"Tinto, tu… n' t' intendi tanto di tette ritinte" ma anche di glutei, chiappe, natiche, deretani, sederi, posteriori, mappamondi, panieri, podici, fondoschiena… insomma, un pigofilo! E cos’è in fondo l’anima se, nello specchiarsi, mostra il didietro? El beso de abuela, el siempre sucio, Chueco, sin esquinas… o un’altra “origine du monde”?
Omettendo il viso della modella, l'inquadratura adottata da Courbet rileva, infatti, le gambe divaricate alla cui audacia realistica, - da foto stereoscopica alla Auguste Belloc, - la sofisticata gamma di tonalità ambrate conferisce notevole carica seduttiva, senza comunque scadere nel volgare, anzi omaggiando le languide bellezze della pittura di scuola veneta - la tizianesca “Venere di Urbino” (1538), che riprende la “Venere dormiente” (1508) del Giorgione, o “Susanna e i vecchioni” (1557) di Jacopo Robusti, dal cui vezzeggiativo il nostro Giovanni Brass prese il nome.
Tinto Brass con la moglie soveratese Caterina Varzì
Hotel Courbet
L’allegoria iconica di quel titolo inneggia alla potenza vivificatrice dell’Eros primigenio, l’entità in grado di promuovere la vita e la forza dell’intero Cosmo.
Con il corto (18 min. di durata) “Hotel Courbet” (2009), Tinto Brass sembra rivolgere il proprio interesse erotico alla forma più pura della femminilità, trascurando ogni intenzione provocatoria o immorale e cedendo alla tentazione d’un’erudita alterigia citazionista: “La Chambre bleue” (1963) di Simenon (trasposto da Mathieu Amalric cinque anni dopo, nel 2014), o i saggi di Aldo Carotenuto, come "Diario di una segreta simmetria" (1980), sull'intreccio dei conflitti clinici, sentimentali e scientifici fra Jung, Freud e Sabina Spielrein (portato sullo schermo, una prima volta, nel 2002, da Roberto Faenza, “Prendimi l'anima”, e poi, nel 2011, da David Cronenberg con “A Dangerous Method”). L’estetica della depravazione fine a se stessa non sembrava tuttavia più in grado di provocare turbamenti né di tentare le virtù della sua nuova musa soveratese, nonché seconda moglie (quindi: ri-Tinta), Caterina Varzi.
Sotto il divano… la rosa?
Aveva destato molto più scalpore, trent’anni prima, quel suo intervento alla trasmissione televisiva (“Sotto il divano”) di Adriana Asti, per la recitazione dei tre versi in vernacolo veneto: “La rosa vien di maggio, / la viola vien col giasso,/ la mona vien col c…”.
Paese povero o povero Paese?
E pensare che la prima disavventura con la censura l’aveva sopportata già nel’60, e non per allusioni sessuali, con il documentario di Joris Ivens “L'Italia non è un paese povero”, al quale, pur non venendone accreditato, chi agli esordi fu definito dalla critica francese «il nipotino di Orson Welles» aveva fornito un sostanzioso contributo, al fine di poterlo inviare agli Oscar, come venne poi raccontato da Stefano Missio in un’opera meta-documentaristica (ovverossia, "documentario sul documentario"), “Quando l'Italia non era un paese povero” (1997).
Era stato De Gaulle a dire che l'Italia non era un “Paese povero”, ma un “povero Paese” (sic!) e il film, pensato per la tv in tre episodi settimanali, sui cambiamenti provocati dalla metanizzazione, con la lunga intervista di Paolo Taviani a Enrico Mattei, doveva rappresentare un’appropriata risposta "industriale" a quel giudizio così tranchant e pungente. Forse non ottenne il risultato sperato o forse fece tanta sensazione da provocare la ferale reazione dell’attentato che due anni dopo costò la vita al grande imprenditore. Del resto, era stato proprio il presidente dell’Eni a richiedere la realizzazione di quella denuncia circa l’influenza americana in Italia nel campo dell’estrazione e della raffinazione degli idrocarburi, che per la crudezza dell’esposizione la Rai si rifiutò di trasmettere integralmente.
