Dopo la battaglia di Himera, durante la quale, nel 480 a.C., ai Cartaginesi, comandati da Amilcare, si contrapposero vittoriosamente le truppe siceliote di Gelone di Siracusa, - accorso in aiuto di Terone di Akragas, discendente, secondo Pindaro, dal Cadmo fondatore di Tebe - Simonide di Ceo declamò le glorie dei figli di Deinomane (Gelone e Ierone, Polizelo e Trasibulo), che «agli Ellenici diedero gran spinta per la loro libertà». Il capostipite di questa dinastia era originario dell’isola di Telos, nel Dodecanneso, discendente da uno degli ecisti di Gela.
Quando Deinomane chiese all'oracolo di Delfi il pronostico sul futuro dei propri figli, la Pizia rispose che sarebbero tutti divenuti “principi” delle due poleis di Gela e Siracusa, ma anche che ciò per loro si sarebbe rivelata una vera e propria iattura. La loro rovina, infatti, non tardò ad arrivare, dopo circa un quarto di secolo di tirannide, nel 465 a.C., con l’esilio di Trasibulo alla magnogreca Lokroi Epizephyrioi (Λοκροὶ Επιζεφύριοι), già entrata nell'orbita d’influenza della città aretusea. Eppure, di Gelone si narra che ebbe il coraggio di dimostrare la sua condotta non dispotica, dinnanzi all'esercito e alla cittadinanza, presentandosi disarmato ai siracusani per elencare le sue azioni e i successi militari, e chiedere, qualora fosse stato riconosciuto colpevole di abuso della sua autorità, di venire trucidato seduta stante, ricevendo in cambio un’acclamazione solenne e sincera.
Tutti i Dinomenidi, inoltre, si dimostrarono sempre molto generosi con le offerte, in opere d’arte, da inviare ai più importanti santuari della madrepatria, in primis all’oracolo di Delfi, come il famoso Auriga, che faceva parte d’una quadriga, attribuita a Sòtada di Tespie (o a Pitagora di Reggio), a cui l’incarico era stato affidato, tra il 478 o il 474 a. C., per commemorare una vittoria riportata ai Giochi Pitici dal gelese Polizelo, figlio di Deinomenes il vecchio. Deinomenes, figlio di Ierone, invece, dieci anni dopo, avrebbe inviato ai Thesauroi d’Olimpia un Donario, attribuito a Calamide; nel “sacro boschetto” (alsos, ἄλσος) peloponnesiaco si trovava un altro auriga, con relativo cavallo, preparato da Dionìsio di Argo, per conto di Formide arcade, divenuto poi siracusano; e poi, a Olimpia, c’era la quadriga bronzea di Glaucia di Egina, raffigurante Gelone, vincitore della gara coi carri nella 73ª Olimpiade (488 a.C.). Sempre a Dionìsio di Argo, che lavorava spesso in coppia con Glauco, Ierone avrebbe affidato il compito di immortalarlo, insieme con i fratelli Gelone e Trasibulo (ma non con Polizelo, che nel frattempo aveva sposato la vedova di Gelone, Demarete), nel gruppo scultoreo dei Dinomenidi, collocato, secondo Eliano (Storie VI,11), nel Tempio di Hera presso l’Olympeion siracusano, e in seguito trafugato dal console Marcello per essere esposto a Porta Capena, da cui si dipartiva la via Appia, nonché una delle tre sedi di riunione del Senato romano.
I bronzi potrebbero allora impersonare due dei tre Dinomenidi commissionati a degli scultori argivi come Dioniso e Glauco?
Argo fu pure la polis del Peloponneso orientale che, dal 474 a.C. al 470 a.C., ospitò Temistocle, ostracizzato da Atene, e dove aveva regnato la stirpe degli Atridi, Agamennone e Oreste, un po’ dopo Adrasto, alleato di Polinice nella spedizione dei “Sette contro Tebe”, che coinvolse il recalcitrante indovino Anfiarao, presago di sventure. Dopo la battaglia di Oinóe (ca. 460 a.C.), all’inizio della prima guerra del Peloponneso, quando ancora prevaleva la Lega di Delo, guidata da Atene con il supporto di Argo, proprio nell’agorà di quella polis argiva fu innalzato un monumento semicircolare ai Fratricidi e agli Epigoni, di cui ci è giunta solo l’iscrizione commemorativa posta sui cippi della base.
