Nell’opera pasoliniana l’aspetto teologico si concretizza nella concezione d’una religione che proviene direttamente dal passato, le cui radici semitiche contengono il fervore dell’autenticità arcaica che spinge verso il cambiamento.
“Alì dagli Occhi Azzurri/ uno dei tanti figli di figli, / scenderà da Algeri, su navi/ a vela e a remi. Saranno/ con lui migliaia di uomini/ coi corpicini e gli occhi/ di poveri cani dei padri/ sulle barche varate nei Regni della Fame. Porteranno con sé i bambini,/ e il pane e il formaggio, nelle carte gialle del Lunedì di Pasqua./ Porteranno le nonne e gli asini, sulle triremi rubate ai porti coloniali./ Sbarcheranno a Crotone o a Palmi,/ a milioni, vestiti di stracci/ asiatici, e di camicie americane./ Subito i Calabresi diranno,/ come da malandrini a malandrini:/ ‘Ecco i vecchi fratelli,/ coi figli e il pane e formaggio!’/ Da Crotone o Palmi saliranno/ a Napoli, e da lì a Barcellona,/ a Salonicco e a Marsiglia,/ nelle Città della Malavita./ Anime e angeli, topi e pidocchi,/ col germe della Storia Antica…” (da Profezia, in “Alì dagli occhi azzurri”, 1965).
Ma l’opera d’evangelizzazione di falchi e passeri non riesce neppure ai frati francescani (Totò e Ninetto), nel film d’inizio della cosiddetta “serie d’élite”, che va da "Uccellacci e uccellini" (1966), - in cui il corvo intellettuale finisce arrosto -, a "Medea" (1969). Le forti pulsioni estetiche sono andate man mano svincolandosi dai criteri di ricerca della verità.
“In ogni punto in cui i tuoi occhi guardano è nascosto un Dio. / E, se per caso non c’è, ha lasciato lì i segni della sua presenza sacra:/ o silenzio o odore di erba o fresco di acque dolci. / Eh, sì: tutto è santo! Ma la santità è insieme una maledizione. / Gli Dei che amano in un tempo stesso odiano.” – dagli insegnamenti di Chirone (nel film su Medea).
Molto verosimilmente la tragedia di Euripide, più che l’ipo-testo, sembra sia stato un vero e proprio pre-testo per Pier Paolo Pasolini, visto che quasi nulla dell'immaginario nelle scene di Corinto appare seguire pedissequamente quella passione dell’originale greco, rimasta abbastanza lontana anche dalle immagini iniziali di un film, il cui iper-testo genericamente s’innesta sul Mito, praticamente privo dei sostanziosi dialoghi e resoconti intra ed extradiegetici, a cui ci ha abituati la tragedia, e che si occupano degli eventi che la precedono.
Una monumentalità classica
Pasolini traspone sullo schermo la monumentalità classica sforzandosi di tradurre in termini cinematografici quel vago senso del tempo passato, dei luoghi arcani e dell’oscura mentalità preistorica in cui cerimonie e riti risultavano indispensabile condizione di esperienze reali.
- P. Pasolini tendeva alla “decodificazione”, piuttosto che a quell'adattamento reverenziale che Michael Cacoyannis (Michalīs Kakogiannīs) avrebbe fatto due anni dopo delle Troiane (“The Trojan Women”, 1971); mentre, nel 1962, Jules Dassin ambientò in epoca contemporanea la vicenda dell’Ippolito coronato in Fedra (Phaedra), facendo però riferimento alla versione giansenista (Phèdre) del drammaturgo francese Racine, basata sulle intenzioni della calunniatrice; “Mai di domenica” (Ποτέ την Κυριακή, Potè tin kyriakì,1960) era stato una ben più riuscita e briosa variazione sul tema del Pigmalione secondo G.B. Shaw. Operazione analoga di modernizzazione a quella dell'Antigone di Sofocle, effettuata, nello stesso ’69, da Liliana Cavani ne “I cannibali”. E da Sofocle, nel 1967, lo stesso PPP aveva tratto piuttosto liberamente il suo “Edipo re”.
- Il personaggio Medea avrebbe avuto diversi adattamenti cinematografici, a partire da quello danese, però mai realizzato, da Carl T. Drayer (il cui progetto è stato poi ripreso da Lars von Trier nel 1988, con location nordeuropea, nello Jütland, e cruda impiccagione dei bambini) ad “Así es la vida” (2000) del messicano Arturo Ripstein (dagli stranianti, ed extradiegetici, effetti barocchi), oppure alla britannica rivisitazione di Carrie Cracknell (del 2015, impostata sulla rilettura di Ben Power). -
In questo film, il poeta di Casarsa, ripercorre quella medesima catabasi nel regno delle “madri”, che aveva già cominciato in “Mamma Roma” (1962), dove s’era pienamente affidato alla recitazione drammatica di Anna Magnani, mentre in “Teorema” (1968), Silvana Mangano era stata il personaggio speculare alla prostituta che cerca di redimersi.