Lo sperimentalismo iniziale
Ciò che andrebbe considerato in assoluto il “primo” short di Brass è pieno di primi piani così vicini che non si capisce cosa si stia guardando. E questa ambiguità non si risolve nemmeno quando la fotocamera mostra finalmente una panoramica completa. “Spatiodynamisme” (1958) sembra abbia influenzato l’astrattismo di Jordan Belson (”Samadhi” del 1967, o “Music of the Sfere” del 1977). E Danilo Donati avrebbe tradotto in scenografia per “Caligola” (1979) proprio queste visioni che fanno pure pensare alle allucinazioni finali di “2001: A Space Odyssey” (1968) di Stanley Kubrick?
Thermidor
Il lavoro di montaggio, a mo’ di collage, “Ça ira, il fiume della rivolta” (1962), composto di immagini già note, sulle rivoluzioni del Novecento, (dalla Rivoluzione d'ottobre e da quella messicana ai campi di sterminio nazisti e alle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki) e sulla loro pesante eredità, viene commentato secondo i dettami storico-ideologici libertari dell’epoca, ma in modo alquanto sarcastico.
Chi lavora è perduto!
Nel 1963, - per una sfilza interminabile di offese: alla famiglia, alla patria, alla religione… – vennero sollecitati dei tagli al lungometraggio d’esordio di Tinto Brass, il quale si limitò a cambiare solamente il titolo (da “In capo al mondo” a “Chi lavora è perduto”) di quel racconto, imprudente e un po’ anarcoide (addirittura precorritore di Arrabal?), in cui il protagonista, per sfuggire all’impiego che gli viene proposto, vaga per le calli di Venezia. Fortunosamente usufruì del momento favorevole determinato dall’insediamento d’un governo di centro-sinistra (a presidenza Moro), - con Ministro dello spettacolo Achille Corona, - e d’una nuova composizione della Commissione per la revisione cinematografica.
Un disco volante atterra in Veneto
L’anno successivo asseconda la satira di costume dell’affiatata coppia Sonego-Sordi ne “Il disco volante” (1964), senza trascurare di far pronunciare a Monica Vitti un "Dime porca che me piasi de più", quasi a sua firma indelebile.
Fin quando si mantiene asservita al potere, la borghesia del Nord-Est risulta accettabile, ma diventa sgradita se lascia scoperta la propria vena d’un anticonformismo misto a corruzione.
L’uccellino e l’automobile della mia signora
Nel collettaneo “La mia signora” (1964), cura gli episodi “L’uccellino” (gelosia nei confronti dei pennuti a cui si dedica la moglie che viene infine soppressa dal marito “cacciatore”) e “L’automobile” (maggior preoccupazione per una Jaguar che per il tradimento della consorte).
Yankee
Nel ’66 dirige un originale “spaghetti” western, “Yankee”, nello stile pop del fumetto, attraverso la scomposizione della narrazione tipica delle strisce all’americana e con delle inquadrature dal taglio simile a quello delle tavole disegnate con cura dei dettagli, evidenziati dalla fotografia di Alfio Contini: i volti ravvicinati di Adolfo Celi e Philippe Leroy in primo piano, lo scorpione, il fuoco, la crocefissione, la scena cult della donna nuda legata al palo. Il risultato finale del ri-montaggio da parte della produzione verrà rinnegato dal regista, come accadrà spesso in seguito (“Salon Kitty” o “Caligola”, per esempio).
Col cuore in gola
Liberamente ispirato al romanzo “Il sepolcro di carta” (1956) di Sergio Donati (lo sceneggiatore di Sergio Leone), e ricco di riferimenti all'arte contemporanea (op-art), alla musica (Armando Trovajoli), come alle strip di Guido Crepax (da cui prendono spunto le sgargianti scenografie di Carmelo Patrono), nonché a “Blow-Up” (1966) di Michelangelo Antonioni: “Col cuore in gola” (1967).
Bernard (Jean-Louis Trintignant) crede fermamente nell’innocenza d’un’assassina (Ewa Aulin). Gli apparentemente immotivati passaggi dal colore al bianco e nero valgono per introdurre “Bad Acid Trip”, come pure per rammentare quel vago sentore thriller da Nouvelle Vague (introdotto da “À bout de souffle” di Jean-Luc Godard nel ’60).
Idealmente “Col cuore in gola” venne seguito a ruota dal giallo, con colpo di scena, “La morte ha fatto l'uovo” (1968) di Giulio Questi, che ripropose la stessa coppia Trintignant/ Aulin. Quest’ultima attrice ormai avviata a una carriera decisamente, e inesorabilmente, “pop”: “Candy” (1968) di Christian Marquand, “Microscopic Liquid Subway to Oblivion” (1970) di John W. Shadow.
