Chi legge Paolo Rumiz, custodendo le sue immense narrazioni che profumano di vento e di profezie, sa che queste scritture lentamente si trasformano, fino a prendere il corpo di un libro. Grande è stata l'emozione di incontrarlo a Reggio presso la libreria Ave/Ubik, ospite di Fabio Saraceno. Nell'ascoltare un autore apprezzato, si scoprono sinergie inesprimibili ed inattese. Esiste un legame invisibile tra chi nasce in città di mare, attraversate dai venti... A Trieste prevale la Borea, bianca e nera, da noi lo Scirocco, "quagliato" dove tutto è fermo oppure quello che soffia l'inferno e toglie il fiato… Ma la somiglianza del sentire sta nella consapevolezza che i venti ci abitano, come energie potenti ci muovono... Ciascuno ha il suo vento segreto che gli soffia dentro. A volte lo scopri per caso, mentre ti trovi a Capo Colonna e soffia la Tramontana. Se avessi avuto tempo gliel’avrei chiesto se è vero che i venti ti entrano dentro e percorrono le vie del cuore. Però ho risposta e conferma tra le pagine, quando lui, descrivendo il volto dell’amico perduto, parla di un’anima "smerigliata da Borea e da Scirocco" che pareva avesse "raggiunto già l’essenza".
Ogni volta, lo scrivere di Rumiz, è un avventurarsi metageografico e un migrare dell'animo attraverso itinerari altri, che smuovono le profondità del lettore, riscrivendo meridiani e paralleli prima sconosciuti.
L’autore triestino ha percorso il nostro Continente con mezzi di trasporto lenti e desueti per noi viaggiatori rotti al mordi e fuggi e al lastminute. Da Capo Nord fino a rifugi aspromontani che profumano di biancospino. Oppure, dichiaratamente alla ricerca di quella memoria spirituale, "Filo invisibile" che, passando attraverso quei presidi di resistenza che sono stati i monasteri, segna e salva l’Europa in un tempo di oscuri presagi, molto simile al nostro. Il suo padre fondatore, Benedetto e suoi monaci, vinsero la minacciosa avanzata dei barbari con la sola testimonianza di un canto che annichilì gli Ostrogoti, e di una regola monastica che salva un territorio immenso devastato e violato.
Così è stato anche questa volta. Lo scrittore triestino si è fatto portare nei luoghi estremi del cuore stuprato di questa Europa in cui si è persa la forza mite della mediazione di pace, stretta e lacerata da minacce nuove, gravide di imperialismo paranoico e da tracotanti sceriffi suprematisti che vogliono sparare al nemico senza muovere le chiappe da casa, dopo troppi Vietnam. Ogni volta, il passo era più pesante e la lettura lasciava inquietudine, amarezza e poca luce. Un travaglio doloroso perché lo sguardo si caricava di storie troppo dolenti. Per lui ci sono voluti tre anni e un lavoro notturno, che "le cose migliori si scrivono tra le 3 e le 5", quando la mente e la razionalità sono sopite e si scoperchia, d' incanto, "un vespaio di versi". E poi di notte, attorno al fuoco, sono nati i racconti delle nostre origini.
Questo libro che completa la trilogia, è diverso dai precedenti. Questa volta ha varcato delle porte che paiono magiche. La scelta sorprendente dell'endecasillabo, verso che ci accompagna sin dal grembo materno. E poi la visione del mito, chiave perfetta per entrare nel "Canto per Europa", questo il titolo dell'ultimo libro di Rumiz edito da Feltrinelli. Il mito lungo una "notte carogna" che sembra non avere fine, tra pestilenze, guerre, abissi catastrofici. Scoprirsi uno sguardo profondo, quello del marinaio che, chiamato a rimettersi in mare, si mette in gioco e parte. L’urgenza non è la seduzione di un canto di sirene, ma la promessa fatta all’amico morente, che nel libro è Petros, nocchiero greco, con cui Rumiz, scriba, narratore dalmata di cui non si dice il nome, ha molto navigato, "fino al tempo in cui Petros scelse di starsene da solo...", lasciando una lettera che diviene sigillo e promessa per l'altro, ricordo "di un viaggio straordinario senza tempo". Qui Rumiz ci dona uno dei versi più toccanti per esprimere la separazione e la morte: "Borea in quei giorni mi soffiò nel cuore come mai prima in tutta la mia vita e come non soffiò mai più da allora".
L'Europa ha perso l'identità profonda, il nome. In suo aiuto quattro nuovi Argonauti su un’imbarcazione dal ventre materno, portatrice di una storia ultracentenaria. Avviene un incontro decisivo che cambia le sorti di tutti. Accolgono a bordo una giovane profuga siriana. La mitologia, il visionario e l'attualità si intrecciano. Il viaggio è un andare alla deriva di "una realtà senza più controllo" e insieme lo stupore dell'andare per mare aperto, di perdersi e poi trovare la nuova terraferma. La giovane è la Grande Madre, e vedendo la sua grande gioia nell’approdare, i marinai decidono di chiamare il continente con il suo nome, perché quella terra, Europa "è il sogno di chi non la abita, da chi viene da lontano". Soprattutto Europa è femmina, progenitrice di tutti i migranti, una figlia dell'Asia.
L’INTENSA SCRITTURA METAGEOGRAFICA DI PAOLO RUMIZ
Il tempo di lettura è di circa minuti.
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Cultura e Società