Un’affascinante presenza scenica
Pasolini sceglie come attrice protagonista Maria Callas proprio perché la maggior interprete in assoluto dell’opéra-comique di Luigi Cherubini: la Médée (1797), in tre atti su libretto di François-Benoît Hoffmann (ispirata a Corneille e ancor più a Seneca), tornata d’enorme successo a partire dagli anni ‘50 - quella su testo di Benedetto Castiglia, musicata da Giovanni Pacini, nel 1843, fu molto rappresentata solo nel XIX secolo.
Nel lanciarla in quel ruolo, moltissimo aveva giocato la sua indubbia, quanto affascinante, presenza scenica, consolidata nel lungo tirocinio operistico, che le conferiva un reale potere evocativo, soprattutto per la grazia di movimento, intimamente intrinseca alla facoltà recitativa e di agire senza troppa convenzionalità in un contesto di rappresentazione, nonché per l’eleganza strettamente legata pure al suo stesso aspetto femminile regale e di naturale magnificenza. A cominciare dal profilo, che sembra un modello di calco sul recto, o sul verso, d’un’antica moneta; e poi la struttura medesima del viso, in grado di sfidare tutte le insidie dell’età, che incornicia due enormi occhi scuri, quasi a monito d’una grave ed eloquente significatività, tale da appesantire lo sforzo impresso già da solo a spostare lo sguardo per ritrasmetterlo quale fisico equivalente degli sconvolgimenti emotivi interiori.
Nel candore dell’epidermide della Callas, il fotografo Mario Tursi catturò un bagliore numinoso e terribile quasi di visione della fine d’ogni rassicurazione materna e, dietro l’assenza della consolazione femminile, colse la potenziale espressione dell’incantesimo stregonesco. A tutto ciò PPP aggiungeva: “Lei appartiene a un mondo contadino, greco, agrario, e poi si è educata per una civiltà borghese. Dunque in un certo senso ho cercato di concentrare nel suo personaggio la complessità di Medea”, anch’ella “sacra” e “sconsacrata”, sacrificale e sacrilega al tempo stesso, come “i” centauri istruttori di Giasone.
Questo fortissimo istrionismo restituisce allo spettatore la sensazione di intravvedere subito in quel nobile soggetto maestoso un'anima primordiale pronta a esplodere, nella sua drammatica spontaneità, giusto nel momento in cui viene trapiantata in una civiltà governata da un ordine che non le è congeniale. Ed è qui che si rende superbamente plausibile l’atroce inquietudine nell’evocazione d’un mondo sconosciuto e misterioso, eppure del tutto corrispondente al nostro subconscio, preannunciata dal prologo poetico, e a tratti scanzonato, di Chirone e poi messa in ridicolo dai superficiali atteggiamenti seduttivi di quel bellimbusto di Giasone, il quale irrispettosamente desacralizza una genealogia che fa capo all’immortale Helios, genitore di Circe (Κίρκη) ed Eeta (o Aiete, Αἰήτης), Perse e Pasifae (moglie di Minosse e madre del Minotauro).
Testo e “pre-testo” per un eterno ritorno ciclico
Nel recuperare, dal punto di vista narrativo, sia l’episodio del furto del Vello d’oro, sia le altre premesse mitologiche, il vate di Casarsa si riallaccia piuttosto alle “Argonautiche” di Apollonio Rodio, senza neppure trascurare Valerio Flacco (Argonautica) od Ovidio, Accio e Lucano, Draconzio ed Ennio (in cui Medea exul ripara ad Atene), venendo a completare quella sorta di tradimento “pre-testuoso” valevole a rendere del tutto atemporale il racconto.
La storia mente
A governare un universo primitivo ė il “pensiero selvaggio”, in cui il dominio della magia e le cerimonie religiose si compenetrano indissolubilmente. E “Il mito – come l’intende Mircea Eliade, in “The Myth of the Eternal Return: Cosmos and History”, 1971) - dice la verità: la storia genuina diventa menzogna. D’altra parte, il mito era effettivamente vero in quanto dava alla storia un suono più profondo e più ricco: rivelava un destino tragico…”.