Prime trasgressioni erotiche
“L'urlo” (1968) è incentrato sulla vita disinibita d’una Tina Aumont che abbandona sull'altare il promesso sposo, e con lui le restrizioni e l’ipocrisia borghese ch’egli rappresenta. Dopo essere stata violentata da agenti di polizia, vaga in compagnia d’un evaso incontrando delle evidenti bizzarrie, tra cui una famiglia di cannibali ben educati, dei malati di mente in rivolta, un capo militare la cui bassa statura non ha sminuito l’arroganza, una banda di poliziotti arrabbiati ma inetti e un hotel pieno di sperimentatori del sesso. Tale libertino vagheggiamento illusorio venne molto censurato per oltre un lustro.
Grazie alle dimensioni dei caratteri del titolo del ’69, “nEROSubianco”, si gioca con la doppia lettura della torbida attrazione per la relazione interraziale (nero su bianco, appunto) e della passione amorosa (scrivendo in stampatello le lettere dalla seconda alla quinta: Eros), scatenata da un uomo di colore in una donna sessualmente repressa, ma fondamentalmente innamorata del marito. Un aspetto ludico-linguistico in seguito praticato di sovente (tipo: Capri-ccio, Tra-sgre-dire, Mona/Amour, Fallo!).
Una rock band (Freedom, un gruppo guidato da Ray Royer e Bobby Harrison, membri fondatori dei Procol Harum, per l’occasione, debuttò con l’album Black on White, di nuovo: nero su bianco, ma in inglese) fornisce un commento in esecuzione all'azione che si svolge intorno a casuali nudità e a sorprendenti immagini psichedeliche.
Pazzi in fuga da una civiltà altrettanto folle
Due emarginati (dropouts) fuggitivi vengono raggiunti, lo psicopatico criminale dagli inseguitori, l’altra, suo ostaggio ormai innamorata, dal marito tradito: “Dropout” (1970). La coppia Vanessa Redgrave/ Franco Nero viene riproposta l’anno successivo: ma questa volta è lei a usufruire d’un permesso di prova dal ricovero psichiatrico, durante il quale s’innamora d’un bracconiere: “La vacanza” (1971). Passa da un'avventura all'altra, ma finisce di nuovo reclusa in prigione.
Salon Kitty (1976)
Dopo il successo de “Il portiere di notte” (1974) della Cavani, va di moda una certa mescolanza tra sesso e svastica, in una sorta di sottogenere spinto sino alle estreme conseguenze delle perversioni nazi-erotiche, a cui Brass unisce svariati omaggi: al Visconti de “La caduta degli dei” (1969), al Pasolini di “Salò o le 120 giornate di Sodoma”, al Bertolucci de “Il conformista” (1970) e di “Ultimo tango a Parigi” (1972), “Barbarella” (1968) di Roger Vadim e “Histoire d'O” (1975) di Just Jaeckin, o a “Cabaret” (1972) di Bob Fosse, persino a “Il grande dittatore” (1940) di Chaplin e a “Freaks” (1932) di Tod Browning, senza dimenticarsi di quella sua sofferta rinuncia “A Clockwork Orange” (1971), realizzata in sua vece da Stanley Kubrick.
Ispirandosi alle memorie (“The Labyrinth”) di Walter Schellenberg, pubblicate nel ’56, e al romanzo “Madam Kitty” (1973) di Peter Norden, aventi in oggetto una casa di tolleranza berlinese realmente esistita, durante il periodo nazista, al numero 11 di Giesebrechtstrasse (impiegata dal servizio di intelligence Sicherheitsdienst, a scopo spionistico e, per sua sfortuna, frequentata da Galeazzo Ciano), Ennio De Concini sviluppò una fiction dove il potere si scontra con ribelli idee d’una spontanea libertà d’amare anche in un lupanare. La rappresentazione d’un edonismo sfrenato, reso più accattivante dalla scenografia di Ken Adam, valsero i numerosi tagli che il produttore fu costretto a concordare.
«"a C" e "d C"»
Per la filmografia di Tinto Brass, con buona probabilità, “Salon Kitty” fu il vero spartiacque, tenendo da conto che lui stesso non dice di condividere quella separazione tra «"a C" e "d C". Che non vuol dire "avanti Cristo" e "dopo Cristo", ma "avanti Chiave" e "dopo Chiave"».
