Il Presepe delle anime del Purgatorio: parterre o anticamera d’una seconda sepoltura (?)
Ben sanno i presepiari napoletani che una scenografia in sughero deve rispondere a delle regole ben precise, poiché il risultato, per essere davvero come si deve, non può prescindere dal cosiddetto “scoglio”, consistente in una sorta di pianeggiante primo piano, dal quale, con ripide discese e “scalinatelle”, si accede man mano alle due grotte destinate ad assumere maggior rilievo, sistemate poco al di sotto della linea di sguardo; e, proprio su questo secondo livello, una, ovviamente centrale, per la “natività”, dove si manifesta l’avvento dello spirito, e l'altra, più obliqua, per quell’”osteria”, da considerare, al contrario, il ''luogo diabolico”, in cui di più s’addensa la materia e con essa la dissoluzione e il peccato.
“Terribilis est locus iste”
In precedenza, si collocava, a distanza, sulle montagne, un elemento satanico, soppiantato, in un secondo tempo, dalla figura dell’oste, oppure da quella del macellaio, o del barbiere cerusico, che rievocano simbolicamente il sangue, e dunque il male; mentre i mendicanti, spesso numerosi e deformi (nei vari caratteristici ritratti dello storpio, dello zoppo, del guercio, del gozzuto, o della vedova), incarnano le anime purganti, o pezzentelle, nell’atto di supplicare preghiere di suffragio. Accanto all’immancabile architettura delle grotte, la tradizione prescrive che, dopo l'Epifania, questi luoghi, appartenenti al mistero ineffabile, siano predisposti a custodia proprio di quelle anime erranti, fino alla successiva novena di meditazione sul versetto dell’Apocalisse: “Nel cielo apparve poi un segno grandioso: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul capo una corona di dodici stelle” (12,1).
Ed è, forse, quanto venne rievocato a Maropati, nella chiesetta di Gesù e Maria, all’incirca tre secoli or sono. Perché, in effetti, il presepe, in specie quello di stampo barocco, napoletano, diviene anche la simbolica rappresentazione di un transito, un viaggio tra la vita e la morte, in cui le "anime del Purgatorio" costituiscono i principali personaggi di pellegrini dell’al di là che si rivolgono e parlano a chi non ha ancora varcato la soglia dell’ultimo confine. A Napoli e a Grottaglie, nel Salento, giorno dell’Epifania, il presepe si arricchiva di un’ulteriore scena alquanto singolare. Su di un ponte tra due dirupi, si collocavano dodici figurine di monaci incappucciati e scalzi, dal pollice sinistro fiammeggiante, a testimonianza dei mesi dell’anno precedente o dei dodici giorni del periodo natalizio, i quali, in onore alla Beata Vergine del Carmelo, che è appunto la Madonna del suffragio, erano ossequiosamente pronti a riemergere oppure a rientrare nell’aldilà. Durante le serate delle festività natalizie, in particolare nell’Avellinese, si raccomanda ai bambini di stare lontani dai pozzi, che rappresentano pericolosi luoghi di comunicazione con gli abissi, e quindi col mondo dei morti, per timore che un essere demoniaco femminile, trascinandoli sotto le profondità delle acque sotterranee, li catturi negli Inferi. Alla Madonna, puerpera, si contrapponeva così un’altra Maria, ‘a manilonga, effigie di quell’ambivalente sentimento di odio-amore, originato dalla doppia e conflittuale soggettività materna di genitrice-matrigna, il cui figlio si nutre d’un incommensurabile sacrificio (da sacer, nel senso dell’accondiscendenza). Lo testimonia, più tragicamente, una mitica Medea, ripudiata coralmente con terrore, perché della vita intacca l’inviolabile santità (da sancire, nel senso della prescrizione, sanità). L’abisso è quello d’una solitudine che allontana desideri e aspettative, trasformando la distanza in trapasso.
L’infante defunto
Il cadavere del bambino, in seno alla lugubre scenografia presepiale della chiesetta di Gesù e Maria, a Maropati, potrebbe aver assolto a delle funzioni apotropaiche e propiziatorie, come del resto accade, all’interno del camposanto, con i putti angelici. Da vivi, rappresentano senza dubbio quell’elemento fertile inseparabile dalla ricerca di felicità, da trapassati, rimangono mezzi d’intercessione o anche di catalizzazione d’energia.