Centauro e Sagittario
Opposto al segno zodiacale dei Gemelli, il Sagittario viene rappresentato metà uomo e metà cavallo per sottolinearne la differente doppiezza, più simile al dualismo del Centauro, distinto in parte umana e razionale e in parte animale, istintiva e violenta; le frecce del suo arco simboleggiano tuttavia la ricerca di nuovi percorsi e soprattutto d’una superiore conoscenza.
“Tutto è santo, tutto è santo, tutto è santo. / Non c’è niente di naturale nella natura, / ragazzo mio, tienitelo bene in mente. / Quando la natura ti sembrerà naturale, / tutto sarà finito. E comincerà qualcos’altro.”.
Per Pasolini è Chirone a sdoppiarsi in un modo tale da non essere più solo quadrupede, palesandosi così anche, da “sconsacrato”, in una nuova veste rispetto alla consueta e tradizionale. Dapprima “sacro”, in rappresentanza del mondo mitico, antico e barbaro, appare come un vero e proprio Centauro, mentre lo sconsacrato Chirone si presenta nella sua realtà semplicemente umana.
Quando il vecchio e saggio parla al piccolo Giasone, conclude il racconto degli antecedenti che hanno portato il vello ad Aea (Aia di Aiete, per Apollonio Rodio), definendo “la storia … un po’ complicata, perché … fatta di cose, non di pensieri”, innestando sin da subito quel conflitto tra le due dimensioni culturali, l’una della concretezza materna e l’altra della razionalità maschile: “… Quando la natura ti sembrerà naturale, / tutto sarà finito. E comincerà qualcos’altro”, poiché “la santità è insieme una maledizione. / Gli Dei che amano in un tempo stesso odiano.”!
La lezione di Eliade
A Giasone, ormai cresciuto, l’altro doppio (e di Chirone e di Pier Paolo), lo Sconsacrato, ripeterà la lezione eliadiana: “Forse mi hai trovato, oltre che bugiardo, anche troppo poetico. / Ma che vuoi? Per l’uomo antico i miti e i rituali sono esperienze concrete/ che lo comprendono anche nel suo esistere corporale e quotidiano. / Solo chi è mitico è realistico e solo chi è realistico è mitico. / Questo è almeno ciò che prevede questa nostra divina ragione. / Ciò che essa non può prevedere, disgraziatamente, / sono gli errori a cui ti condurrà. E chissà quanti saranno?”.
Non sempre è possibile correggere gli sbagli che si commettono, tant’è che il film si chiude con la constatazione: “Niente è più possibile, ormai”, a conferma dell’irreversibilità del processo che conduce dal puro e onorevole sacro allo sconsacrante disonore dell’inesattezza, forse ancor più che dal barbaro primitivo al civilizzato progredito.
Lo scotto da pagare ha a che fare con una qualche rinuncia alla propria identità; il vecchio Centauro dall’aura ieratica di maestro potrà riconoscersi nel Chirone desacralizzato dal travaglio e dalla vergogna dell’agone esistenziale?
Pier Paolo/ Chirone
“No, non si tratta di dualità, né di sdoppiamento. Questo incontro, ossia questa compresenza dei due centauri, significa che la cosa sacra, una volta dissacrata, non per questo viene meno. L’essere sacro rimane giustapposto all’essere dissacrato. Con questo intendo dire che, vivendo, ho realizzato una serie di superamenti, di dissacrazioni, di evoluzioni. Quello che ero, però, prima di questi superamenti, di queste dissacrazioni, di queste evoluzioni, non è scomparso”.
Un punto di svolta
A metà della pellicola, a separare le due ambientazioni filmiche, quella nella barbara terra di Eeta da quella nella civile Corinto, “i” Centauri ricompariranno ancora una volta, rivelando la loro doppia natura, ma a parlare sarà solo lo sconsacrato Chirone in quanto, riferendosi sia al suo doppio sacro che alla stessa Medea: “la … logica è così diversa dalla nostra che non si potrebbe intendere”, quando ormai s’è divenuti adulti (e maturi?), sociali ed educati (o borghesi?).
È forse in questo senso a dichiararsi la rinuncia a un qualsiasi finale che possa in qualche modo dirsi etico e non eretico?
