Si sa, ci sono più giornate mondiali che giorni. Ricorrenze che riempiono i social. Si spazia dalla giornata dell’albero, a quella del gatto nero. Alcune occasioni di riflessione, per lo più prêt-à-porter, che durano il tempo di un paio di post sui social a raccattare like illusori. È tuttavia innegabile come queste ricorrenze, come quella odierna, aprano riverberi di tenerezza. La giornata mondiale delle persone con disabilità, che ricorre il 3 dicembre di ogni anno, mi permette di ricordare, qui e ora, una vicenda bella della mia vita.
Perché, e se ancora non lo sapete, lo saprete adesso, le persone con disabilità non sono soggetti passivi di interventi fatti da altri su bisogni che gli stessi, magari, non hanno mai espresso. Ma sono persone e basta.
E come tali, nello scambio dell’esistenza prendono.
E danno.
Come tutti, anche loro.
Come gli altri, anche io.
Mi dissero che avrei dovuto indossare tutte le volte la cravatta, perché, in quel prestigioso Liceo di un comune bello con due elle, la Preside (allora si chiamavano così) era rigorosa sull’abbigliamento degli “esperti esterni”.
Dieci ore, in cinque moduli da due. Sarebbe bastate cinque cravatte.
Il primo incontro con i ragazzi, i miei ragazzi mai più visti nei sedici anni successivi, fu bello come l’ultimo. Ma io, ancora, non lo sapevo.
Jeans e Converse, capelli a caschetto, felpe con cappuccio. Tutto adatto alle lezioni di latino, come ai primi baci sotto il portico.
Perché, si sa, omnia vincit amor.
E io, barbuto manichino, cominciai la prima lezione parlando di leggi dello Stato a favore delle persone con disabilità.
Già volevo bene ai miei ragazzi non visti mai più, e non potevo distruggerli con numeri e articoli.
104, 162, 328.
Buoni per un terno al lotto. Forse. Ma non oltre, senza un significato pratico, tanto da poterlo toccare.
Allora feci un gioco.
Distribuii dei pizzini ad ognuno di loro chiedendo di scrivere una cosa che avrebbero voluto si realizzasse, per un mondo più equo e giusto.
Mi sembrava di aver avuto una bella trovata.
E fu allora che lo vidi.
Sommerso tra i capelli fluenti di una brunetta vivace dal dolce accento e seduto su una carrozzina, vidi Giovanni.
Non muoveva né gambe, né mani, ed era prigioniero di un corpo immobile diretto da un volto attento, con due fanali neri a scrutare intorno.
Mi sorrise, come dire “ma io non posso prendere il tuo foglietto, perché le mie mani, appoggiate ad un bracciolo, appena sopra delle ruote che qualcun altro muoverà, sono rami di un albero autunnale.”
Anzi, primaverile, seppi dopo. E le foglie verdi erano gli altri ragazzi.
La brunetta allungò le sue mani prolungate da unghie colorate, ma con colori consentiti dalla preside attenta all’outfit, e mi disse “non si preoccupi, Prof. Faccio io!”
Tutto ciò che entra in una Scuola diventa d’ufficio “Prof”.
Mi presi il titolo e lo misi da parte. L’avrei appeso nel muro sbrecciato dei ricordi.
Giovanni sorrise aperto di fronte ai miei occhiali, mentre la cravatta pendeva inutile.
E cominciò l’esercizio. I ragazzi cominciavano a scrivere i loro pensieri. Le proposte per un mondo più giusto.
Le Converse si intrecciavano sotto i banchi in uno scintillare di colori.
Le mani giovani correvano sui foglietti.
La mano di Giovanni si muoveva spinta dalla brunetta.
Omnia vincit amor
Dopo qualche decina di minuti, ecco i miei ragazzi alzarsi a leggere i pensieri nati dalla mia sollecitazione.
Più servizi.
Più soldi.
Più insegnanti di sostegno.
Le ragazze e i ragazzi mentre parlavano, ondeggiavano. Dondolavano il corpo come fosse una nave. E la vita era una sequenza di onde. Dove più alte, dove rase alla spiaggia.
La bonaccia no, non era prevista, a diciassette anni.
Venne il turno di Giovanni dai rami immobili, ma non secchi. E la ragazza che sembrava essere la sua amica preferita, si era trasformata in braccia forti a reggere un leggero foglietto dalle parole pesanti.
“Ci sono tante leggi per fare un mondo più giusto. Ma c’è una legge che possa permettere alla gente di amare chi è come me?”
Avevo già visto e sentito di tutto, nella mia vita, fino ad allora. Le urla delle persone dopo trent’anni di manicomio, assalite dai fantasmi. Il rantolo della morte su qualcuno.
Un suicidio. Le lacrime di due amanti ritrovati. Un uomo che non aveva mai visto il mare.
Ma quelle parole allentavano il nodo della cravatta, entravano nelle coronarie come uno stent di lettere affiancate, facevano scorrere il sangue come una fiumara a ritroso.
Dal mare verso le nuvole.
Non trovai subito le parole. Erano prosciugate, secche. Morte.
Ma le Converse rosse e blu sotto i banchi mica potevano stare a guardare. Le felpe col cappuccio mica stavano sui banchi a riscaldare la sedia.
Come ogni tanto, nei miei ricordi scatenati dal luogo, dicevano i Prof. Quelli veri però.
Giovanni, tranquillo, la facciamo noi questa legge.
Giovanni, tranquillo, ci siamo noi e la legge non serve.
Giovanni, tranquillo, ci siamo noi che ti vogliamo bene.
Fecero tutto loro, mentre allentavo il nodo della stoffa pendula colore blu parlamento.
Finite le due ore più belle della mia vita, ne vennero altre. E accadde di tutto.
Un coming out. Lacrime e sorrisi. Film insieme. Altre quattro cravatte blu.
Tutto in dieci ore, lunghe una vita fa.
La vita è una bilancia, e i suoi piatti sono immobili, in equilibrio.
E prima che il ricordo si facesse nostalgia, questa vita equa mi riportò negli stessi luoghi di Giovanni. Della brunetta. E delle Converse.
Non vidi più i miei ragazzi. Non vidi più Giovanni.
Diventarono cristallo, come la memoria.
E il disabile diede una bella lezione all’abile, qualora l’umana esistenza fosse tracciata in due, col gesso.
Come una lavagna.
La giornata delle persone con disabilità accadde allora e per sempre, in un tempo sfumato, in un luogo ritrovato, in volti perduti.
Li penso ancora, i miei ragazzi, mentre fuori comincia a piovere.
E mentre li penso, e coloro il ricordo ormai grigio con le parole scritte, indosso ancora una inutile, ma evocativa, cravatta blu.