Se si accettano per buone queste locuzioni abbreviate, si potrebbe anche pensare di porre al centro di queste due fasi dell’impegno cinematografico brassiano la ricostruzione storica con l’iniziale appropriata in C, “Caligola” (1979), dalla lavorazione della quale però venne, a un certo punto, estromesso da uno dei produttori (l’altro era Franco Rossellini); quel Bob Guccione, editore di Penthouse, che girò poi le scene addizionali di sesso esplicito, assieme a Giancarlo Lui (post-production director), autore poi di «A Documentary on the Making of 'Gore Vidal's Caligula'» (1981).
Caligola di Gore Vidal
L'idea d’una feature sul controverso imperatore romano fu inizialmente del noto saggista e romanziere statunitense Gore Vidal (autore, nel ’64, d’una biografia dell’apostata “Julian”, e sceneggiatore di film di successo come “Suddenly, Last Summer” di Joseph L. Mankiewicz o “Ben-Hur” di William Wyler, entrambi del 1959), il quale scrisse una bozza dal titolo provvisorio “Caligola di Gore Vidal”, che venne ampiamente alterata, cavalcando l’onda del successo di “Arancia Meccanica” (1971), dal nostro Tinto, concentrato soprattutto sull'idea anarchica che "il potere assoluto corrompe assolutamente".
Ma, volendo a tutti i costi creare quello che doveva diventare essenzialmente un porno di fascia alta e non soltanto un semplice film di satira politica, e preoccupato che non ci fosse abbastanza hardcore, Guccione arrivò a sconfessare sia il regista sia lo sceneggiatore, inserendo le auspicate scene di sesso esplicito nel montaggio finale, dal quale Brass e Vidal si sono sentiti in dovere di prendere le distanze. Oggi, la versione integrale del film di Guccione viene tuttavia considerata come un'indubbia pietra di paragone nella storia del cinema sessuale e la sequenza dell’orgia sfrenata e tentacolare resta un vero e proprio classico di culto cinefilo.
Action
A chiusura degli anni ’70, canto del cigno della carica contestataria sessantottina, di cui ricordano gli sforzi avanguardistici, e dell’interesse per le problematiche sociali d’emarginazione, già espresse nel dittico “Dropout” e “La vacanza”, nonché forse terzo spartiacque epocale: “Action” (1980), opera di ricapitolazione e bilancio di relazione tra finzione e realtà, dove, in seguito alle vicissitudini di “Caligola” e “Salon Kitty”, l’attenzione si sposta verso i rapporti tra produzioni d'autore e dichiarata pornografia, quasi in parallelo con il coevo felliniano “La città delle donne”.
La chiave (1983)
Del romanzo, del 1956, di Jun'ichirō Tanizaki c’era già stata una trasposizione cinematografica giapponese (Kagi, 1959), da parte di Kon Ichikawa (l’autore de “L'arpa birmana”, Biruma no tategoto, 1956). La “chiave” dovrebbe chiudere il cassetto dove si conserva il diario intimo e segreto che però si vuole venga letto da chi si sente indotto a eseguirne le istruzioni.
Brass ambienta la vicenda nella Venezia prebellica. L’irrisione del perbenismo, più della prorompente fisicità della Sandrelli, ne determinarono il sequestro con conseguente enorme successo di pubblico, un po’ meno indiscutibile quello della critica che vi intravide la definitiva deriva erotica sconfinante nel trash. Le scene di sesso ambientate nella “stanza azzurra” dell’alberghetto-alcova sarebbero un chiaro omaggio a “La Chambre bleue” (1963) di Simenon.
Avventure in una locanda del dopoguerra
Il personaggio goldoniano de “La locandiera” diviene “Miranda” (1985), vedova di guerra che deciderà di sposare, per sottometterlo sessualmente, l’unico al quale non si è prima concessa. Nella desolazione morale, la vagheggiata speranza sessuale appare l’unica praticabile, ma sembra che la rottura dei vincoli censori colgano impreparato il regista, paradossalmente più stimolato dal proibizionismo degli anni precedenti, quando le attese voyeuristiche restavano immancabilmente frustrate. Sorge il dubbio che forse abbia già dato il meglio di sé?
- Nell’anno successivo un autore impegnato come Marco Bellocchio sdogana il sesso orale ne “Il Diavolo in corpo”. Un parallelismo stringente per capire il progressivo disinteresse degli spettatori guardoni nei confronti d’un’autorità nel campo della scopofilia cinematografica.