Nel culto barocco, e “contro-riformato”, delle anime del purgatorio, si ricorre al termine “adozione” delle singole entità a cui dedicare un suffragio, rinviando così la memoria dei defunti “trascurati” a quel campo metaforico dell’infanzia abbandonata che contrappone il desiderio, del tutto femminile di maternage, e l’innocenza del “sìnite pàrvulos”, a una numinosità cratofanica. Si accentua, in tal modo, quell’ossimorica condizione di liminalità, allo stesso momento, precaria e potente, riproposta in altrettanti atteggiamenti rituali. Cratofania (da krátos, forza e pháneia, apparizione, tipo epifania) non è proprio un sinonimo di altri termini composti dal greco antico, per come, di primo acchito, una lettura di Mircea Eliade potrebbe indurre a ritenere: “Sono rari i fenomeni magico-religiosi che non implichino, in una forma o nell'altra, un certo simbolismo; … ogni fatto magico-religioso è una cratofania, una ierofania, una teofania”. E soprattutto non corrisponde affatto ad “agiofania” (da hágios, santo, da cui agiografia), come la lingua latina chiarisce, distinguendo tra il “sacer” (greco antico: hierós) di “sacrificio” e il “sanctus” più vicino a “sancire”, sanzionare, confermare. Anche se poi è invalso l’uso di considerare “santo” chi abbia ratificato la propria santità, essendosi sottoposto al sacrificio, per “sanare” i propri peccati e ottenere la san(t)ità e la “salvezza” (salute), in senso etico di bene, come in quello estetico di felicità suprema. Gli infanti rappresentano gli interlocutori privilegiati dell’altro mondo, camposanto, terra consacrata, giardino delle origini, soprattutto perché, in virtù della loro innocenza primaria, data dalla purezza sessuale, e della suggestionabilità, sostenuta dall’ingenua semplicità, sono naturalmente predisposti alla visionarietà. L’adozione, in specie quella metonimica del cranio, appare ancora di più un ulteriore connotato femminile, per via della correlativa infantile a quegli spiriti cosiddetti “minori”. Un’idea questa che, a Napoli, nel vero e proprio culto delle anime sante del purgatorio, si presenta linguisticamente nella tipizzazione vezzeggiativa di “capuzzelle”, affiancata da “pezzentelle”, in seriale corrispondenza tra morte e precarietà, e dunque povertà, vecchiezza, infanzia. Categorie imperfette, ma acconce a sottolineare una stigmatizzazione assoluta in ambito sociale, e contemporaneamente una parziale reintegrazione a margine, per diventare oggetto finale di carità, ma anche di intercessione per la grazia. In realtà, comunque e in ultima analisi, è sempre Il fedele a venire prescelto dall’anima che glielo dimostra apparendogli in sogno, onde potersi poi far riconoscere. Un eventuale, pressante “ritorno”, possibilmente controllato, dei defunti avviene ovviamente in uno spazio temporale intermedio, preferenzialmente in “luoghi” ed episodi onirici.
