Ungitimi tuttu… ca cu’ ungi vara - Olivàra e ògghju chjanòti
In "Quando fu il giorno della Calabria", Leonida Répaci descrive in termini, quanto meno, entusiastici ed esaltanti la situazione della nostra regione all’inizio dei tempi: «… Era teso in un vigore creativo, il Signore, e promise a se stesso di fare un capolavoro. […] Diede alla Sila il pino, all’Aspromonte l’ulivo, a Reggio il bergamotto, … a Palmi il fico, … a Gioia l’olio, … a Rosarno l’arancio, … alle montagne il canto del pastore errante da uno stazzo all’altro, … alle spiagge la solitudine, all’onda il riflesso del sole… ».
Cosicché, sin dal primo momento della Creazione, la Calabria avrebbe posseduto qualità che nessun’altra terra al mondo si sognerebbe tuttora d’avere; e via con l’elenco dei pregi che non contemplano difetto alcuno: l’aria, la più pulita; l’acqua, la più buona; il mare, il più bello; la gente (ah la gente!), la più ospitale; e poi i paesi più ameni e accoglienti… e i prodotti d’un suolo tanto rigoglioso? I più squisiti.
Aschkenez
Insomma, Iddio questa regione l’avrebbe benedetta sin da subito, tanto che l’inventore della barca a remi e mercante semita, Aschkenez, ne venne attratto per il paesaggio incantevole, non meno che per la mitezza del clima e per la fertilità della terra; e, tre generazioni dopo il biblico diluvio universale, si dice, decise di stabilirvisi e fondare, oltre che Numistra (Nicastro), nella zona settentrionale della Piana di Sant'Eufemia, una città sullo stretto conosciuta pertanto quale “urbs a diluvio condita”. E, come si legge nelle Antichità Giudaiche (Ioudaïkḗ archaiología, Ἰουδαϊκὴ ἀρχαιολογία) di Giuseppe Flavio: “Aschenez in verità diede origine agli Aschenazi, che ora dai greci sono chiamati Reggini".
Ai fieri calabresi
È forse per questo che I calabresi son fieri, come formula la dedica di Augusto Placanica, quale titolo del prezioso volume edito da Franco Maria Ricci, nel 1989, in cui si raccolgono delle splendide immagini ad accompagnamento di appunti di viaggio vergati da grandi autori, da Stendhal a Douglas, da Swinburne a Maeterlinck?
La fronda dell’allor/ non langue mai
E sì, è sicuramente onorevole esser fieri della propria patria, certo non quanto si dice del sacrificio della vita, per come recitano i versi del poeta trevigiano Paolo Pola (“Chi per la patria muor/ vissuto è assai;/ la fronda dell’allor/ non langue mai.); in ogni caso, non bisogna esagerare!
Le lodi eccessive finiscono per svilire qualsiasi magniloquente narrazione, perché una benevolenza sovradimensionata rischia di sfidare ogni modestia, riducendo a “vizio” quanto, a più attenta osservazione, si riveli “reprensibile”.
Pantopologia calabra
L’autore della Pantopologia calabra (in qua celebriorum ejusdem Provinciae Locorum…, 1725), frate Elia D’Amato da Montalto, anticipava le eventuali critiche dei possibili suoi detrattori col giudicare il proprio lavoro con estrema compostezza, attribuendo a una bonaria inclinazione verso una naturale indulgenza qualche spontanea propensione alla vanagloria.
Chiedere venia per le inesattezze
Girolamo Marafioti da Polistena si scusava con i propri lettori se non sempre era riuscito a verificare per certo ciò di cui scriveva e, per quanto riguarda la provenienza dei suoi personaggi, s’appellava all’onniscienza e alla generosità dell’Altissimo che non avrebbe trascurato di assegnare «ad ognuno il proprio luogo e a lui avrebbe dato il perdono degli errori».
