, che cominciano ad acquistare sempre maggiore popolarità (giustappunto le sette stagioni di “Alfred Hitchcock Presents”, a partire dal 1955, accompagnate dal brano di Gounod, Marcia funebre per una marionetta, e da quella immancabile auto-caricatura nei titoli), la Pop Art (Modificazioni di Baj, per esempio; Just what is it that makes today's homes so different, so appealing? di Hamilton e Ten Dollar Bill di Lichtenstein sono del ’56), la musica rock (Elvis Is Back!), diffusissima tra i giovani, e tutto in una proliferazione di idee e un fermento che di pari passo andava aumentando quasi esponenzialmente. Forse, accanto alle innovazioni che Thomson attribuisce a "Psycho", si trova pure dello spazio per una complementare teoria bibliofila: essere tra i pochi prodotti cinematografici su cui poter scrivere più d’un libro.
Avviso agli spettatori: Non svelate il finale!
Quaranta minuti dopo i titoli di testa la protagonista incontra una morte crudele, commentata da Bernard Herrmann con una musica stridente, da brividi, in quella che viene considerata la scena più raccapricciante mai mostrata fino ad allora nel cinema americano, che non fa più presagire quel lieto fine al quale un pubblico non smaliziato s’era ormai abituato: un tale inedito da scuotere la coscienza nazionale per quanto difatti prima non era esistito, né consentito. Nonostante i grandi capolavori precedenti (Rebecca, 1940; Prigionieri dell'oceano/ Lifeboat, 1944; Io ti salverò/ Spellbound 1945; La finestra sul cortile/ Rear Window, 1954; Caccia al ladro/ To Catch a Thief, 1955; L'uomo che sapeva troppo/ The Man Who Knew Too Much, 1956; Intrigo internazionale/ North by Northwest, 1959…) fu questo il più grande successo personale della carriera di Alfred Hitchcock, che a livello internazionale rese gli spettatori definitivamente consapevoli del fondamentale ruolo nella produzione cinematografica della figura autoriale del regista con cui, da quel momento in poi, l'industria sarebbe dovuta, suo malgrado, sempre più scendere a compromesso.
Sui titoli di coda del chef-d'œuvre di Henri-Georges Clouzot era già comparsa la raccomandazione (antesignana d’un anti-spoiler message): «Ne soyez pas DIABOLIQUES! Ne détruisez pas l'intérêt que pourraient prendre vos amis à ce film. Ne leur racontez pas ce que vous avez vu. Merci pour eux.» (Non siate diabolici! Non distruggete l'interesse che i vostri amici potrebbero nutrire per questo film. Non raccontate loro quello che avete visto. Grazie per loro.). Sia per l'eccellente risultato, sia perché si diceva fosse riuscito a rubare i diritti del romanzo, “Celle qui n'était plus” (1952), di Pierre Boileau e Thomas Narcejac (gli autori di D'entre les morts del 1954, trasposto quattro anni dopo in Vertigo/La donna che visse due volte), a Sir Alfred in persona, si capisce bene perché la pellicola valesse a Clouzot la qualifica di «Hitchcock francese», e pure perché Psycho venisse molto probabilmente concepito con l'obiettivo d’una vera e propria rivalsa, finale shock e rigorosamente segreto incluso, nei confronti di quel più diretto e insidioso rivale (L'Assassin habite au 21, 1942; Le Corbeau, 1943; Quai des Orfèvres, 1947, ecc.).
Prima di allora, con rare eccezioni, il pubblico cinematografico aveva consuetudine e facoltà d’accedere in sala anche a luci spente, più o meno ogni qual volta ne avesse avuto voglia. Spesso, si poteva assistere a doppie rappresentazioni, quindi gli spettatori entravano nel bel mezzo d’una delle due previste, restavano a guardare la successiva nella sua interezza e poi, di solito, l'inizio del film di cui avevano già visto la fine, magari commentando: "qui è dove siamo entrati". In poco più d’un lustro, Clouzot e Hitchcock hanno dato un grosso contribuito a cambiare radicalmente quest’abitudine, costruendo quella tale aspettativa su d’una particolare e nuova esperienza cinematografica da fare con i lungometraggi che sembravano prometterla. Oltre all’intreccio della storia, acquistava importanza l'esperienza dell'evento a cui assistere, a cominciare dalla fila al botteghino, la preghiera “per favore, non svelate il finale” rivolta a quanti avevano già assistito alla rappresentazione, la puntualità all'inizio della proiezione per non perdersi neppure i titoli.