Capriccio
Da “Le lettere da Capri” (1954) l’intreccio di coppie di “Capriccio” (1987) offre a coniugi potenzialmente fedifraghi l’opportunità di riconsolidare il loro rapporto, sulla scorta della delusione determinata dall’inseguimento di ricordi che non si riescono a ravvivare. Mentre, nel libro di Mario Soldati, un primo narratore omodiegetico legge dapprima la confessione d’un adultero e poi le lettere che la moglie di questi spediva contemporaneamente al proprio amante. A parte questa “infedeltà” alla scrittura originale, “Capri-ccio” contiene momenti cult di sesso “soft” (oralità al gusto di limone, la perversione urolagnica), ma anche sprazzi di poeticità (con la Dellera, “ninfa plebea”, che corre nei boschi col velo nuziale - forse richiamo al Jean Vigo di “L'Atalante” del 1934, considerato, soprattutto dagli esponenti della Nouvelle Vague, tra i massimi capolavori del cinema francese prebellico).
Snack Bar Budapest
Dopo il trittico soft (“La Chiave”, 1983; “Miranda”, 1985; e “Capriccio”, 1987), proposto a scadenze bilanciate nel cuore del decennio degli ‘80, con “Snack Bar Budapest” (1988), sembra esserci quasi come una pausa di riflessione, con ritorno all’ispirazione fumettistica della seconda metà degli anni sessanta, mescolata, questa volta, a un “grottesco” che si tinge di bizzarrie gialle e noir, assai prossime al “pulp”. A trascinare nel vortice di violenze il sogno ambizioso di trasformare un’anonima località balneare in metropoli del vizio, nonché di lusso e lussuria.
Si avvale dell’omonimo soggetto di Marco Lodoli e Silvia Bre, scritto un po’ alla maniera degli ultimi minimalisti americani (John S. Barth, Robert L. Coover, William H. Gass) e apprezzato dalla critica nell’anno precedente. Non mancano le autocitazioni e perfino un doppio cameo. L’introspezione sulla desolazione amorale che conduce a follia troverebbe radici in certo cinema di Leos Carax (“Mauvais Sang”, del 1986) e pare anticipare addirittura: “Seul contre tous” (1998) di Gaspar Noé, il “Vidoq” (2001) di Pitof, e forse pure “House of Flesh Mannequins” (2009) di Domiziano Cristopharo, in cui ricompare Raffaella Baracchi, che non ha fatto in tempo a diventare musa di Brass.
Tinto talent scout
Da “Paprika” (1991), a “Monamour” (2005), segue un polittico - Così fan tutte (1992), L'uomo che guarda (1994), Fermo posta Tinto Brass (1995), Monella (1998), Tra(sgre)dire (2000), Senso '45 (2002), Fallo! (2003) – in cui si prova gradualmente a osare sempre di più, grazie alla parallela complicità (e rivalità) dell’ormai affermato circuito a luci rosse, ma forse è troppo tardi per scandalizzare veramente un pubblico smaliziato ed esigente. Purtuttavia, da Deborah Caprioglio ad Anna Jimskaia (Claudia Koll, Katarina Vasilissa, Cristina Garavaglia, Cinzia Roccaforte, Anna Ammirati, Yuliya Mayarchuk, Sarah Cosmi…) sarà tutto un susseguirsi di occasioni di risalto e notorietà per volti (e non solo i volti) nuovi, che faranno di Tinto Brass, come scrisse Massimo Bertarelli: un «autentico genio nella scoperta, nel senso più ampio del termine, di giovani virgulti femminili».
La legge Merlin per Fanny Hill
Ispirandosi al romanzo settecentesco di John Cleland “Fanny Hill. Memorie di una donna di piacere” (1748), “Paprika” (1991) lo aggiorna di due secoli, ambientandolo all’epoca della chiusura delle case di tolleranza. In un certo senso, forse, completa una sorta di terna sul sesso "gioioso", iniziata con “Miranda” e proseguita con quella specie di “fotoromanzo” “Capriccio”; assieme a “Monella” (1998), il maggior successo di quel decennio. Molto curata una nostalgica ricostruzione d’epoca, dall’ impeccabile montaggio da vero maestro.
