Metti un tardo pomeriggio in una ridente località collinare del capoluogo, metti un invito a presentare un libro accettato con piacere, nonostante i 200 chilometri e passa, andata e ritorno, dall’autore e dalla sottoscritta, soprattutto perché proveniente da giovani che trovano il tempo di scambiare idee e parole attorno a un libro e le relazioni sono tra le forze propulsive di chi lavora nell’editoria e di chi scrive. E dunque partiamo con animo lieto, io e l’autore in questione, ché di esperienze di questo genere ne abbiamo condivise moltissime, ed ognuna ci ha restituito la bellezza delle parole e degli incontri ed ognuna è stata diversa, unica. Cambiano i lettori, cambia la risonanza emotiva che le storie evoca in ognuno di loro, cambia il confronto, il dialogo, l’ascolto.
Eppure, a pensarci bene, i segni premonitori c’erano tutti: la batteria della macchina che fa i capricci, la locandina, alquanto di impatto, che non cita la casa editrice, la parola presentazione non pervenuta in nessuna parte del testo, sacrificata in nome di un più sobrio incontro dibattito.
Ma quando il dibattito diventa in realtà un monologo, quando, artatamente, nella passiva reazione di tutti gli astanti, istituzioni e padroni di casa compresi!, si assiste ad un intenzionale travisamento di pensieri e parole per avvalorare una tesi che non ha nulla a che vedere con il testo, violentato, ora sì, (per usare una parola tanto evocata durante la serata) per piegarlo ad una visione “di genere” che già è urticante al solo pronunciarlo, allora finisce la presentazione e inizia l’imboscata letteraria, o il match, come aveva profeticamente scritto una delle protagoniste principali.
Caricati i fucili, il plotone schierato, il comandante ha dato il via e incredibilmente, l’autore è stato giustiziato, senza troppi convenevoli e una rara scortesia che nessuno, ripeto, nessuno dei presenti, tra cui un consigliere comunale che la sacra creanza dell’ospitalità avrebbe dovuto conoscerla, non foss’altro perché la sua amministrazione aveva patrocinato l’evento, ha ritenuto di dover correggere, attenuare, reindirizzare. Giustiziato perché uomo che osa scrivere di donne, “solo le donne possono scrivere di donne” (ahimè!) con un uso spregiudicato del testo e delle parole, decontestualizzate ad arte e schiacciate sotto il tema della violenza di genere, che nulla ha a che vedere con il testo in questione, piegato all’idea sovrana di un’unica verità rivelata che ha governato, in assenza di un moderatore efficace, la serata.
Attoniti e alquanto stupefatti, io e l’autore, abbiamo assistito alla progressiva demolizione delle resilienti protagoniste dei dieci racconti, che pur avevano resistito, finora, perfettamente in bilico su un filo d’acciaio al vento continuo che scuote e scompiglia le loro esistenze.
Ora, è evidente che si può essere in disaccordo con un libro e le idee del suo autore, semmai, in questo caso, la domanda spontanea sarebbe che l’hanno invitato a fare, è anche evidente che un dibattito può assumere sfumature di disaccordo, ma se la prerogativa è imporre e non ascoltare l’altro è ovvio che la situazione non è più sostenibile. Ciò che non è accettabile è la scortesia, l’arroganza e i toni di un incontro culturale strutturato e condotto come un match, una guerra, una vile imboscata.
E a nulla valgono le scuse, di circostanza ancorché tardive, di chi era presente e ha avallato la linea di conduzione, lanciandosi adesso in un meraviglioso quanto creativo “mi dissocio”.
L’associazione in questione ha, sicuramente, le potenzialità per crescere, magari scegliendo meglio i compagni di viaggio, e non delegando ad altri, salvo poi dissociarsene, la conduzione degli eventi. In generale io consiglierei anche una sana attività di decodifica del testo che potrebbe aprire orizzonti insperati per chi si accinge a promuovere eventi culturali.