MacGuffin
“È già difficile stabilire se il pubblico legga o no i titoli di testa, - scrive Thomson - figuriamoci capirli”; eppure, se non ci si accorge dell’avvertenza alla fine dell’elenco del Cast: “… e Janeth Leigh nella parte di Marion Crane”, non ci si raccapezza di quel ruolo già da subito dichiarato di “non protagonista”, pure se per i primi quaranta minuti la macchina da presa non fa altro che “spiare” proprio lei, e quasi lei soltanto. Un primo espediente narrativo (l’iniziale pretesto MacGuffin), analogo al bisticcio di parole profferito dalla “voce” della Mamma che confessa la sua dualità e di essa si compiace: “Mi rifiuto di parlare di cose disgustose, perché mi disgustano!”, che insinua, in chi lo sappia cogliere, l’indizio d’un’artificiosità teatrale. Oppure, agli umoristici camei hitchcockiani, che “firmano” le storie, in una sospensione dell’incredulità provocata dal dichiararsi autore non d’un fantastico sogno da abitare, con annesso Happy End, ma d’un mero gioco, e non solo linguistico, al quale partecipare tutti insieme.
Nel 1959, quindi, il sessantenne Hitchcock decise di provare a rompere gli schemi consueti della tranquillità domestica e d’un’ottusa stabilità borghese con qualcosa che rispecchiasse quel fermento creativo, politico e di rivoluzione sessuale, che ben presto sarebbe lievitato un po’ in tutto il mondo a partire dagli Stati Uniti. L’impulso filmico avrebbe sconvolto perfino la medesima natura dei desideri delle nuove generazioni, cavalcando la violenta ondata di sesso e orrore ormai inarrestabile, ch’era riuscito a individuare.
Macbeth
Definendola "una delle opere chiave della nostra epoca", Robin Wood è arrivato a paragonarla al Macbeth shakespeariano: “My thought, whose murder yet is but fantastical, / Shakes so my single state of man that function/ Is smother'd in surmise, and nothing is/ But what is not.” (1.3.9): Dopo che le tre streghe gli hanno predetto che sarà re, Macbeth inizia a pensare all'omicidio, nonostante questo crimine non sia stato menzionato in quella loro profezia. Questa citazione è uno dei primi esempi della smodata ambizione che alla fine farà la sua rovina. “I have no spur/ To prick the sides of my intent, but only/ Vaulting ambition, which o'erleaps itself/ And falls on the other.” (1.7.1): Mentre Macbeth è indeciso se uccidere Duncan o no, si rende conto dell'unica ragione per cui sta nutrendo questa considerazione, giusto a causa della cupidigia. Non c'è nulla (non c'è sprone) che giustifichi l’assassinio. Si rende conto di quanto la brama possa essere pericolosa fino a distorcere il medesimo senso della realtà delle persone “normali”. Decide dunque di non sopprimere Duncan, ma in seguito sarà Lady Macbeth (la “voce” della Mamma!) a convincerlo del contrario. “For mine own good/ All causes shall give way. I am in blood/ Stepp'd in so far that, should I wade no more, / Returning were as tedious as go o'er.” (3.4.24): Macbeth paragona i suoi atti orribili all'attraversamento d’un fiume insanguinato. Dice che una volta commesso un primo omicidio per futile guadagno diventa molto difficile riuscire a fermarsi. Più semplice continuare a uccidere piuttosto che un "noioso" voltarsi indietro. Arrivato a questo punto, Macbeth è disposto a tutto pur di soddisfare quella sua inarrestabile smania. Ormai è diventato convintamente un serial killer… come Norman Bates.
Il caso clinico
Ricordiamoci però come sullo schermo l’assassinio sia puramente fantastico, e la “funzione in grado di scuotere il pensiero” di cui farnetica Macbeth, nel buio della sala, rischia di venire soffocata dalle ipotesi che sfuggono dai confini d’una teoria psicoanalitica del cinema. Il tema dell’individuazione di sé Hitchcock l’affrontò per la prima volta, nel 1945, in Io ti salverò (Spellbound), dove un giovane Gregory Peck affronta una sorta di “confusione identitaria”, a causa d’una sospetta amnesia, che necessita dell’intervento psichiatrico. Al centro di quella che è stata definita, da Robert A. Harris e Michaël S. Lasky, «la più bella e la più crudele delle love story di Hitchcock», ovvero La donna che visse due volte (Vertigo, 1958), v’è lo sdoppiamento. Intrigo Internazionale (North by Northwest, 1959) si basa pure su d’un ben strano equivoco.
Psycho (1960) espone il caso d’una doppia identità sulla base d’un disturbo dissociativo tale da scindere nettamente la personalità del soggetto. E questa dissociazione della personalità del protagonista, come nota Raymond Bellour, è quasi simbolicamente racchiusa nel suo stesso nome, Nor-ma(n/l): «Colui che non è né uomo… né donna, perché non può essere l’uno al posto dell’altra, o piuttosto l’uno e l’altra, l’uno dentro l’altra.».