Lo specchio (posteriore) dell’anima
Lo spunto del libretto di Da Ponte per l’opera mozartiana suggerisce la morale di “Così fan tutte” (1992), che, cioè, come il peccato, in un panorama che altrimenti denuncerebbe l'aridità dei rapporti coniugali, i tradimenti sono fonte di nuovi, stimolanti momenti di voluttà. Anche se la protagonista nutre il sospetto d’essere andata troppo oltre giusto quando scopre che il suo sedere è divenuto oggetto di culto pigofilico, come se fosse “lo specchio dell’anima”!
“L'uomo che guarda” (1994)
Liberamente tratto dal romanzo omonimo, del 1985, di Alberto Moravia, si propone come saggio d’una psicanalisi spicciola, fin troppo semplificata e popolare, interessata alla complementarità tra voyeurismo ed esibizionismo e al coinvolgimento nell’edipica “invidia del pene”, che mascherando la paura di castrazione alla lunga diviene depressogena.
Di stampo davvero “hitch-cock-iano” (Hitch, intoppo, attaccamento; cock, pene) il cameo in cui s’inquadra sulla parete un dipinto con Brass che spia dallo spiraglio d’una porta. “L'uomo che guarda” è Lui! (Non “Io”, tanto per citare un altro titolo di Moravia, “Io e Lui”, 1971).
Non riesco a non sbirciare
Come se ci fosse il bisogno di ribadire l’importanza della curiosità scopofilica, confermata pure nei titoli dei cortometraggi successivi: “Kick the Cock” (2008) è un vecchio detto, con più significati allusivi, tra cui sbirciare; "I Miss Sonja Henie" (Nedostaje mi Sonja Henie, 2009) il risultato della richiesta del regista jugoslavo Karpo Acimovic-Godina ad altri colleghi (Puriša Đorđević, Milosz Forman, Buck Henry, Dušan Makavejev, Paul Morrissey, Bogdan Tirnanić, Frederick Wisemann) di girare meno di tre minuti di filmati con inquadrature statiche all'interno d’una camera da letto: nell’insieme quasi una “featurette”.
L'uomo che ama le femmine
Anche al nostro Tinto si addice l’appellativo che s’attribuì François Truffaut nella pellicola del 1977. E il protagonista del suo film testamento (“Vivement dimanche!”, 1983), citando proprio “L'homme qui aimait les femmes” (1977), dalla piccola finestra d’un seminterrato, viene scoperto a osservare le gambe delle donne che camminano sul marciapiede; e Barbara Becker (Fanny Ardant), quando lo scopre, esce dall’ufficio delle transazioni immobiliari per passare e ripassare apposta da lì lentamente e mettersi in mostra dai polpacci ai tacchi, accondiscendendo ad altocalcifilia e retifismo. Alla fine, pure il vero colpevole di quel giallo confessa platealmente la sua ossessione per il sesso femminile.
Episodi misti di voyeurismo e feticismo letti dal solito narratore omodiegetico
“Fermo posta Tinto Brass” (1995) è un film commedia/erotico a episodi, legati dal solito primo narratore omodiegetico, il quale legge le lettere ricevute da corrispondenti lussuriosi che trattano di un fantasticare-narrare in libertà (quasi uno "storiellare" agli psicologi) una materia da visualizzare, fatta di scambi di partner, triolismo, sesso telefonico, o poker sexy d’azzardo, in cui la “posta” in gioco è la moglie. In “Stivaletti rosso tango”, calzarli è una scusa per l’upskirt che dimostra come sotto il vestito non s’indossi nulla; mentre la "prova della monetina" chiarisce come avvenga la selezione delle aspiranti attrici, a seconda delle qualità del fondoschiena. Trasformando la realtà "virtuale" di questi racconti nella finta realtà della "fiction", i sogni si fanno "segni" e l'immaginario erotico viene tradotto in rappresentazione di "immagini" cinematografiche.
Che c'entra la fedeltà con l'amore?
"Che c'entra la fedeltà con l’amore?", in specie se una nubenda, tanto innocente e solare, quanto schietta, vispa e frizzante, non vuole arrivare "impreparata" al matrimonio, subendo il fascino torbido del ganzo della madre. In “Monella” (1998) si riprendono parti dello script di “Lola & il macellaio” - ovvero “Il macellaio e la fornaia”, oppure “Tenera è la carne” (le cui riprese furono iniziate ma non portate a termine), tratto dal libro “Il macellaio” (1988) di Alina Reyes.