Tideo e Polinice
Ad Adrasto l'oracolo di Apollo aveva predetto che le sue figlie, Argia e Deipile, sarebbero state impalmate da un cinghiale e da un leone. E Tideo, esiliato dal padre per aver ucciso il fratello Menalippo, si recò ad Argo rivestito da una pelle di cinghiale, nel mentre Polinice giungeva in città con indosso una pelle di leone.
Gli Epigoni
Dopo la disfatta dell'esercito argivo, Adrasto riparò in Attica, grazie alle doti del suo destriero, Arione, fratello dell’innominabile misterica Despoina (Δέσποινα, dal proto-indoeuropeo dem/dom, dimora, e potni, padrona). Dieci anni dopo, riunì gli Epigoni per riprovare a sfondare le sette porte dei Labdacidi, questa volta con il consenso di Anfiarao, che per le circostanze predisse l’agognata vittoria.
Essendo dunque questo il mito argivo per eccellenza (e argive sono le terre di fusione dei bronzi di Riace), l’ipotesi più plausibile è ch’essi riproducano personaggi connessi a quelle vicende tragiche (le prime, relative a Polinice ed Eteocle) e gloriose (le successive, trionfali, degli Epigoni), o quanto meno a quel determinato luogo (da cui partirono i Sette sfidanti, ma che successivamente vide regnare Agamennone e poi ospitò Temistocle); e quindi qualcuno di loro, Adrasto, Polinice, Anfiarao, Tideo, e dopo Tersandro, Alcmeone, Diomede, Egialeo, oppure Agamennone, Oreste, e poi Temistocle. Più probabili Tideo e Anfiarao, e comunque due membri della famosa spedizione dei Sette contro Tebe, ma ancora più verosimili, per via forse della predizione oracolare altamente simbolica, riguardante il cinghiale e il leone, i due pretendenti di Argia e Deipile, Tideo e Polinice.
I Sette contro Tebe
“Vidi la madre di Edipo, la bella Epicaste,/ che, senza saperlo, commise la grave colpa/ di sposare suo figlio: lui la sposò dopo avere ucciso/ suo padre; dopo gli Dei resero manifesti questi fatti./ Lui, pur soffrendo, continuò a regnare sui Cadmei,/ nell’amata Tebe, per i funesti progetti degli Dei;/ lei, invece, discese nella casa di Ade dalle porte serrate:/ oppressa dal dolore, attaccò un laccio a una trave/ dell’alto soffitto e a lui lasciò tutto lo strazio/ che possono provocare le Erinni di una madre.” (Odissea XI, 271-80).
Nell’opera di Eschilo, rappresentata ad Atene per la prima volta nel 467 a.C., i due fratelli s’uccidono senza che nessuno intervenga; e pure nel capolavoro di Sofocle, “Edipo re”, messo in scena qualche decennio dopo, tra il 430 e il 420 a.C., Giocasta si era già suicidata appena compreso d’aver sposato il figlio di Laio, ben prima or dunque del duello fratricida.
Euryganeia
Citando l’Eedipòdeia di Kinaithon (e riferendosi a un dipinto di Onasias posto nel pronao del tempio di Atena Arèia a Platea, rappresentante la madre addolorata per il conflitto tra i suoi figli), Pausania sostenne che non Epicaste/Giocasta sarebbe stata la madre di Antigone e Ismene, Polinice ed Eteocle, bensì la figlia di Ipérfantos, Euryganeia, per altri, scoliasti di Euripide, sorella di Giocasta e figlia di Meneceo, nonché sorella di Creonte.
Ferecide attribuiva al matrimonio di Edipo con la propria madre altri due figli molto meno noti, Phrastor e Laonytus, che caddero nella stessa battaglia, combattendo contro Erginus di Orchomenus. Nelle “Cronache” (2.20.5, infra §2.2), il Periegeta c’informa che i caduti assieme a Polinice nell’assalto a Tebe «furono ridotti da Eschilo al numero di sette soltanto, mentre in realtà furono più numerosi i capitani impegnati nella spedizione e provenienti da Argo e da Messene e alcuni anche dall’Arcadia».
