Esistono nelle case degli oggetti che abitano un determinato spazio, sagomandolo con i loro contorni. Sotto di essi, la polvere dell’immobilità. Fin quando qualcuno di questi oggetti dimenticati si muove.
E smuove.
Da ragazzi gli amori più fugaci e sostenibili erano quelli che, quasi sempre unilateralmente, nascevano a Pasquetta. Ragazzine diafane e mai viste prima che apparivano nel prato accanto, a San Pasquale. O San Leo. La santificazione dei luoghi era un evidente effetto della vicina Pasqua. Generalmente tutto nasceva con un pallone che invadeva lo spazio altrui. E si proseguiva a giocare, ma insieme. I maschietti cedevano gli ormoni calciofili alla ben più aggraziata pallavolo. Si mischiavano i sessi incerti in un trionfo di improbabili bagher e schiacciate. Era un puntamento degli occhi, qualche occhiata laterale mai sfrontata ai seni fanciulli che sagomavano le camicie a quadri stile cow boy, lasciate aperte sulle magliette con un marchio che era un trionfo di frutta. Rigorosamente bianche. Le poche parole scambiate erano asservite ai riti scomposti del gioco in ambiente agreste. E le gesta dei maschietti rivolte prevalentemente a recuperare la palla in valloni scoscesi da rischio moderato che si tentava di far apparire agli occhi delle ragazze come fossero la parete est del K2. Ma il bello avveniva verso la fine. La fine del giorno di Pasquetta. I gruppi si separavano, tornando suddivisi per genere. Le ragazze rientravano verso le zone occupate dalle famiglie. Che benevole osservavano, scarsamente preoccupate delle aggressioni maschili. Sapevano, i genitori, che il giorno dopo Pasquetta sarebbe stato il giorno della perdita. Nessuna possibilità, o comunque debole, di recuperare successive occasioni di incontro. Nessun social dove cercare il volto pulito della biondina che sembrava la leader del gruppo. O della brunetta timida appoggiata ad un ulivo. Nessuno scambio di cellulari. E la statale 106 sembrava una lingua di asfalto malevola che separava i paesi pressoché incollati, ma irraggiungibili a gruppi di maschietti in amore che, al massimo, avevano come mezzo di trasporto un Boxer scalcinato ogni quattro amici. Il giorno dopo Pasquetta era il giorno della nostalgia. Si sentiva il profumo dell'erba anche dentro il Rocci, che svogliato supportava la traduzione di greco rigorosamente affrontata per ultima, e l'ultimo giorno.
Ci si sentiva lacerati da perdite di amori mai avuti, da carezze mai ricevute, da ciò che non era mai stato.
E ciò che non è stato, si sa, assume il tono del dramma irreparabile, della Tragedia declinata dal dubbio se valesse vivere con una simile pena nel cuore.
Fino al mercoledì.
Un dramma a scadenza.
Poi al volto dell'amata senza nome si sovrapponeva l'allegria dei compagni di scuola, l'odore dei banchi di legno, e le cicche passate di contrabbando sotto il livello degli sguardi del professore. Che vedeva tutto, e adesso ne sono certo, aveva già nostalgia di noi, e di quello che avremmo rappresentato nei giorni della vecchiaia.
Ma qui mi fermo perché pericolosamente sono già transitato nel ruolo del prof, e nella nostalgia dei volti e delle storie che si incastrano nella schiena del tempo che passa, come mitili sugli scogli.
Ripongo il Super Santos, quel volatile pallone di gomma arancione figlio degli anni Settanta, nello spazio che il tempo gli ha destinato dentro casa e dentro di me.
Quel benedetto pianeta di gomma colpevole di tutto ciò.
E mando il pezzo, perché scrivere serve a chi scrive.
Lo diceva anche Pavese. La nostalgia serve a ricordarci che siamo fragili. E aggiungeva, "per fortuna".
Perché la fragilità è sempre umanità.
Ma prima che ripartano altri pensieri chiudo la palla nel cassetto, impedendo che prosegua a rotolare. E come tutte le storie che non so chiudere, la chiudo seccamente così. Senza finale e senza botti.
Alla prossima.

IL SUPER SANTOS COME MACCHINA DEL TEMPO
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Cultura e Società