E il pensiero va anche a quel testamento spirituale del fatale 1975, rappresentato da “Salò o le 120 giornate di Sodoma”, come pure all’episodio di Capriccio all’italiana (1967), “Che cosa sono le nuvole?”. La risposta è contenuta in una spiegazione che suona quasi a giustificazione: «Procedo per allusioni, li pongo a canone sospeso, come dice Roland Barthes a proposito del metodo di Bertolt Brecht, sospendendo il significato (…) Non ho voluto imporre un significato allo spettatore. Ho posto delle domande.». Ed è questo (“un’opera a canone sospeso”) quanto diceva Barthes di Brecht?
Traghettati nel mondo moderno, gli antichi dei, pure per Walter Benjamin, si sono riproposti come allegoria.
«Il segno dominante di ogni arte metonimica – e quindi sintagmatica – è la volontà dell’autore a esprimere un senso piuttosto che dei significati. Quindi a far succedere sempre qualcosa nella sua opera. Quindi a evocare sempre direttamente la realtà, che è la sede del senso trascendente i significati […] “Sospendere il senso”: ecco una stupenda epigrafe per quella che potrebbe essere una nuova descrizione dell’impegno, del mandato dello scrittore. […] “C’è senz’altro nel teatro di Brecht un senso, un senso fortissimo, ma questo senso è sempre una domanda”».
Chiedere non significa tuttavia trascurare di operare, sia pur nella piena consapevolezza che tutto ciò a poco vale, o forse a nulla. Si continui ad agire per non perdere le radici, quell’identità che possa connotare un’intera esistenza.
“E oggi, vi dirò, che non solo bisogna impegnarsi nello scrivere, / ma nel vivere”, invitava, tra il ’66 e il ’67, l’autore di “Poeta delle Ceneri”; e lui che aveva di fatto dedicato buona parte della vita alla scrittura, così giustificava l’impegno nel cinema, “la lingua dell’azione, della vita che si rappresenta”.
I burattini filosofi
Le origini del mito legato al Vello d’oro, da Nefele ad Atamante, da Ino a Frisso, vengono dunque anticipate al bambino Giasone dal “sacro” centauro Chirone, e subito dopo lo spettatore viene proiettato nella Colchide per poter sovrintendere al rituale dello smembramento d’una vittima sacrificale, eseguito, nel pieno rispetto dell’arcana conoscenza dei ritmi della Natura, con il preciso scopo di propiziare la fertilità, ma pure quale precursore della successiva soppressione di Apsirto, finalizzata a indurre la ricerca delle singole porzioni disseminate per ritardare gli inseguitori.
“La lunga scena sacrificale della prima parte di Medea evoca con precisione il momento in cui una civiltà antica entra in comunione con le forze naturali e cosmiche attraverso un sacrificio ciclico che favorisce il raccolto. Un corpo viene fatto a pezzi e distribuito a tutti i membri della tribù, e ne sfregano le parti sugli steli delle piante coltivate. C’è una nuova unità che si crea, e si tratta di un’unità collettiva grazie alla quale viene tenuta lontana la minaccia di una crisi apocalittica”, commentò Marco A. Bazzocchi ne “I burattini filosofi. Pasolini dalla letteratura al cinema” (2007).
Anche il pasto, avrebbe aggiunto Karl Kerényi (Der Mythos der Hellenen in Meisterwerken der Münzkunst, 1941), attinge una sua sacralità da una macellazione, per quanto orribile ed empia possa essere stata compiuta, poiché “sacrilega” (da sacer, sacro, e légere, appropriarsi) allo stesso tempo, necessaria irruzione in una compagine divina.
Lo scontro delle civiltà
Sarà proprio su questo terreno minato a giocarsi l’inconciliabile, ed eterno, scontro delle civiltà: quella primitiva, e ancora non corrotta, dell’una (Medea); quella più moderna, e smaliziata, ma anche pervertita dalla smania di successo dell’altro (Giasone).
Ad Aea serpeggia l’inquietudine da quando Medea ha avuto delle visioni: il volto attraente di chi sta per arrivare e di cui teme di potersi innamorare. Gli Argonauti non entrano, infatti, nel mondo oscuro del regno di Eeta per apportarvi un qualche barlume, né vi si approcciano con intenti pacifici: fanno razzia di tutto ciò che trovano con la plateale indifferenza ed estrema avidità degli arroganti conquistatori. E dopo aver depredato un luogo inviolabile, Giasone irriderà uno dei custodi gettandogli sarcasticamente un obolo per ripagarlo d’una eventuale preghiera. Le azioni dissacranti e violente di chi sbeffeggia i vinti non sono meno incivili della barbarie degli ancestrali e incomprensibili riti di fecondità dei Colchi. Per cui la precedente ammonizione di Chirone (“Tu comprendi la sua catastrofe spirituale. Il suo disorientamento di donna antica, in un mondo in cui ignora ciò in cui lei ha sempre creduto. La poverina ha avuto una conversione alla rovescia e non si è più ripresa”) suona da anticipato rimprovero.