Stesicoro (o Tisia d’Himera o da Metauros) elabora questo mito descrivendo il particolare della scena in cui, fra la figlia Antigone e l'indovino Tiresia (Creonte per Stazio), Euryganeia, disperata, con le braccia allargate, cerca di dissuadere i figli maschi dal duello, mentre Polinice (statua A) digrigna i denti (d'argento), tra le labbra dischiuse, irritato dopo aver visto sulla testa di Eteocle (bronzo B) la cuffia (kynè) del potere militare. Il “Papiro di Lille” contiene proprio queste parti della “Tebaide”, e il frammento meglio conservato riguarda per l’appunto l’accorato appello di Euryganeia ai figli, in cui la (seconda) moglie di Edipo tenta di dividerli giusto nel momento in cui si stanno affrontando.
Polinice ed Eteocle
“Deh, schivate il mal ch’Edipo v’impreco”, profferisce la povera infelice anche ne “Le Fenicie” di Euripide. Qualora i personaggi fossero Polinice ed Eteocle, allora, al gruppo bronzeo mancherebbe quanto meno una “terza” (una quarta? E una quinta?) statua, e questa in sembianze femminili, impegnata a distanziarli (probabilmente a seno scoperto per ricordare a entrambi d’aver succhiato il medesimo latte materno, e con “braccia aperte e la gamba sopravanzante”, come descritto all’epoca dell’avvistamento sui fondali del mare di Riace, e come dipinto da Jacque-Louis David nel 1799, a proposito delle “Sabine che arrestano il combattimento tra Romani e Sabini”).
Nell’Oratio adversus Graecos (Πρὸς Ἕλληνας), Tatianus Assyrius, l’autore del Diatessaron, nel deprecare il fratricidio, ci suggerisce indirettamente anche il nome dello scultore: «… vedendo le statue di Polinice e di Eteocle, non distruggete il ricordo di quell’infamia, seppellendole con il loro autore Pitagora» (34, p. 35, 24).
I santi “anàrgiri”
I “miti riacesi” che si vennero sviluppando nei vari secoli, mantenendosi vivi ancor oggi, riguardano in qualche modo anche la “stranezza” del ritrovamento del 1972, la leggenda dell’intervento dei Dioscuri alla battaglia della Sagra, nonché l’agiografia locale dell’apparizione dei “santi anàrgiri” (Άγιοι Ανάργυροι, “senza argento”), quasi a fare pendant con l’etimo dell’antica polis argiva da cui proverrebbero i bronzi; come a dire che di quello si sarebbero privati, per contrappasso, rifiutando ogni compenso in denaro per le loro guarigioni miracolose.
Nel IV sec. della nostra era, una nave che trasporta sculture, probabilmente da Roma a Costantinopoli, è costretta a disfarsi del proprio pesante carico nei pressi di quello che fu l’approdo di Kaulon, coincidente con la parte più a nord dell’odierna Riace Marina (Porto Forticchio), lì dove è ancora molto praticata, e da tanto tempo, una particolare devozione per i Dioscuri/anargiri, associata alla sacralità dell’acqua (del fiume Sagra), tanto da farli assurgere, in loco, a divinità protettrici delle attività marine, come gli ittiocentauri Aphros (Aφρός, personificazione della schiuma del mare) e Bythos (Βυθός, della profondità degli abissi); per cui il posto più adatto a loro è proprio quello stesso scalo. Per effetto del sincretismo alto-medievale, il culto dei gemelli Castore e Polluce viene sostituito in automatico con la venerazione dei santi cristiani, fratelli gemelli, Cosma e Damiano, i quali ne assumono le prerogative mitiche e rituali, che coinvolgono sempre e comunque quel sito d’ancoraggio.
La processione del reliquiario
A Riace, durante l’anno, a Cosma e Damiano è dedicata più d’una celebrazione, di cui, una comune a un po’ tutti gli altri luoghi di tal culto, con gran festa di tre giorni nel mese di settembre, ma soprattutto, un’altra, la seconda domenica di maggio, con l’originalissima processione che dal santuario va verso la marina, in modo da condurre la teca d’argento (per controbilanciare la denominazione anargira) a forma di braccio, e a custodia della relativa reliquia, nei pressi dello scoglio dove si dice San Cosimo/Cosma abbia lasciato l’impronta del proprio piede, arrivandovi dopo la lunga traversata a nuoto dall’Arabia; e sarebbe questa memoria all’origine del locale patronato sulla gente di mare. Anche i Bronzi vengono rinvenuti all’altezza di quella che oggi sarebbe considerata una scogliera non del tutto affiorante, da sempre identificata quale “Scoglio dei santi”, ma che un tempo avrebbe potuto costituire parte della struttura portuale dell’antica Kaulon.
