Come Pavese, come chiunque, ci si uccide per bisogno di empatia.
Scartiamo ogni approccio moralistico all’estremo gesto del togliersi la vita. Non può reggere, nella funzionale e pragmatica visione salvavita, né additare come vigliacco il suicida, né ricordare che la vita appartiene a Dio.
Chi si vede piombare addosso le pareti della casa non vede né coraggio, né Dio, mentre si sente schiacciato.
Mentre non respira.
“adesso il dolore invade anche il mattino”
Lo scrittore piemontese, quando mancava poco alla scelta finale, scrisse nel suo “mestiere di vivere”, questo breve passaggio.
La sequenza rituale del dolore diventava crescente, non riservando la fase acuta alla notte, che porta il buio e la solitudine.
La luce del sole divenne fredda, per Pavese.
Bianca Garufi, scrittrice e amica di Pavese, molto amica, il cui “fiato riposa sotto il cielo d’agosto”, lo chiamò “povero sciocco”, venendo a conoscenza della sua morte.
Avvenuta il 27 agosto 1950, a Torino, nell’albergo “Roma”; l’hotel si chiamava come il bar di Brancaleone Calabro dove Pavese aveva passato otto mesi di confino, a cavallo tra il 1935 e il 1936.
Il Bar Roma che ancora vedo passando di là.
Doveva farsi aiutare, Cesare, affermava la Garufi.
Ma il dolore del mattino fu un nemico troppo forte da combattere.
Invincibile
O forse no?
Dobbiamo fare i conti con il suicidio come estrema scelta, che accade.
Negarlo vuol dire ammetterne la forza, l’invincibilità.
Se ci pensiamo, adesso, in questo momento, ognuno di noi conosce almeno una persona che ha deciso di togliersi la vita.
Oppure, che l’ha fatto.
Tanti Pavese senza mezzi relazionali, travestiti da gente normale, e magari serena.
Senza il conforto dell’empatia.
Cioè della comprensione, dell’accettazione.
Senza essere sentiti e riconosciuti.
Con i loro difetti. Con le loro fragilità.
Come Pavese, c’è un mare di fragilità annegata nel fluire ordinario dei giorni.
L’empatia ha certo un costo. Occorre prendere sulle spalle il dolore altrui.
Per scelta o per mestiere, l’empatico possiede il dono di essere sensore.
Di fronte alla sofferenza, suona come l’auto all’avvinarsi, in retromarcia, ad un muro.
Non essere empatici ha un costo maggiore.
Si chiama aridità.
La secchezza delle granitiche certezze.
Le porte chiuse al dubbio.
La corazza della distanza.
Cesare Pavese si uccise dopo aver vinto il Premio Strega per “la bella estate”, sul finire del mese di giugno 1950.
A Pavese tutto accadeva sul finire dei mesi.
Era il terzultimo mese di vita, e lo sapeva.
Intorno, nulla. Il nulla assassino.
“i suicidi sono omicidi timidi”.
Oggi, a settantun anni dalla sua morte, dopo averlo letto nelle fiumare e nelle piazze, sul treno e sotto la luna, Cesare Pavese è atrocemente moderno, tragicamente profetico, contraddittoriamente umano.
C’è un solo modo per ricordarlo, oltre la letteratura.
Come lui, come Sylvia Platt, Majakovskij, Virginia Woolf, Ernest Hemingway.
Ma come Francesco, Giorgio, Lea e tante altre scelte assenze.
E si chiama empatia verso il prossimo.