Giovanni Fiore da Cropani
Nell’ampliare quell'erudito armamentario di argomentazioni e temi già avviato dai due conterranei che lo avevano preceduto (il Marafioti appunto, con Croniche et antichità di Calabria, 1596, e Gabriele Barrio da Francica, con il De antiquitate et situ Calabriae. Libri quinque, 1571), Giovanni Fiore da Cropani lamentava «l’altrui rapacità» ch’aveva rubato alla “punta dello stivale” i suoi migliori e «notabili» figlioli, ma, nel contempo, forniva, con realistica onestà, un lungo elenco di personaggi celebri che, per puro eccesso d’ambizione, erano stati acquisiti, e confusi, tra i calabresi: dal prode guerriero acheo Aiace al legislatore siculo Caronda (Della Calabria illustrata, scritta tra il 1672 e il 1683, ma pubblicata postuma).
Giuseppe Spiriti
L’accademico “dei Pescatori Cratilidi”, Giuseppe Spiriti, - nato però presumibilmente a Messina, e non nella capitale bruzia, seppur da padre cosentino, - ammetteva di poter essere suscettibile di qualche solenne rimprovero per aver annoverato tra i compaesani molti celebri personaggi originari invece di luoghi limitrofi, criticando al contempo quanti si inorgoglivano nel considerare cosentini, sia pur d’adozione, uomini illustri come Guido Cavalcanti, nato toscano e sempre vissuto a Firenze.
Famiglia Grimaldi
Qualcosa d’analogo è capitato recentemente con la famiglia Grimaldi, il cui famoso ramo monegasco s’è estinto nella linea maschile sin dal XVII secolo, alla morte di Antonio I, andando a confluire, pel tramite del matrimonio di sua figlia Luisa Ippolita, nei “normanni” Goyon de Matignon. Alla morte di Luigi II, grazie a un altro matrimonio d’una figlia illegittima, ma adottiva, del principe defunto, la dinastia continuò nei Polignac, jure uxoris, Duchi di Valentinois.
Oliva Grimaldi
Molte stirpi genovesi avevano comunque assunto questo cognome, in virtù dell’istituto dell'Albergo dei Nobili; tra queste casate, anche delle illustri, come i Durazzo, i De Castro e i de Oliva. E le famiglie che entravano in uno di questi “consorzi” assumevano il cognome dell'Albergo stesso, che spesso coincideva con quello della famiglia più potente. Fu così che Don Giovan Battista Oliva, primo Duca di Terranova, Gerace e Gioia, su investitura di re Filippo II di Spagna (1574), mantenne il cognome Grimaldi pure nel Regno di Napoli, per cui a fondare Cittanova fu un Oliva, Don Girolamo, che aveva assunto le armi dei Grimaldi alle quali s’aggiunse quell’albero d’ulivo sradicato di verde.
“Signori di Messimeri”
Dal ramo di Calabria dei Grimaldi, che aveva avuto origini nel XIV secolo dal secondogenito, Bertone, del secondo signore di Monaco, Lanfranco, e di Aurelia del Carretto, proviene invece la stirpe dei “signori di Messimeri”, da cui il titolo marchionale di Seminara.
Andiamo cauti allora nel sospendere critica e giudizio di fronte all’atteggiamento un po’ troppo accalorato che, con il criterio dell’affezione, sia pur la più sincera, valuta ottimo quanto è appena appena passabile a una disamina un tantino, non dico, severa, quanto giustamente obbiettiva. Con l’aggiunta che, se la natura è stata forse abbastanza generosa, altrettanto non si può dire delle azioni, e malefatte, degli uomini, la cui probità va tutta verificata caso per caso.
A Chjàna
Al secondo posto, nell’elenco dei doni del Padreterno, Répaci pone l’ulivo, in forza all’Aspromonte, e in quinta posizione l’olio, sommariamente a Gioia Tauro, intesa come “A Chjàna”, di tempo in tempo, quando di Terranova (XVI secolo), quando di Seminara (XVII sec.), o di Palmi (XVIII sec.), quando di S. Martino, in epoca normanna e angioina, - e precisamente Planitie Sancti Martini et Sancti Giorgii, soprattutto per l’importanza del Castrum Sancti Martini, dove si celebrarono il matrimonio di Giuditta d'Evreux e Ruggero il Normanno, nel 1062 (De rebus gestis Rogerii Calabriæ et Siciliæ Comitis et Roberti Guiscardi Ducis fratris eius/ auctore Gaufredo Malaterra monacho benedictino, II, XIX), e un solenne Parlamento (di Prelati, Baroni, Deputati e Probi uomini del Regno, indetto nel 1283 da Carlo II d'Angiò, allora Principe di Salerno, per proporre, discutere e approvare le nuove Costituzioni della Monarchia).