Il processo di desacralizzazione
Espulso dal regno del mito, perfino la pelliccia del caprone divino possessore del dono della parola, quel tal leggendario Vello d’oro, finirà, una volta rubato, ed estrapolato dal suo contesto, ad assomigliare soltanto alla pelle d’un montone qualsiasi. “Questa pelle lontana dal suo Paese non ha più alcun significato”, sarà la sprezzante accettazione della decisione di vedersi negare il regno promesso.
In “La Grecia secondo Pasolini”, Massimo Fusillo intitola un capitolo: “Medea: un conflitto di culture”, in quanto “Pasolini attraverso Medea analizza il processo storico dell’evoluzione della società verso la modernità raccontando l’origine mitica dell’alienazione borghese”.
Se il presente è un inferno, in cui, eliminando anche “l’ultima speranza in un rinnovamento attraverso la rivoluzione”, “il neocapitalismo sembra seguire la via che coincide con le aspirazioni delle masse”, il futuro non potrà che divenire “apocalittico”. E non tanto perché “rivelatore” di vaticini su incombenti “Giudizi universali” o sull’avvento d’un qualcosa d’altro, tipo il “Regno dei Cieli”, ma perché sancisce la fine di “un mondo”, sconfitto da consumismo ed edonismo, e dell’aspirazione a un qualche cambiamento.
“Non c’è nessun Dio”
Rinunciare a capire un mito, per quanto perturbante e misterioso possa sembrare, condanna il presente, per quanto possa essere moderno, a restare privo di senso. La perdita di senso e di santità, come dice il centauro Chirone, “in ogni punto in cui i tuoi occhi guardano”, nel ciclo della vita e della morte, dei semi che diventano piante, poi muoiono e risorgono di nuovo, determina la definitiva perdita del mistero del divino: “Infatti non c’è nessun Dio”!
«Jolifanto bambla o falli bambla/großiga m'pfa habla horem …»
Riflettendo i principi cardine del Dadaismo in quell'assurdità che l'assenza di senso riproduce, Hugo Ball avrebbe descritto il mondo e la società in questi termini: “… la vita è completamente segregata e incatenata. Prevale una sorta di fatalismo economico”. - E noi forse ce ne stiamo accorgendo solo adesso, ch’è ormai troppo tardi!
“Egli non è qui, perché è risuscitato come aveva detto…” (Matteo 28: 6)
All’uomo non è, allora, concesso d’accedere all’eterno ritorno di cui godono, invece, i frutti della terra?
E, difatti, la resurrezione del Cristo, che Pasolini aveva prima escluso e poi inserito nel finale de “Il Vangelo secondo Matteo” (1964), in questa arcana ciclicità, rappresenterebbe soltanto una scandalosa eccezione, pregna d’improvvide illusioni in una fede malriposta.
“Dà vita al seme e rinasci con il seme”, dirà Medea nel corso di quel bagno di sangue che ha innaffiato i campi coltivati, al fine di preservare il lato misterioso e sacrale del rapporto con la Natura, anticipando così i successivi riti di benedizione dei campi coltivati, dei raccolti della terra, o le processioni per implorare l’arrivo della pioggia e vincere l’aridità dell’aria e del suolo.
Cercate il centro
Ad accecare Medea non è solo l’amore. E, quando gli Argonauti si preparano a piantare le tende senza accorgersi del sacrilegio che stanno commettendo, avendo ormai perduto il necessario contatto con la ritualità, Medea esternerà tutto il disagio d’una ieratica sacerdotessa: “Non pregate Dio perché benedica le vostre tende. Non ripetete il primo atto di Dio. Voi non cercate il centro. Non segnate il centro. No! Cercate un albero, un palo, una pietra”. Perché trovare l’«omphalós» (ομφαλός) significa appropriatamente dissipare l’impermanenza e individuare l’asse attorno al quale (ri-)costruire il percorso della vita.
Alleanza ed elezione
Per Giasone sarà normale non rispettare il sacro patto di fedeltà che lo legherebbe indissolubilmente a Medea, in quanto, come tutti gli altri momenti in cui si attribuisce valore alla Parola, anche i giuramenti sono solo contratti che si possono rivedere, riconsiderare (con nuove alleanze), ridefinire (con altre elezioni), perfino trascurare o addirittura recidere, stracciare, se non più convenienti, dunque riducendoli a livello di interlocuzioni prive d’impegno semantico.