Lo scongiuro
La scena di questa visione limita la vicinanza, ma delimita i contorni di ciò che convoca, nell’articolare, con precise regolamentazioni, eteroclite imprudenti estensioni. In questo senso, la manifestazione (oneiros) dell’enkòimesis (incubatio, dormizione) diventa analoga alla dimensione dell’eidolon (contenuto e immagine di una forma e idea, eidos), in quanto, come spiega mirabilmente Jean-Pierre Vernant, in ”Mythe et pensée chez les grecs: études de psychologie historique” (1965): “si muove su due piani contrastanti a un tempo: nel momento in cui si mostra presente, si rivela come qualcosa che non è qui, come appartenente a un inaccessibile altrove”. La categoria del “doppio” produce inevitabilmente, e non solo secondo Freud, un effetto “perturbante” (unheimlich). L’illusione costitutiva dell’eidolon, con quell’immancabile apate (adescamento), riproduce l’inganno che Platone attribuì al mimetismo della skiagraphia. Un’ombra (skia) da collocare nel tempo e nello spazio, in Nekromanteion, cioè in quei luoghi e in quei momenti in cui può svolgersi il rito di passaggio, Nekyia. E gli ipogei sono per antonomasia ricettacoli di contatto e di comunicazione tra ciò che sta sopra e quanto è relegato al di sotto, intermedi e “terzi”, come appunto il purgatorio, in cui è ancora consentito un dialogo e uno “sfogo”, quello degli “Spiracula Ditis”. L’anima che si manifesta, facendosi riconoscere, dà l’avvio a una specie di mito fondante che, attraverso il simbolismo delle profondità ctonie, lega il culto ai suoi osservanti. Gli spiriti che desiderano propiziatorio ristoro (refrigerium), senza avere la facoltà di dialogare direttamente, inviano dei messaggeri sotto forma di guardiani onirici. In Calabria, il simbolismo onirico di militari e soldati, pastori a caprai, pecore e vacche, mosche e altri volatili, si riferisce ad anime intenzionate a visitare i parenti “nottetempo casa per casa”, nell’insistente richiesta di suffragi. In Sicilia, si ritiene addirittura di poter dedurre la sorte di un certo qual spirito nell'aldilà: se il levante è sgombro di nuvole, non c'è vento e si ode il lamento di un gufo è “tra color che son sospesi”. Il culto del Purgatorio raggiunge, comunque, la massima raffinatezza in Campania, dove se ne celebra il trionfo fin dagli inizi del Seicento. Un culto basato sulla misura e la giusta distanza, sommerso, ma non troppo profondo, rivolto a entità allo stesso tempo lontane, eppure così vicine, ancora in transito, senza avere però la possibilità di recedere, attraverso quella soglia della quale non hanno ultimato il passaggio finale. Nell'immaginario collettivo della cultura popolare del meridione, il culto delle anime del Purgatorio è segnato dunque dalle stimmate del mistero, come della precarietà. E di quella medesima precarietà che marchia l'esistenza su questa nostra terra, valle di lacrime di una dimensione d’incertezza e provvisorietà. Esiste, diceva Lévi-Strauss, come una reciprocità tra le relazioni che intercorrono tra i viventi, in una data società, e quelle che una civiltà mantiene con i defunti. Per cui, dal teatro di Edoardo, dalle macchiette di Totò, e dalla frequente consultazione della Smorfia, possiamo dedurre che l’eredità megalellenica della particolare categorizzazione degli esseri non del tutto morti, ma neppure completamente vivi, continua a far circolare, non tanto per le strade, ma in certi nascondigli, grotte, ipogei, cripte, luoghi segreti, tutta una folla anonima di presenze altrimenti assenti, e, nell’intimità delle case, ombre domestiche e spiriti familiari, quali fantasmi pronti a insinuarsi nei nostri incubi notturni, o in visioni rassicuranti. Il sogno, realtà seconda, in quanto illusoria, mette in scena, poiché teatrale, delle compresenze e simultaneità. Ne consegue che l’evocazione (ekklesis, chiamata), in grado di strappare dall’oblio, si svolga necessariamente nella dimensione temporale dell’al di là, in cui il presente dialoga con il passato, non ancora trapassato, scongiurando così un improvvido “ritorno” dei defunti, ancor più sconsideratamente se diurno, definito a questo punto da Ernesto De Martino, del tutto “irrelativo”. Soltanto allorquando il “passaggio” si è compiuto correttamente non è più consentita l’arbitraria ricomparsa dello spirito, il quale non troverà più alcuna possibilità d’esistenza su questa terra. Tale certezza fa sì che durante le varie visite al loculo si possa espletare un culto composto e quieto, in netta controtendenza con l’intensità della disperazione manifestata sulla tomba già prima, quando la libido dei sopravvissuti rimaneva ancorata all’oggetto d’amore da poco scomparso, e pertanto tuttora “fresco” e terribile, poiché non sottoposto alla “seconda”, e conclusiva, sepoltura. Fuoriuscita dal Purgatorio, l’anima si allontanerà definitivamente dalla realtà dei viventi; e, seppure resti una qualche forma di contatto coi vivi, avendo ottenuto la grazia, entra in una condizione non più concreta e definita, e dunque immaginabile, bensì sconosciuta e impensabile, e in ogni caso ormai assolutamente inaccessibile. Da questo momento in poi, il culto dei morti acquista dimensione domestica e l’effigie del caro estinto entrerà a far parte, assieme ad altre immagini di santi, della schiera di familiari trapassati già saliti in cielo, di quello spazio sacro dell’altarino che riproduce l’universo religioso popolare. Ma, per il felice esito del passaggio dell’anima, oltre alla scrupolosa esecuzione del rito, è necessario pure che la morte sia accettata; viceversa, una morte improvvisa e violenta, o una morte rifiutata, ostacolano l’iter cerimoniale, impedendo un approdo definitivo al mondo dei più. L’anima, in tal caso, perdurerà in una condizione liminale di dannazione, tornando di continuo a tormentare i vivi. E, su questi temi di lunga durata nella cultura occidentale, l’elaborazione meridionale, e napoletana in specie, ha fornito le figure dei morti inquieti, “invidiosi”, e dispettosi della “pacchiana”, del “monacello”, o, in Calabria, del “fadèttu”.