Vallis Salinarum o pianura di San Giovanni
Prima ancora, per romani e bizantini, era stata “Vallis Salinarum”, a causa degli acquitrini salmastri sulla costa e alla foce dei fiumi. Nella “Descrittione di tutta l’Italia & Isole pertinenti ad essa” (1567) viene riportata da Leandro Alberti come «una molto larga e lunga pianura di San Giovanni quasi tutta inculta e piena di cespugli e boschi».
Maxime du Camp
Nella denominazione del XIX secolo comincia a prendere il sopravvento il toponimo di Piana di Gioia Tauro, dal nome dell'attivo centro in cui era divenuta consuetudine commerciare l'olio d'oliva prodotto nella zona. E quando vi giunge, al seguito dei Mille di Garibaldi, Maxime du Camp, alla vista dei maestosi ulivi saraceni di trecento, quattrocento anni, - appartenenti alle antiche varietà ciciarèda, carolèa, tumbarèdu, galatrìsa, e soprattutto sinopulìsa e ottovràrica - non si esimerà dal definirli più belli e imponenti di quelli visti a Smirne o nell'Attica (L'expédition des Deux Siciles, A. Bourdilliat et C.e, Paris 1861).
Una “terra promessa”?
La sensazione di Pietro Rebuschini (In Calabri : impressioni ed istantanee, Tip. cooperativa comense, Como1895) non differisce di molto: «La strada carrozzabile che da Palmi conduce a S. Eufemia d'Aspromonte attraversa una regione che sembra una terra promessa. Foreste secolari di olivi si stendono dall'uno all'altro lato, fin dove arriva lo sguardo ed oltre, ma non di quegli olivi esili e contorti che siamo abituati a vedere sulle sponde del nostro lago (Como).Quelle della Calabria sono piante colossali come i castagni delle nostre selve, i cui tronchi, poderosi si estollono ad altezze inverosimili e le cui ramificazioni ampie e robuste si intrecciano in alto come una volta attraverso cui scarsamente passano i raggi del sole.».
Charles-E. N. Didier
Quelle loro (di Rebuschini e du Camp) erano però delle valutazioni tutte paesaggistiche, di natura romanticamente estetica, perché, qualche decennio prima, Charles-E. N. Didier, autore di reportage di viaggio per il bimestrale francese Revue des Deux Mondes, annotava con un certo disappunto, nel mentre attraversava sterminate distese di grano e veri e propri «boschi» di ulivi, come la maggior parte della povera gente del luogo provasse un qualche forzato “gusto” ad alimentarsi di pane raffermo intinto nell’olio rancido.
Carlantonio Pilati
Nei Voyages en differens pays de l’Europe (L’Aja 1777), Carlantonio Pilati valutava come solo i due terzi delle olive raccolte fossero destinate alla molitura e l’olio, che lasciava a desiderare, venduto in gran parte a mercanti genovesi e spagnoli, mentre quasi un terzo venisse destinato alla tavola, dopo essere stato seccato al sole o al forno.
Olive nere al forno
E quella delle olive nere al forno, impreziosite come sono da origano e un trito d’aglio, è ancora una ricetta tipica della nostra zona, da servire come antipasto o per arricchire tante pietanze. Certo le drupe vanno scelte una per una, con accuratezza, tra le mature appena cadute dall'albero, che non dovrebbero risultare troppo amare, ma, eventualmente, dopo averle lavate, basta schiacciarle un po’ con le mani per levare, già alla prima cottura, quel residuo gusto amarognolo.
Forse, allora, bisogna correggersi, accettando di asserire che in Calabria non tutto è completamente buono, e come s’incontra qualcosa di bello, non manca qualcos’altro di altrettanto spiacevole, e viceversa.
Extravergine!
Al giorno d’oggi, tanti calabresi producono degli oli di ottima qualità, il che non accadeva affatto fino a poche decine d’anni addietro, e, anche nel più recente passato, il nostro “manufatto” oleario veniva giudicato pessimo. Eppure, c’era già stato qualche lungimirante e colto imprenditore impegnato a cambiare radicalmente la maniera d’una lavorazione resistente ad adeguate innovazioni: dal sistema di coltura alla modalità di raccolta delle drupe, dalla tecnica di molitura a quella di stoccaggio.