La sparizione del Lόγος
A cascata, la perdita di mistero coinvolge la scomparsa di senso, e pure di significato semantico; la sparizione del Logos (Lόγος), con tutto ciò ch’essa comporta in termini linguistici, narrativi, di discorso, d’impoverimento intellettivo, di disorientamento religioso, perfino nell’ambito dello stesso principio creatore: Giovanni (1: 1) non si chiede se “il Verbo era Dio”?
Comunicazione primigenia
Usato come “titolo”, Lόγος (Giovanni 1:14-17) descrive “un ruolo”, quello d’un’incarnazione avvenuta per comunicare le istruzioni divine (evanghélion, εὐαγγέλιον, è una “buona notizia”), sia quando Gesù svolse il suo ministero sulla terra, sia dopo essere tornato in cielo (Giovanni 7: 16; Apocalisse 1: 1). Nei Colossesi (1:15, 16), invece, si tratta de “il primogenito di tutta la creazione”, mediante il cui tramite “sono state create tutte le altre cose”.
Aggettivazione
Nel testo originale di Giovanni 1:1, le due occorrenze di Θέος (Theòs, “Dio”) avrebbero diversa funzione grammaticale. In un primo caso Theòs è preceduto dall’articolo determinativo, e varrebbe ovviamente per “Dio”, mentre nel secondo caso no, e quest’assenza dell’articolo deve pur avere una sua ben precisa valenza, molto verosimilmente di tipo “aggettivale”, dando quindi alla frase ben altro significato, e cioè semplicemente di: “la Parola era divina”?
“Personificazione” del Verbo
L’affermazione “la Parola era con Dio” indicherebbe che il versetto parla di due persone distinte. E com’è possibile che la Parola sia “con Dio” e allo stesso tempo “sia Dio”?
In Giovanni 1:18 si dice che: “nessun uomo ha mai visto Dio”, e, invece la Parola è stata vista dagli uomini (Giovanni 1:14: “La Parola è diventata carne e ha vissuto fra noi, e noi abbiamo visto la sua gloria”). Il “principio” a cui si fa riferimento non può corrispondere al “principio” di Dio, che non ha avuto inizio (Dio è “da sempre e per sempre”, nel Salmo 90: 1, 2). Ad aver avuto un inizio è, invece, la Parola, proponendosi come “il principio della creazione di Dio” (Apocalisse 3:14).
Vox clamantis in deserto
Giovanni il Battista si definiva come “Vox clamantis in deserto” (Giovanni 1, 22-23); e questa Vox, voce, φωνή (phoné), non fa che rimandarci al Lόγος; un suono (voce) che viene dalla mancanza di Dio (il deserto), or dunque da un’assenza di identità (e di io).
Eloì, Eloì, lemà sabactàni?
Anche Medea, allora, in una serie di sequenze ipnotiche e suggestive, dovrà ritrovare, sulla linea dell’orizzonte, il contatto perduto con il Padre (Sole, Ἥλιος, Hḕlios: “Eloì, Eloì, lemà sabactàni?”, in Matteo 27: 46), mentre, sotto i propri piedi e tutto attorno, dovrà provare a incorporare di nuovo la forza della Madre Terra; superare il “deserto” del silenzio, comunicare con i progenitori del creato, interpretare le rivelazioni della luce, come dei suoni e anche dei più flebili fruscii della Natura. “Parlami Terra, fammi sentire la tua voce. Non ricordo più la tua voce. Parlami Sole. Dov’è che posso ascoltare la vostra voce”, sono richieste oranti d’una disperata figlia di Dio.
Nelle tue vecchie spoglie
La risposta sarà netta: “Nelle tue vecchie spoglie Medea, nelle tue vecchie spoglie”, perché, per riappropriarsi delle sue credenze, di quell’essere messaggera, ed “evangelizzatrice”, d’un mondo “altro”, necessariamente dovrà abbandonare i candidi abiti macchiati del sangue dei sacrifici, per tornare a indossare il barbarico e funereo lutto della catastrofe spirituale, oltre che d’un profondo, quanto impenetrabile e immenso, dolore.
Il Padre (Hḕlios/Eloì) di suo padre le armerà la mano onde versare quel tributo di sangue necessario a purificare la rottura del sacro “patto” che indissolubilmente “lega” (anche in uno degli etimi di religione: re-ligare) gli uomini con la propria identità, e le infonderà il coraggio sufficiente a rendere quella che non può essere se non una “giustizia cara a Dio”.