Complesso di Oreste
Paura e angoscia si generano in un contesto all’apparenza innocuo (Nor-ma-n/l), nel segno dell’unheimliche freudiano. Mite, gentile e disponibile, Normal Bates si rivelerà un infelice orfano di padre, di cui sente profondamente l’assenza, dalla psiche tormentata fin dall’infanzia da una madre (Norma) autoritaria e morbosamente possessiva, della quale subisce uno stato di dipendenza emotiva. Sentendosi tradito dalla relazione da lei intessuta con un’amante, elaborerà il complesso edipico, alla maniera di Oreste, assassinando Clitemnestra ed Egisto sopresi a letto insieme. Nell’ambivalenza tra spinte progressive (centrifughe) e regressive (centripete), collegate alla madre, ci suggeriscono con clinica precisione Singhal e Dutta (1990), possono verificarsi crisi “catatimiche” con passaggio all’atto quale unica via d’uscita dall’insostenibile conflitto tra odio ed amore. Il rimorso per il primo delitto commesso avrebbe costituito il catalizzatore della dissociazione della personalità: incapace di svincolarsi dalla colpa, una parte della coscienza di Norma(n/l) s’è sviluppata in forma di madre (Norma) fino ad acquisire una sua indipendenza, che alla fine prende il sopravvento.
Sdoppiamento e travestitismo
“Ora lo rinchiuderanno come avrei dovuto fare io quando era bambino. È sempre stato cattivo. E ora aveva intenzione di dire che ero stata io a uccidere quelle ragazze e quell’uomo. Come se io potessi fare un’altra cosa all’infuori di star seduta immobile a guardar fisso come uno di quei suoi uccellacci impagliati.” Dichiara con innocenza la “voce” della madre.
Eventuali traumi e abusi subiti nell’infanzia potrebbero aver, comunque, provocato una prima scissione, separando la personalità danneggiata dal trauma da un’altra che si sia assunta il precipuo compito di venire in soccorso e porvi rimedio. La consapevolezza da parte di una personalità di pensieri, sentimenti e azioni d’un’altra personalità si va attuando quale co-coscienza e dialogo a più “voci”, di cui una femminile, e quindi scivolamento nel travestitismo, specie se già presente una forte componente femminilizzante, magari sviluppatasi per ovviare alla proibizione di relazionarsi norma-l-mente all’altro sesso. Ma l’idea stessa che la madre possa punirlo per le sue pulsioni lo spinge ad assecondarne la gelosia verso le giovani di cui s’invaghisce. L’elemento repressivo del desiderio sessuale è quello che al contempo ne scatena l’aggressività.
Deus ex machina
«Quando in una mente alloggiano due personalità c’è sempre un conflitto, una battaglia. In Norman ora la battaglia è finita e la personalità dominante ha vinto.», commenta il personaggio dello psichiatra (e deus ex machina) poco prima che lo sguardo freddo e tagliente di Norman, per il tramite d’una dissolvenza incrociata, mostri un incongruo sorriso eginetico formato dalle scheletriche mascelle della mummia impagliata della madre.
Moderno/ post-moderno
"Un'opera d'arte modernista è per definizione incomprensibile", afferma Slavoj Žižek, nel “funzionare”, come in un certo senso Shakespeare metteva in bocca a Macbeth (function Is smother'd in surmise…), alla stregua d’uno shock o dell'irruzione d’un trauma che mina la compiacenza nella nostra routine quotidiana, resistendo pure a ogni tentativo d’integrazione. Ma quanto propone il post-modernismo hitchcockiano sembra essere l’opposto: estraniare la scontata familiarità di prodotti di richiamo di massa, “oggetti” mercificati per eccellenza, dunque di quel melodramma che si riuscirebbe a seguire con estrema linearità. I sintomi si accavallano e si contorcono in un nodo Borromeo, in cui la “Donna”, come sosteneva Lacan, rappresenta uno dei “Nomi-del-Padre”; in definitiva, un’estraniazione della banalità in un inquietante unheimliche postmoderno, poco rassicurante (unfreundlich) e particolarmente sinistro (unbehaglich).
È questo che sta alla base dello scompaginamento del codice consueto (Code-busting). Far assumere all’assassinio la funzione shakespeariana di “tropo” ossessivamente misterioso e conturbante, nel campo dell’intrattenimento, non solo letterario e cinematografico, bensì pure televisivo, e persino dei notiziari o delle inchieste giornalistiche oppure degli approfondimenti culturali. Nel riconoscimento dell’immagine dell’umana ferocia quale suscitatrice d’un interesse paragonabile alla pornografica scopofilia.
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