Il titolo potrebbe nascondere il solito riferimento alla veneta 'mòna' - per via dell’incrocio con il termine d’origine spagnola, mono, dal celtico mònes, che vale per 'scimmia', oppure dall’arabo maimun, il quale significa pure “gatta”, da cui “gatto mammone”, per la somiglianza di certi cercopitechi con i felini.
L’omaggio a “L'Atalante” (1934) di Jean Vigo subirebbe qui un’inversione di genere, in quanto è Lola che, immergendosi nel lago, vede Masetto col velo da sposa, modificando en travesti il surrealismo della famosa sequenza in cui Jean si tuffa nel fiume dove "vede" la sua amata.
A distanza di 13 anni da “Miranda”, Serena Grandi adegua il suo ruolo prosperoso a giunonica madre di Lola, Zaira. - Ma, ormai l'opinione pubblica e la critica sono colpite maggiormente dalle scene di sesso non simulato, come l’anno dopo, alla Mostra del cinema di Venezia, alcune performances di Elisabetta Cavallotti, inserite in “Guardami” (1999) di Davide Ferrario.
La sincerità del fondoschiena
“Tra(sgre)dire” (2000): una fidanzatina viene sedotta da un’abile lesbica, poi “ripassata” dal marito di lei, così incrementando sia la gelosia sia il desiderio del suo uomo, il quale preferisce infine che tutti i tradimenti vengano sempre negati. In quanto le bugie diventano un elemento importante nel rapporto di coppia, dal momento che, quando ormai tutte le verità sono state esaurite, ed esaudite, soltanto la menzogna è in grado di sollevare un velo di mistero, o di suspense, come pure di eccitante curiosità. Questo perché le donne “con la faccia possono fingere e mentire”, mentre “col culo rivelano sempre la loro anima".
Dopo aver visto “Il buono, il brutto, il cattivo”, Bertolucci disse a Sergio Leone: “Mi piace come giri il culo dei cavalli, solo tu e John Ford fate vedere il culo, gli altri li riprendono sempre davanti o di fianco”. E inquadrare un lato B sorridente, quanto il viso della donna che lo mostra, non può non essere un esercizio di stile dagli spunti surreali, specie se diventa pretesto per esporre nudi in permanenza genitali femminili, frontalmente e posteriormente, e raccontare il sesso senza drammaticità, a volte con ingordigia, ma sempre con buon umore o allegria. Alla stregua di come, alla luce della visionarietà onirica, in un contesto trasgressivo, un tradimento risulti quale pura e semplice evasione. S’aggiunga agli umori anarcoidi e libertari la nostalgia per le riprese londinesi dei film pop della fine degli anni '60 (“Col cuore in gola”, 1967 o “nEROSubianco”, 1969), qualcosa della Nouvelle vague, di Rossellini, di Fellini e un pizzico di maestri giapponesi e la ricetta è bell’è pronta per ciò che all’estero è stato giudicato un "corny soft-porn flick" e distribuito col titolo inglese "Cheeky" (sfacciata).
- L’anno dopo, Kerry L. Fox fu premiata a Berlino con l'Orso d'argento come miglior attrice per “Intimacy” (2001) di Patrice Chéreau, dove non simula il sesso orale.
Senso '45 (2002)
La novella di Camillo Boito del 1882 era già stata trasposta da Luchino Visconti nel 1954. Brass l’ambienta in periodo bellico, agli sgoccioli del fascismo, per rendere più evidente il parallelismo tra lo stato di declino morale dei protagonisti a quello in cui l'occupazione (nazista a Nord, americana a Sud) ha fatto cadere l’intero paese. L’inquadratura esattamente all’altezza delle gambe spalancate della donna freddata, ripresa un po’ volgarmente da “Roma città aperta” (del 1945, appunto) di Rossellini, rinvia contemporaneamente a “L’origine du monde” (1866) di Gustave Courbet. Altri richiami agli acquerelli di George Grosz, mentre la sceneggiatura fa il verso alla letteratura di quell’epoca: Luciano Zuccoli e Pitigrilli. In questo caso, quello che sostanzialmente è uno sceneggiatore-regista-montatore prova a recuperare qualcosa del suo passato ("Dropout”, 1970; “La vacanza”, 1971).
- Quello stesso anno, alla 59ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, viene proiettato “Ken Park” (2002) di Larry Clark ed Edward Lachman, che riprendono senza problemi di sorta un veritiero rapporto sessuale a tre (threesome). L’anno successivo al 56º Festival di Cannes è ammesso “The Brown Bunny” (2003), scritto, diretto e interpretato da Vincent Gallo, con Chloë Sevigny nel ruolo di fellatrice.