Giovanni Attilio Arnolfini
Nel 1768, su incarico della principessa di Gerace, Maria Teresa (del ramo della famiglia Grimaldi che aveva acquistato il ducato di Terranova nel 1574), visitò quel feudo l’idrologo lucchese Giovanni Attilio Arnolfini, il quale attribuì subito il principale fattore di scarsa redditività della zona alla stessa mentalità d’un’aristocrazia redditizia piuttosto assenteista, che impiegava abbastanza male le proprie risorse, già di per sé insufficienti, in spese di vana rappresentanza, invece che in graduali investimenti produttivi, lasciando questi in mano ad amministratori e guardiani, se non proprio inaffidabili, quanto meno disattenti.
I rimedi proposti dall’Arnolfini miravano a un duplice ordine di interventi, di cui uno di tipo strutturale, volto alla bonifica del territorio o ad alleggerire lo stato miserevole della popolazione locale, incrementandone l’istruzione, l’altro grado di intervento riguardava tutta una serie di oculati incrementi tesi a recuperare gli incolti, o a migliorare le tecniche di coltivazione e di allevamento ovino e bovino.
La potatura necessaria
Particolare attenzione Arnolfini dedicò all’olivicoltura, costituendo il settore produttivo più importante ed essendo la principale voce d’entrata del ducato di Terranova. Per lui, occorreva quindi assolutamente introdurre la pratica della potatura, trascurata, se non addirittura del tutto sconosciuta, a causa della diffusa convinzione che gli ulivi, lasciati liberamente crescere a dismisura, rendessero di conseguenza maggior frutto: “l'alivu tantu cchiù pendi tantu cchiù rendi”. Eppure la saggezza popolare s’esprimeva anche nell’adagio: “Olivu e ficu trattalu di nimicu”, nel senso che bisogna addomesticarli entrambi ben bene.
L’«ingrassamento» biologico
Il terreno sottostante andava zappato, dissodato o sarchiato, con più cura e mentre i vecchi uliveti necessitavano di naturale “ingrassamento” biologico, e cioè della concimazione delle mandrie al pascolo, quelli di nuovo impianto non dovevano soggiacere all’abitudine di continuarvi la consociazione con la semina, anche per non incorrere nel pericolo di incendi spesso procurati dalla bruciatura delle stoppie e dal fuoco nella paglia, appiccato subito dopo il raccolto. Senza contare che l’olivo, sin dall’antichità, è sempre stato considerato alla stregua d’una pianta sacra, e bruciarla costituirebbe un atto d’empietà!
Una macerazione in-desiderabile
L’altra osservazione era relativa alla consuetudine di portare al frantoio drupe lasciate macerare prima della molitura, nella falsa e assurda convinzione d’ottenere in tal modo un olio più abbondante e saporito (sic!). Andavano applicati degli accorgimenti anche al frantoio da far muovere dall’acqua, anziché da bestie da soma, e grazie all’utilizzo di ruote dentate che avrebbero impresso maggiore velocità alla macina.
La principessa, comunque, non intraprese alcuna opera di bonifica, tanto meno si preoccupò di mettere in pratica i consigli dell’Arnolfini.
Domenico Grimaldi
A introdurre criteri di conduzione innovativi nelle sue proprietà terriere, peraltro non molto estese, nel territorio di Seminara, era invece disposto il marchese Pio Grimaldi, dei “Signori di Messimeri”, benestante, ma dalle disponibilità economiche non infinite. Il figlio Domenico, primogenito di Pio e di Porzia dei Grimaldi di Polistena, dopo aver studiato economia a Napoli, dove frequentò l’Accademia dell’Arboscello, si trasferì nella città ligure da cui proveniva la sua nobile famiglia per approfondirvi gli aspetti tecnici dell’olivicoltura, finendo per essere accolto dalla parigina Société royale d'agriculture.
La fisiocrazia
Avendo abbracciato la dottrina fisiocratica (in netta opposizione al mercantilismo), ne applicò le metodiche per cercare di migliorare la situazione di grande arretratezza, in cui versava anche allora la Calabria, dove la coltivazione della terra, pur essendo "riconosciuta come la vera sorgente dell'opulenza e della possanza", si limitava a una pura e semplice attività di sussistenza (Saggio di economia campestre per la Calabria Ultra, 1770).