Axiocersus e Kadmilos
Le due figure nimbate di Cosma e Damiano, recanti entrambi in mano delle ampolle su cui compaiono altrettante stelle (in un bassorilievo altomedievale del sito di Carsulae, a Terni), riproducono quei Dioscuri rappresentati sotto forma di astri celesti, in particolare su una anforetta (amphoriskos, αμφορίσκος) beotica, a figure nere (giusto della fine del V Sec. a.C.), proveniente dal Kabirion di Tebe (altre principali sedi della religione cabirica erano Lemno e Samotracia), sede d’un culto misterico nei confronti di quell’enigmatico gruppo (più spesso una coppia di maschi e una coppia di femmine, come i figli e le figlie di Leda) di divinità ctonie e dell'oltretomba, contemporaneamente vocato alla protezione dei marinai.
Furono infatti naviganti fenici a importare in Grecia il culto di due divinità cabiriche, uno vecchio (Axiocersus) e uno giovane (Kadmilos, Καδμιλος, o Cadmo, Κάδμος, dall’etimo fenicio, che potrebbe significare “orientale”, ovvero “ho brillato in precedenza”, nonché nome del fondatore e primo re di Tebe, e di un tipo di scudo rotondo, attributo iconico dei coribanti), i quali, poi, si modificarono in vari modi, a seconda d’una loro differente identificazione con le divinità elleniche locali, finché, specialmente nel mito degli Argonauti, che secondo Eschilo furono iniziati ai loro misteri estatici (τὰ Καβείρων ὄργια), non assunsero le più definite caratteristiche dei Dioscuri. Anche se Clemente Alessandrino scrisse che i Cabiri erano dapprima tre fratelli, di cui due commisero fratricidio; e, nella Periegesi della Grecia (IX, 25.6), Pausania racconta che, al tempo degli Epigoni, i Cabiri vennero, forse a causa di questo esecrabile delitto, scacciati dalle loro dimore dagli Argivi vittoriosi.
La battaglia della Sagra
Si tramanda che i locresi, grati ai Dioscuri per l’inaspettata vittoria contro forze esageratamente soverchianti (quasi centotrentamila contro appena diecimila), nei pressi del fiume Sagra (identificabile col Torbido o l’Allaro), a essi, “figli di Dio”, dedicassero il gruppo scultoreo che decorava il frontone occidentale del maggior tempio in contrada Marasà, e innalzassero loro pure degli altari, sia nei pressi del luogo preciso dove s’era svolta la difficile battaglia, sia sull’antica linea di confine con Kaulon, soggetta all’influenza crotoniate, arrivando persino, come sostenuto da Jacques Heurgon (1903-1995), a diffonderne il culto sino a Lavinio, nel Lazio.
Identificazione iconica
Così come fu molto sentita questa devozione per i Dioscuri, e sicuramente praticata per secoli, con l’avvento del cristianesimo e la supremazia imposta sul precedente paganesimo, in un periodo successivo al V-VI sec. della nostra era, venne essa definitivamente sostituita con una analoga, proprio per quei santi Cosma e Damiano a loro molto simili. Con questa “sostituzione sincretistica”, e con i templi delle vecchie divinità trasformati in chiese, le statue antiche probabilmente potevano avere un destino diverso a seconda della sensibilità dei nuovi accoliti, essere riutilizzate in base a grossolane affinità dell’iconografia, sempre che qualcuno si sforzasse di ravvisarle, oppure venire dagli stessi pagani nascoste in grotte e spelonche, ovvero dai nuovi credenti distrutte, sotterrate o ancora gettate in mare.
Le “nostre” statue apparvero adagiate in uno spazio ristretto, circondato dagli affioramenti rocciosi, una accanto all’altra, allineate, quasi come in una deposizione “sepolcrale”. Ci fu forse della rispettosa cura in quest’occultamento ordinato e operato quindi per proteggere le preziose immagini dalla sacrilega iconoclastia dell’VIII sec.?