Doppia sepoltura
“Scendete, o vivi a visitar la morte pria che la morte a visitar voi scenda, fu sempre bene prevenir la sorte”
Un’esplorazione da parte del medico Francesco Dolce a certi luoghi di culto napoletani, descrive una situazione analoga a quella maropatese: “nell’entrare in essa m’imbattei in una gran camera fornita d’ogni intorno di nicchie fatte ordinatamente nelle mura ed in essa vi erano de’cadaveri, non già veri scheletri, che si erano dai giardinetti in diverse epoche dissotterrati, ed ivi allogati, oltre a molti teschi situati in un cornicione, che a lungo si estende sopra le suddette nicchie”. Il risultato di una precedente ispezione, datata 20 dicembre 1779, in altro sotterraneo fu: “…quella barbara maniera di seppellire li cadaveri, ch’è comune in questa città ne’luoghi detti communemente terresante. Sono queste ordinariamente sotto delle pubbliche Chiese, ed alcune a poca profondità, altre a livello delle strade, sulle quali sogliono avere le loro aperture …. In tanti piccioli parterre si seppelliscono li cadaveri in fossi che si cavano nel terreno, e colla terra li medesimi si coprono all’altezza di tre, o quattro palmi. Questa terra che cuopre li cadaveri si lascia smossa, e senza ne anche battersi. In questi ipogei o terresante ne’dì festivi si dice anche la Messa, e molto popolo vi concorre. Nel dì della commemorazione de’ morti ànno il costume alcuni del volgo di andare a visitare li di loro congionti, ed amici nelle terresante, spogliarli delli cenci, e vestirli di nuovo”.
Nei “giardinetti” (di Adone) e nelle aiuole delle “terresante”, i deceduti si lasciano disseccare per poi essere esposti dentro casse, addobbati in modo da rappresentare la loro condizione mondana, e questo al fine di continuare a svolgere senza accidia quella funzione che esplicavano in vita. Oppure, come ai pudrideros dell’Escorial, venivano messi a sedere in nicchie scavate alle pareti finché non si fossero mummificati. La mancanza dei “giardinetti”, di un settore cioè dove inumare i cadaveri per una “prima” fase, quella della scarnificazione, ha importanti ricadute sul rituale. Nelle nicchie, i corpi vengono collocati sui sedili-scolatoio (cantarella) senza alcuna preventiva inumazione. Solitamente sono i preti ad avere una “loro particolare sepoltura sotto il Coro della Chiesa Madre, con stalli di legno all’ingiro, col fondo bucato, sui quali si metteano i cadaveri a sedere vestiti di sottana e cotta e con la beretta in testa … ed ivi rimanevano fino a che non si disfacevano … le ossa residue si raccoglievano nel cimitero, che era una fossa centrale destinata a quest’uso”. Elementi ricorrenti sono allora le nicchie per la liberazione dalle carni, concepite come semplici sedili-scolatoio, dotati di un sistema di deflusso dei liquidi putrefattivi, i cornicioni per i crani, gli ossari. Il modello strutturale e architettonico è elaborato in funzionale delle esequie rinnovate a distanza di un certo tempo, o “doppia sepoltura”, e, pur nella sua semplicità, si ripete con poche varianti locali. È, forse, in questo contesto che va inquadrata una presumibile destinazione delle intercapedini murate nella cripta maropatese, e i due prevosti inumativi, e poi dimenticati, avrebbero dovuto continuare a esercitare la loro giurisdizione in quell’esigua porzione di territorio consacrato.
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