Lampante
L’olio calabrese era destinato in genere alle fabbriche di sapone o come combustibile nell’impiego delle lampade, da qui la denominazione di “lampante” per un prodotto piuttosto nauseabondo, e tuttavia ammesso in cucina esclusivamente per stretto bisogno, od orgoglio malriposto.
Qualità vs. quantità
Per migliorare la qualità dell’olio era evidente la necessità di dover rinunciare, almeno in parte, alla quantità e a quel pregiudizio che non ammetteva la pur necessaria potatura di quegli alberi tanto maestosi quanto prolifici. Inoltre, le drupe appena colte non avrebbero dovuto sostare in terra per essere invece subito avviate alla molitura in frantoi non antiquati, come erano quelli calabresi, bensì più adeguati ai tempi, come i più moderni ad acqua (alla genovese), già con competenza introdotti in quella regione a est della Provenza e a sud del Piemonte (Istruzioni sulla nuova manifattura dell'olio introdotta nella Calabria dal marchese Domenico Grimaldi di Messimeri, Presso Raffaele Lanciano, Napoli 1773).
Il terremoto del 1783
Il terremoto del 1783 mise a dura prova ogni programma di riforme. Eppure, in occasione della costituzione della Cassa sacra per il finanziamento della ricostruzione, il Grimaldi seppe consigliare l’indirizzo dell'intervento pubblico sempre in forma mirata, per esempio, proponendo che i finanziamenti prevedessero un investimento in macchinari idonei (Memoria del marchese Domenico Grimaldi di Messimeri, patrizio genovese, socio ordinario e corrispondente dell’Accademia dei Georgofili ... diretta al supremo consiglio di finanze per lo ristabilimento dell'industria olearia, e dell'agricoltura nelle Calabrie, ed altre provincie del Regno di Napoli, presso Giuseppe-Maria Porcelli, Napoli 1783). E a sostegno delle sue tesi s’avvalse anche dell’apporto dell'archeologia (Memoria sulla economia olearia antica, e moderna e sull'antico frantojo da olio trovato negli scavamenti di Stabia, in Napoli, nella stamperia reale, 1783).
L’eruzione del Vesuvio del 79
La più antica bottiglia di olio è stata riconosciuta recentemente provenire da Ercolano, nonostante fosse emersa nei primi scavi del 1738; l’analisi del liquido ormai solidificato, risalente all’anno dell’eruzione del Vesuvio (79 d. C.) ha confermato trattarsi d’olio d’oliva puro, e di ottima qualità.
Oleum ex albis ulivis
Il ritrovamento delle ville d'otium, lungo la costa del golfo di Napoli, avvalorano la raffinatezza dei romani che vi soggiornavano, tale da distinguere sino a dieci diverse varietà di olivi e ben cinque diverse categorie di olio: oleum ex albis ulivis (il più pregiato), ottenuto da drupe verde-chiaro; viride, da olive che iniziano a colorarsi (invaiate); maturum, da un frutto già maturo; caducum, da drupe raccolte a terra; cibarium, proveniente da olive bacate e destinato solo agli schiavi.
Le giare o pithoi
Gli scavi tra le rovine di Cnosso avrebbero rivelato, assieme a cisterne pavimentali e recipienti ceramici, detti pithoi (πίθοι, in sostanza grandi giare da immagazzinamento), la presenza di vari sistemi di estrazione dell’olio.
Fiscoli
Un antichissimo frantoio, risalente all’età micenea, è stato poi scoperto nell’isola di Santorini: costituito da una pietra concava, dove si deponevano le olive, e da una convessa, che pesandovi sopra le schiacciava fino a spremerle. L’impasto ottenuto veniva poi immesso in cesti sovrapposti (equivalenti alle sporte circolari dette fiscoli), che pressando uno sull’altro, procuravano la fuoriuscita di quel liquido, contenente, oltre alla pasta di olive, l’acqua di vegetazione, lasciato decantare il quale, si sarebbe fatto affiorare l’olio.