La sensualità si va stingendo di rosa “shocking” (anche nel verso dell’indecenza)
Ritorno al film a episodi boccacceschi (più o meno un remake del precedente "Fermo posta…”), fondati sulle gioie della sessualità, non escludenti neppure "menage à trois", tra altri vizi e perversioni, comunque incentrati sulla nuova generazione di donne, un po’ biotte, in tutti i significati (di nudo e di meschino), le quali pur sempre non fanno che ricorrere ai soliti sotterfugi, bugie, malizie per vari triangoli, scappatelle, scambi di coppia, promuovendo quello sfacciato, spavaldo e prepotente erotismo femminile, in cui i maschi si dimostrano tonti o imbranati. Questo è “Fallo!” (2003), e imperativo e organo genitale.
L’ultimo episodio, dell’esibizionista in luna di miele, è intitolato con la frase pronunciata da Monica Vitti ne “Il disco volante” (1964): “Dimme porca che me piaze”. Manca giusto la battuta: "O famo strano", per pareggiare i conti, ma nel senso d’un soft privato dell’hard, con “Viaggi di nozze” (1995) di Verdone. Adesso, trasgressione ed erotismo appaiono quasi privi d’ispirazione e tanto sbiaditi da indurre qualcuno ad aggiungere una “esse” al soprannome dell’autore: S-tinto!
- Il montaggio alternato tra concerti rock e rapporti sessuali, nel 2004, caratterizza i 71 minuti di “9 Songs” diretto da Michael Winterbottom.
“Monamour” (2005)
Il titolo del ventiseiesimo film gioca con le vocali e il dialetto veneto: Mona mour, tenendo solo parzialmente conto del libro di Alina Rizzi “Amare Leon” (1998). Galeotto il Giove in erezione, durante una visita al celebre Palazzo Te per ammirarvi i "carnali" affreschi di Giulio Romano. Si tratta ovviamente d’un ardito riassunto conclusivo dei vari temi cari alla cinematografia brassiana trattati con goliardico spirito godereccio: dall'esaltazione del tradimento femminile come potente afrodisiaco per la coppia alla giammai trascurata predilezione per il posteriore e un certo gusto per la sodomia, poiché tutto ruota attorno a quella rotondità! Ineccepibile il “montaggio”, in entrambe le espressioni filmiche e coitali, ma è come se il servizio al tavolo fosse privo di consumazione. E già il porno esce direttamente, o esclusivamente, in DVD.
Nel 2006 viene a mancare Carla Cipriani, da tutti conosciuta come 'Tinta', fonte d'ispirazione («la vera porca») di tutti i lavori del marito, segretaria d'edizione, aiuto regista, coautrice dei copioni di «Monella», «Trasgredire», «Fallo!» e «Monamour»; la quale era solita negare ogni tentazione di gelosia, schernendosi: «Le altre passano, io sono sempre qua». Anche se la fedeltà non c’entra con l'amore, è l’amore che sembra costituire l’anima della fedeltà.
- VV. Tinto Brass: Uno sguardo libero, Gangemi, Roma 2016
Brass T. Elogio del culo, Tullio Pironti, Napoli 2006
Brass T. Una passione libera. In forma di autobiografia, Marsilio, Venezia 2021
Bruschini A. & Tentori A. Malizie perverse: il cinema erotico italiano, Granata press, Bologna 1993
Hawes W. Caligula and the Fight for Artistic Freedom: The Making, Marketing and Impact of the Bob Guccione Film, McFarland & Co Inc., Jefferson/London 2009
Ierace G: M. S. Les deux Anglaises et le in-continent, Calabria letteraria, 270, 52-58, gennaio-marzo 2021
Ierace G: M. S. La città delle donne, un Lewis Carroll nel labirintico paese delle magnifiche ossessioni, Calabria letteraria 268, 60-66, luglio/settembre 2020
Ierace G: M. S. Quando l’ideologia è un handicap - il cinema d Marco Bellocchio, https://calabriapost.net/cultura
Iori S. Tinto Brass, Gremese, Roma 2000
Miccichè L. Cinema italiano: gli anni '60 e oltre, Marsilio, Venezia 1998
Tentori A. Tinto Brass: il senso dei sensi, Falsopiano, Alessandria 1998