Grande successo per il film sceneggiato dal calabrese Emanuele Milasi
“La timidezza delle chiome” di Valentina Bertani è al cinema in questi giorni in tutta Italia, dopo essere stato presentato all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, nelle Giornate degli Autori.
Proiezioni speciali sono state organizzate anche a Reggio Calabria e Messina, grazie alla presenza dei due sceneggiatori, originari delle città dello Stretto, Emanuele Milasi e Alessia Rotondo, noti anche come storici organizzatori di un evento cinematografico importante come il Pentedattilo Film Fest.
Insieme alla regista e all’altra sceneggiatrice Irene Pollini Giolai, Milasi e Rotondo firmano un film che la critica ha definito “la rivelazione del Festival”, “un ritratto potente, originale e sentito”. La storia di Benjamin e Joshua, due gemelli omozigoti con disabilità intellettiva, di famiglia ebraica, seguiti nella loro vita quotidiana per cinque anni dalla crew, compresi i periodi della pandemia e del lockdown.
In bilico ardito tra finzione e documentario, convince e conquista il pubblico con un giudizio pressoché unanime: non è un film sulla disabilità e rifugge da qualsivoglia forma di pietismo. Benjii e Josh sono semplicemente travolgenti e chi li ha filmati non nasconde proprio di averne subito tutto il fascino: sono vivaci, intelligenti, allegri, talentuosi, praticano sport, ascoltano e suonano musica - frequentano il conservatorio - ballano, escono con gli amici, fanno campeggio: tutto quello che normalmente fa parte del mondo dei più giovani, e anche qualcosa di più. Hanno una famiglia che li segue, li stimola, li protegge e li incoraggia, una forte propensione alla socialità, sono carismatici, testardi, spiritosi, teneri. E sono adolescenti colti nel momento della crescita verso l’età adulta, con tutti i passaggi di quel periodo esaltante e problematico, la ribellione, la rabbia, la scoperta del sesso e dell’amore, la voglia di autonomia, la ricerca di un proprio posto del mondo.
Una pellicola, quindi, che parla di giovani, parla ai giovani, ed è fatta da giovani. In un paese di “vecchi” come l’Italia, non è cosa da poco. Nel paese in cui anche i quarantenni guardano agli adolescenti come alieni prigionieri dei social e storditi da musica incomprensibile, questo sguardo risulta non convenzionale, non indulgente, non incline a nessuna forma di giudizio, e proprio per questo spiazzante e liberatorio. B e J sono come tutti i loro coetanei, che non a caso hanno un posto nella narrazione, perché anche gli amici sono colti in maniera autentica, discreta e potentissima: che siano con disabilità o no, i ragazzi sono restituiti tutti nella loro unicità, titubanti e turbolenti, malinconici ed elettrizzati, pronti a saltare il recinto familiare e a percorrere vie individuali.
Un film che rompe gli schemi nella regia e nella scrittura, con una colonna sonora briosa che non dà semplicemente il ritmo ma ha un ruolo da protagonista, perché così è anche nella vita reale per quella fascia d’età; un film che si fa scrivere e girare dai protagonisti, senza un copione programmato, senza sapere come andrà a finire, in un’alchimia con la troupe che si indovina particolare e misteriosa. Nato da una visione e da un’intuizione: l’incontro fortuito per le vie di Milano della regista che rimane folgorata dai gemelli e li “insegue”; il coinvolgimento di altri tre “giovani” sceneggiatori, pronti a rimettere in discussione quanto hanno imparato della scrittura cinematografica, per vivere insieme ai gemelli, alla loro famiglia e ai loro amici per cinque lunghissimi anni, per farsi guidare e assecondare da due persone che proprio non ne vogliono sapere di essere considerati “diversi”. Perché a essere “diversi” e “speciali” e “difficili” sono tutti gli adolescenti, a dispetto di quello sguardo degli adulti che li appiattisce e li massifica; e se c’è un merito molto forte in questo film è proprio quello di mostrarcelo chiaramente e spudoratamente, senza nascondere problemi e complessità di non facile gestione, e senza rinunciare alla poesia, non un facile ornamento registico, ma sempre improvvisa fioritura della vita che non si può non raccontare.
Ma anche B e J crescono, finiscono la scuola, devono prendere decisioni: sono gemelli omozigoti legati da un rapporto osmotico, e tra complicità e differenze caratteriali anche per loro arriva il momento di prendere strade diverse. Così la parte finale del film ci porta da tutt’altra parte, in un altro posto del mondo, diverso, con altre regole e atmosfere, passaggio di un’esistenza che è comunque assolutamente imprevedibile, articolata, disordinata.
Cosa rimane, dunque, ai due fratelli dai capelli irti e indisciplinati, che nelle loro schermaglie ragazzine si mescolano e si confondono? Rimanere insieme o separarsi? Soffocarsi o tradirsi? Forse solo quello che chiede ogni giovane, quello che chiede ogni adulto. Un proprio posto, un proprio spazio dove scoprirsi in libertà, e lasciarsi vivere. Come le chiome di certi alberi che crescono vicini, che si sfiorano senza intrecciarsi, attenti a non andare oltre, per non sovrapporsi gli uni con gli altri, per non farsi ombra.
Ha un nome questo strano fenomeno naturale. Si chiama… “la timidezza delle chiome”.