Trappitari e ogghiulani
Nonostante la palese dimostrazione dei vantaggi del perfezionato sistema proposto e da Grimaldi e da Arnolfini, i proprietari retrogradi e i vecchi «trappitari» (da τρᾰπέω, pigiare, da cui il latino trapetum) si rifiutarono d’accogliere il lungimirante progetto d’origine “settentrionale”, per una sorta di retrivo misoneismo nei confronti d’ogni innovazione, per quanto utile ed efficiente. Le tecniche tradizionali garantivano probabilmente l’egemonia di proprietari e «ogghiulani» (da ἔλαιον, oleum) ed erano gradite all’arrogante ignoranza della conservazione delle abitudini consolidate, anche qualora riconosciute palesemente malsane.
Giuseppe M. Galanti
Una coeva indagine di Giuseppe M. Galanti, che col Grimaldi fu assessore al neocostituito Supremo Consiglio delle Finanze borbonico (retto da John F.E. Acton, segretario di Stato durante il regno di Ferdinando IV), ci rende testimonianza di tanta caparbietà di addetti ai lavori impreparati a gestire al meglio una qualsiasi attività di elaiopolio (ἐλαιοπώλιον, da ἔλαιον e πωλέω vendere), nel riferire d’una raccolta, effettuata ancora con le scope dal nudo terreno, di olive stramature e non più sane, lasciate per giunta al suolo a macerare a lungo, sino all’irrancidimento.
I «mulini da olio»
Un paio di decenni dopo, Carl Ulisses von Salis-Marschlins, da naturalista interessato alla botanica, come all'entomologia e alla concologia, avrebbe confermato questa negativa impressione, notando che i cosiddetti «mulini da olio» della nostra regione erano molto simili a quelli in uso nel Marocco; e come molti contadini spesso raccoglievano il frutto dei mastodontici ulivi persino a tarda primavera, quando le drupe ormai rinsecchite erano già marce (Reisen in verscheidene Provinzen des Königreichs Neapel, Viaggi attraverso varie province del Regno di Napoli, 1793).
Olio del crisma
Johann Heinrich Bartels (Briefe über Kalabrien und Sizilien, Lettere su Calabria e Sicilia, Vol. 1, Johann Chrisian Dietrich, Göttingen 1791) arrivò a contestare che quell’olio giallognolo e maleodorante fosse addirittura peggiore di quello che veniva comunemente impiegato per far ardere le lampade, ma forse faceva un po’ di confusione con quell’uso tradizionale nelle luci votive della leucolea (da λεύkος, bianco, - originaria d’un’isola dell'arcipelago del Dodecaneso, Kasos, da cui pure il nome Leucokasos), che produce frutti dal colore chiaro, dai quali s’ottiene un olio poco pregiato dal punto di vista organolettico, ma molto indicato per finalità prettamente cosmetiche, quale base per unguenti, oppure a scopo religioso, nell’unzione dei malati, l’ordinazione di nuovi sacerdoti e vescovi, il battesimo o la cresima (olio del crisma), venendo poi in particolare prediletto quale combustibile nelle apposite lampade, per il misterioso motivo di non rilasciare, bruciando, che pochissimo fumo, non del tutto sgradevole.
Olive albine
Il colore delle drupe di leucolea è determinato da una particolare reazione al momento dell’invaiatura, prima cioè della maturazione, in quanto la buccia non riesce a pigmentarsi a dovere, rimanendo così quasi come albina. Nelle altre varietà infatti le olive si macchiano d’un rosso violaceo prima di passare dal verde al nero, e questo per via della degradazione della clorofilla e del contemporaneo incremento di antociani. Questa assenza di pigmenti fa sì che frutti dalla polpa carnosa e forma ovale possano pendere dall’albero anche fino a primavera.
“(…) Esili foglie, magri rami, cavo/ tronco, distorte barbe, piccol frutto,/ ecco, e un nume ineffabile risplende/ nel suo pallore! (…)”. Nel comporre l’Alcyone, era a questa cultivar che s’ispirava D’Annunzio?
Tutte le testimonianze sembrano concordi nel ritenere innegabile quanto, in Calabria, la lavorazione delle olive fosse rimasta a uno stato davvero arcaico.
