Funziona più o meno così: una persona dice una sciocchezza che si presta alla derisione, un video gira in rete con questa persona che dice la sciocchezza, se ne parla a tavola, in casa, al bar, e si ride… e poi ci accorgiamo che il volto e la voce di questa persona diventano quasi famigliari, ci ispirano tenerezza e simpatia. Intanto la sciocchezza, che consolida il suo essere derisione scanzonata, entra nei modi di dire, tra le battute, addirittura diventa un “meme”… poi si viene a sapere che la persona che l’ha detta si è iscritta a Instagram e in pochissimo tempo è diventata celebre, ci si accorge che ha 130.000 iscritti, esce su tutti i giornali (la notizia è di ieri, e detta persona è stata definita “influencer”), il suo “meme” è diventato un fenomeno nazionale e, forse invitati dai titoli dei giornali, pioveranno altri iscritti, tutti a seguire il suo esempio, tutti a dire sciocchezze per vedere se la propria idiozia diventa un “meme”. Intanto la persona della prima sciocchezza arriverà al milione di iscritti. Evviva, siamo tutti fan di “Nun ce n’è coviddi qui”.
Scenario fantascientifico? Non è detto, perché la strada che stiamo prendendo è quella di seguire le idiozie considerandole innocui giochini, mentre quelle entrano nella vita, tolgono tempo al pensiero, all’arte, all’amore, alla compagnia… e invece di leggere un buon libro spariamo commenti e postiamo immagini che altro non fanno che ripetere quelle idiozie, e ridiamo, ridiamo, ridiamo come dei deficienti ripetendo “Nun ce n’è coviddi qui”.
In conclusione: se l’idiozia all’inizio si presta a derisione, alla lunga diventa un modello, e questi modelli ci lobotomizzano. E mentre qualcuno ancora cerca “l’amor che muove il sole e l’altre stelle” in chissà quale meandro della mente umana, la maggioranza lo trova nell’idiozia che diventa “meme” e nel malcapitato che, dicendola, diventa “influencer”. Popolo, sei condannato a restare popolo