Si dia il caso che la processione dei Santi, nella seconda domenica di maggio (e a Riace questa data convive con la ricorrenza “ufficiale” di fine settembre), ci indichi una meta specifica, un luogo sacro in cui celebrare un cerimoniale di tipo magico, totalmente disgiunto dalla liturgia cristiana, che coincide con un punto preciso del litorale (dove per altro è avvenuto il fortuito ritrovamento delle statue e dove affiorano quei frammenti appena visibili di rocce sotto la superficie dell’acqua, le quali a volte sembrano fare capolino tra la schiuma delle onde, ma che un tempo avrebbero formato l’approdo del porticciolo sul quale erano state poste, magari in esposizione, come icone, dopo aver trovato già altrove una originaria, o secondaria, collocazione), ove immergere, proprio lì (Scoglio dei santi Cosma e Damiano), le sacre reliquie secondo quell’arcaico rituale, propiziatorio di pioggia che richiede imperiosamente l’intervento divino con gli accenni quasi della minaccia: “Santi Cosimu e Damianu o n’abbagni o v’abbagnamu” , oppure implorante protezione e allontanamento dai morbi: “…Medici di Cristu e d’ogni cristianu Pigghiativi stu mali E purtatilu o funnu du mari Unni un ci su pisci e mancu cristiani”.
In quanto gemelli “diversi” (uno mortale, l’altro divino), Dioscuri “misteriosi”, poiché connessi ai Misteri degli dèi Cabiri di Samotracia, Lemno e Tebe, il cui culto s’è conservato sino a oggi nella venerazione dei santi Cosma e Damiano; i due Aiace, l’Oileo (eroe degli Ozoli) e il Telamonio, valoroso quanto il cugino Achille; ovvero sempre il medesimo personaggio, Euthymos di Locri, più volte vincitore a Olimpia nelle gare di pugilato e poi liberatore di Temesa dalle angherie del demone Alibante, fantasma di Polite; Agamennone (per l’atteggiamento altero e “molto determinato”, Ἀγαμέμνων, bronzo A) e Milziade (vittorioso a Maratona, il più maturo e posato, per la calotta che gli ricopre il capo, a riproduzione della cuffia in cuoio indossata sotto l’elmo dagli “strateghi”); Eretteo, sovrano d’Atene, ed Eumolpo, difensore di Eleusi; due dei tre Dinomenidi siracusani; o forse anonimi oplitodromi, corridori nudi a cui s’imponeva d’indossare l'elmetto dei fanti opliti (corsa oplitica od oplitodromia), oltre al pesante scudo cavo (òplon, ὅπλον, o aspis koile, ἀσπίς κοίλε); ecisti (οἰκισταί), fondatori d’antiche città magnogreche, quali Reghion (Artimedes di Calcide) e Zankle (Antimnestos), Kroton (Eracle), Kaulon, Lokroi Epizephyrioi; eroi, re, atleti, ma anche due semplici guerrieri, un greco e un trace, o un oplita e un condottiero, con in pugno armi differenti, rispettivamente una lancia e forse una spada, un elmo corinzio reclinato all’indietro e forse uno frigio, e due immancabili scudi.
E, a proposito, dove sono finiti i componenti di questa panoplia ellenica: dòry (δóρυ), xìphos (ξίφος), krànos (plurale κράνη), aspìs (plurale ἀσπίδες), e forse altro ancora, tipo schinieri, bracciali, corazza, protezioni per le caviglie e per i piedi?
Al Paul Getty Museum di Malibù, assieme al “terzo” bronzo, quello con “braccia aperte e la gamba sopravanzante” (atteggiamento da pacificatrice fra i figli, - nel caso di Giocasta, o Euryganeia, - o di sconsolazione, - nel caso invece di Edipo cieco, in ginocchio e con le braccia alzate, come compare al centro della composizione in terracotta d’epoca etrusco-ellenistica nel Frontone di Talamone, - oppure da lanciatore di giavellotto, - analogo a quello del Cronide di capo Artemisio, conservato al museo archeologico nazionale d’Atene, attribuito sia alla bottega di Calamide, come a Mirone o a Onata di Egina)?
Ufficialmente il ritrovamento a Riace Marina viene datato 16 agosto 1972, e qualcosa non dev’essere andato per il verso giusto nella trattativa circa l’acquisizione di almeno una lancia e uno scudo (cavo argivo, l’òplon, ὅπλον), visto che sedici mesi dopo avviene il celebre sequestro del nipote John Paul Getty III, esattamente il 15 dicembre del 1973.
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