Duret de Tavel
Nelle lettere inviate al padre dal dicembre 1807 all’ottobre 1810, Duret de Tavel, pur ammirando quegli alberi d’alto fusto che erano gli ulivi di Calabria, in grado di fornire ricchi raccolti, commentava, tuttavia, come l’olio da essi prodotto avesse un pessimo sapore, venendo pertanto venduto alle fabbriche estere, soprattutto ai saponifici di Trieste e di Marsiglia; dove finiva per essere diluito in acqua di mare e un composto di caldo liquido e cenere, ossia liscivia, - la quale poteva essere costituita spesso dalla consunzione d’una pianta grassa, nota pure come asparago di mare, o salicornia, in sostituzione dell’olio di alloro dell’originaria ricetta del sapone d’Aleppo, giunta in Francia nel periodo delle crociate.
Horace de Rilliet
Nel suo splendido reseconto corredato da formidabili illustrazioni (Tournée en Calabre, Pilet & Corignard, Genève 1852), Horace de Rilliet descriveva come le olive raccolte venissero gettate in un truogolo, nel quale girava una macina allo scopo di schiacciarle e ridurle in “pastàcciu”, di poi disposto su graticci di vimini per venire sottoposto alla pressa. Anche il chirurgo svizzero, al seguito del 13º Battaglione Cacciatori a guardia di Ferdinando II, non ritenne questo prodotto degno d’alcuna nota di merito e pertanto, a suo giudizio, «non serviva che al basso ceto ed all’illuminazione».
E.V.O.
Due secoli e mezzo dopo Arnolfini e Grimaldi, le loro raccomandazioni vengono finalmente osservate e messe in pratica, con scrupolo, da molti: le olive si cominciano a raccogliere quando accennano all’invaiatura, ben prima della maturazione, direttamente dalla pianta, senza aspettare che cadano al suolo, per essere subito avviate a una molitura che non le sottoponga a riscaldamento, allo scopo di fornire un olio verde molto aromatico, come il viride dei latini. Si sta, inoltre, molto accorti al livello di acidità (che non deve superare lo 0,8%) e al valore organolettico (punteggio non inferiore a 6,5), al contenuto polifenolico, alla valutazione olfattiva, come pure alla sensazione d’asprezza in gola determinata dall’oleocantale.
Il paesaggio è ancora “mediterraneo”?
Ciò che nel frattempo è cambiato è il paesaggio, che fino a non molto tempo addietro dimostrava, a prima vista, l’importanza rivestita da questa pianta per le nostre regioni; e per averne conferma basta viaggiare per le strade che attraversano le nostre campagne, prima caratterizzate da preziose biodiversità, mentre al giorno d’oggi, se volessimo soffermarci a guardare attentamente le varie contrade, anche al semplice colpo d’occhio, ci accorgeremmo d’una devastazione sostenuta dalla pressione del condizionamento commerciale verso un’irrazionale innovazione senza regole e una cultura di sfrenata velocità di cambiamento, che per giunta non ci appartiene: distese di terreno invaso da idrovori alieni cinesi dal nome maori, o irrimediabilmente desertificato dall’illusione industriale, e portuale, pseudo-progressista degli ultimi decenni del secolo scorso.
Il rametto scelto dall’avo di Aschkenez, quale simbolo di pace, e l’unguento (χρῖσμα da χρίω) usato dagli ebrei in segno d’investitura, non sembrano più indicare quello strettissimo legame tra la pianta e l’area geografica in cui s’è essa acclimatata; area considerata alla stregua d’una sola unità organica, ben distinta dalle fredde e umide province del nord e dalle desertiche e aride zone dei tropici e dell’oriente estremo, ma comprendente, oltre alle coste di Siria e Palestina, la parte meridionale del Caucaso e gli altopiani dell’Iran, poiché gli antichi consideravano l’inizio e la fine del mare nostrum non già dove spadroneggia un equino dio del mare, bensì laddove è presente l’olivicoltura, classicamente incominciata in Grecia da un’Athena afroasiatica, come del resto indica l’etimo composito (lidio e tirrenico: Ati, madre, e hurrita: Ana, grande, da cui la semitica Anat e l’iranica Anāhitā), ovverossia una “Grande Madre”, all’origine dei tempi, fattasi orgogliosamente mediterranea.
Ierace G. M. S. Del vitto pitagorico, Elixir, X, 26-31, 2011
Ierace G. M. S. Il Mistero del Pane sulla Tavola di Dio, Elixir, XIII, 86-91, 2016