Se Medea, sia pur tra attimi d’incertezza, resta ossessionata dalla logica della vendetta (così come in Euripide), Giasone lo sarà dalle nuove nozze e dal desiderio di eliminare la possente minaccia che per lui rappresenta giusto la figlia di Eeta; la nutrice sia dalla fedeltà alla padrona come pure, da "corifea", dalla logica del popolo e del buon senso della comunità; Glauce e Creonte dalla pacificazione del regno e dalla felice riuscita della cerimonia del matrimonio.
Sogno e realtà?
Nel sogno di Medea, Glauce, indossate le vesti donatele dalla rivale, si guarda allo specchio per fuggire poi disperata verso l'esterno, mentre, nel frattempo, proprio quegli indumenti prendono fuoco. In seguito, la scena si ripete nel delirio fobico prodotto dall’immaturità di Glauce in quell’assumere una nuova posizione sociale, con il passaggio iniziatico da vergine fanciulla a donna sposa, qual è in atto Medea; non sentendosi in grado di svolgere questo compito, dovendo persino competere con la sapiente maga da cui tutti sono atterriti, impazzisce e si suicida.
Nessun tipo di “happy end”
Parafrasando Mircea Eliade, nel mito non può esserci spazio per nessun tipo di “happy end”, poiché il riverbero del terribile scontro tra cultura arcaica e mondo moderno deve inevitabilmente deflagrare nella sua cruenta ed estrema violenza. Nelle sequenze finali del film saranno le fiamme a sostituire i serpenti euripidei che trainano il carro celeste della macchina teatrale (mechanè, μηχανή), a cui spesso si faceva ricorso per rendere scenicamente plausibile l'apparizione del deus ex machina («ο από μηχανής θεός»), quasi come a voler significare che gli immortali, pur non essendo mai intervenuti nel corso della drammatica vicenda, s’astengono dall’esserle ostili.
Un “ladrone buono”?
Eppure, quel volto sovraimpresso al fuoco sembra aver trovato un appagamento. "Ora sto bene", sono le ultime parole profferite dall’agonizzante “ragazzo di vita”, iconico rappresentante del sottoproletariato delle borgate (e un po’ “ladrone buono” da crocifiggere assieme a Gesù), con cui si chiudeva il film d’esordio: “Accattone” (1961).
Un povero “cristo”
Il figlio di “Mamma Roma” morirà legato su un letto di contenzione, invocando la madre: «… non basta mettere una figura di scorcio e guardarla con le piante dei piedi in primo piano per parlare di influenza mantegnesca! Ma non hanno occhi questi critici? Non vedono che bianco e nero così essenziali e fortemente chiaroscurati della cella grigia dove Ettore (canottiera bianca e faccia scura) è disteso sul letto di contenzione, richiama pittori vissuti e operanti molti decenni prima del Mantegna? O che se mai, si potrebbe parlare di un'assurda e squisita mistione tra Masaccio e Caravaggio?» (Pier Paolo Pasolini, “Vie Nuove”, n. 40, 4 ottobre 1962).
Una moneta fuori corso
Il moto di riscatto sociale, intrapreso da “Mamma Roma”, tende in fondo esclusivamente a un’integrazione piccolo-borghese.
“… Madri servili, abituate da secoli/ a chinare senza amore la testa, / a trasmettere al loro feto/ l’antico, vergognoso segreto/ d’accontentarsi dei resti della festa…” (da “Ballata delle madri”, in "Poesia in forma di rosa", 1964).
La città “eterna” lo è non per venire definita quale culla della religiosità, bensì semmai per una mentalità ancora assai pagana e per una filosofia che precede l’impegno fideistico. “Qui i valori cristiani, cattolici, non hanno più corso: l’amore sentimentale del prossimo, per esempio… vigono il senso dell’onore, la lealtà, la virtù per la virtù, la sensualità, lo stoicismo, l’epicureismo. Di conseguenza, il loro spirito si esprime all’interno della loro realtà. Non ne esiste un’altra per loro”.
Un’esclusiva esclusione
A Jean Duflot, in un’intervista in due tempi (1969 e 1975), PPP aveva confessato che da “Accattone” a “Teorema” (1968), da “Mamma Roma” (1962) a “Medea”, aveva sempre voluto rappresentare quella precipua “esclusività” femminile della donna in quanto “esclusa”.
“… Per questo devo dirti ciò ch'è orrendo conoscere:/ è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia…” (da “Supplica a mia madre”, in "Poesia in forma di rosa", 1964).
E, se è vero quanto ha scritto Enzo Siciliano circa la riapparizione “ctonia” (“riapparizione da un viaggio compiuto nei sentieri che abbiamo abbandonato dall’infanzia. E lei ritorna, ogni volta da lì, con una notizia. La notizia del vuoto nel cosmo. Si tratta, insomma, di ciò che intravedemmo nell’oscurità del sacco amniotico stretti nell’abbraccio di nostra madre”), Medea si ripropone essa stessa “includente” in quel “regressus ad uterum” (o aborto all’incontrario) del duplice omicidio dei figli, che forse per lei contiene uno straordinario significato “teologico” ed epifanico.
La musica secondo Pier Paolo
“Ho riprodotto in Medea tutti i temi dei film precedenti”. E, se al debutto cinematografico, l'impiego di J. S. Bach era stato considerato strano, e straniante, perché sconnesso con l’ambientazione borgatara, nel successivo “Mamma Roma”, ancora concentrato sulla vita di protettori, prostitute e scrocconi, il ricorso ad Antonio Vivaldi ha maggiormente posto in evidenza e le potenzialità e le proprietà formali della musica.
La colonna sonora di “Medea” conferma l’importanza attribuita da PPP alla soundtrack, elemento nient’affatto di sfondo per lui. Qui difatti introduce canti d’amore iraniani, cori femminili bulgari, sonorità delle sacre cerimonie giapponesi, melodie tibetane e di campanelli buddisti, proprio per sottolineare quella distanza persistente tra arcaicità orientale e cultura ellenica. Scelte quindi che “hanno come funzione di tradire la storia, di sfumare la localizzazione storica. In questo caso, la musica si fa atemporale e aumenta il mistero indefinibile del mito”.
Di “Teorema”, come aveva già scritto nel romanzo: “È quello che nelle scienze si chiama «referto»”, qualcosa dallo stile essenziale e scarno, al fine di diffondere la dimostrazione d’un dato di fatto che non ha più le caratteristiche d’un’ipotesi priva di fondamento. A contatto con il mistero, la borghesia si modifica subendo un’irreversibile trasformazione.
Nostalgia del sacro
Rivolto a Duflot: “Io sono sempre più scandalizzato dall’assenza di senso del sacro nei miei contemporanei”. E ancora: “Credo che se ė così insistente la mia nostalgia del sacro, è perché rimango legato agli antichi valori. A volte, ho il sentimento che siano vittime di un‘accelerazione artificiale, di un oblio ingiustificato, prematuro”.
La vera “malattia sociale” della contemporaneità è allora proprio questa mancata percezione dell’assenza del mistero, con conseguente carenza d’immaginazione e perdita d’una spontanea e naturale meraviglia. In “Dialektik der Aufklärung” (1947), Horkheimer e Adorno erano giunti all’analoga conclusione per cui, con l’avanzare del progresso tecnico-scientifico si avvia una sorta di speculare involuzione etico-morale.
Sempre uno stesso film
In un’altra intervista televisiva, Pasolini aveva sconfinato nella disarmante dichiarazione: “Non soltanto non vedo differenza tra l’Edipo e Medea, ma non vedo nemmeno differenza tra Accattone e Medea, e nemmeno molta differenza tra il Vangelo e Medea. Praticamente un autore fa sempre lo stesso film per un lungo periodo della sua vita, come uno scrittore scrive sempre la stessa poesia. Si tratta di varianti, anche profonde, di uno stesso tema. Il tema, come sempre nei miei film, è una specie di rapporto ideale, e sempre irrisolto, tra mondo povero e plebeo, diciamo sottoproletario, e mondo colto, borghese storico. Questa volta ho affrontato direttamente, esplicitamente questo tema. Medea è l’eroina di un mondo sottoproletario, arcaico, religioso, Giasone invece è l’eroe di un mondo razionale, laico, moderno. E il loro amore rappresenta il conflitto tra questi due mondi”.
Come in quell’episodio del collettaneo “Amore e rabbia” (Vangelo '70, o Love and Anger, 1969), dal titolo: “La sequenza del fiore di carta”, pure nell’Edipo Re (1967), tema cardine risulta essere una qualche specie di rovesciamento del peccato originale, per via della “colpevolezza dell'innocenza”: l’immaturo Riccetto del Vangelo ’70, distratto da quel suo fiore rosso, non riesce davvero ad aprire gli occhi sul mondo che lo circonda; l'uomo occidentale Edipo, trascurando la terribile verità della propria condizione, e reso cieco dalla volontà di ignorare, prosegue il suo fatale cammino verso un’irriducibile catastrofe.
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