Spietato Manager “Cal-a-bro 9”, ovvero “quei ragazzi non tanto bravi”, o “il delitto ripaga… spesso”.
Quando non si ha niente da aggiungere viene spontaneo profferire un “ça va sans dire” a sottolineare forse un po’ troppo altezzosamente una miseria linguistica che però voglia ostentare un inesistente bisogno di specificare o dimostrare qualcosa; il rischio di ricorrere a tale idiomatico francesismo potrebbe essere quello di sentirsi apostrofare: “Si cela va sans dire, ça ira encore mieux en le disant.”, quale invito a scoprire le carte in gioco. Nel film “Lo spietato” (2019) diviene una sorta di intercalare sarcastico per non prendere mai niente e nessuno sul serio, fornendo così una spiegazione del proprio stile di vita altolocato, da imprenditore del crimine, che vorrebbe persino essere elegante, magari indossando abiti su misura, secondo una spocchiosa moda (mimetica d’un gusto d’oltralpe?), ma sceglie poi, da presuntuoso parvenu, griffe di pessimo gusto.
Peppino Gagliardi 1967-8
L’ultima volta il tormentone lo declina la pia (paucciana) e dimessa mogliettina tradita, che si rivela spietata almeno quanto il compagno infine lasciato al suo destino e sbeffeggiato appunto con quel suo stesso ritornello, e in netto e stridente contrasto con il refrain di Peppino Gagliardi, targato 1967-8: “Che me ne faccio ormai di tutti i giorni miei/ Se nei miei giorni non ci sei più tu?”, tornato in auge dapprima in “Profumo di donna”, diretto da Dino Risi nel 1974, e dopo con “The Man from U.N.C.L.E.” di Guy Ritchie (2015).
Guy Ritchie
E forse qualcosina c’è del più navigato regista britannico nei tagli di montaggio (“Lock, Stock and Two Smoking Barrels”, 1998; “Snatch”, 2000; “Revolver”, 2005 o “RocknRolla” del 2008) anche nel nostro Renato De Maria (che, al suo attivo, in merito, ha il documentario “Italian gangsters”, 2016), come di Jason Statham in Riccardo Scamarcio?
I tempismi di ruolo e la fotogenia briccona di quest’ultimo sembrerebbero poter esser stati prelevati più da Gian Maria Volonté. Invece, la lezione che Ritchie avrebbe ben appreso è relativa alla godibilità dell'appeal creativo, affinché, se intrattenimento dev’esserci, esso stesso sia allora autoironico e pronto a sollazzarsi e ridere in compagnia degli spettatori, senza mai diventare una mera parodia, e rispettando quindi i canoni previsti, nella consapevolezza della propria dimensione blandamente fuori da quel tal tempo da rievocare.
"Uè testina"
Cambia l’ambientazione, non perfettamente dettagliata, ma neanche iperbolica o fumettistica; e ce ne si accorge sin da subito, quando, già all’inizio, l’esordio si apre con quel meneghino "Uè testina", la più caratteristica espressione del “cumenda” /Guido Nicheli, immancabile nelle pellicole vanziniane (tipo “Yuppies - I giovani di successo”, 1986) della “Milano da bere”. Il che potrebbe un tantino fuorviare dalla tradizionale “crime story” su ascesa e caduta d’un classico delinquente (non) comune, magari fuori dagli schemi dell’ortodossia di “genere” (diciamo “dark o gangster comedy”, e non precisamente poliziottesco).
E che sia proprio questo un punto di forza (o di debolezza?), dell’operazione condotta da De Maria?
Uno sporco lavoro che qualcuno deve pur sempre portare a termine!
Una mancanza di pretese, mantenuta con leggerezza sul filo del distacco emotivo, appena appena condita da un po’ d’ironia (quasi comica però la scena dello sposalizio inquinato da non-invitati inaspettati e sgraditi, o quella della rapina con travestimento da forze dell’ordine e conseguente inseguimento da parte dei veri carabinieri per le strade deserte d’un paesino fantasma dell’hinterland); senza trascurare quello sguardo pure alla caratterizzazione degl’immancabili stereotipi (le riunioni al bar degli immigrati, o la festa tribale d’immolazione della capra, durante la quale è consentito l’approccio sentimentale). Sia ben chiaro: Santo/Scamarcio fa cose davvero orribili, ma le gestisce nella totale lucidità di coscienza che si tratta d’uno sporco lavoro che qualcuno deve pur sempre portare a termine. Esattamente così: “ça va sans dire”!
Il “triangolo dei sequestri”
Dove si concentrano maggiormente gli stereotipi, se non nei riferimenti a un’etno-geo-storiografia “praterota”, che alla Madonna dei Polsi del “triangolo Platì-San Luca-Natile di Careri” collega il culto taurianovese per la Madonna della Montagna?
Dalla “Duomo Connection” a “Tangentopoli”
Inutile quindi cercare riferimenti letterari a Corrado Alvaro, Francesco Perri, o Mario La Cava, del resto, il soggetto è liberamente ispirato al saggio di Piero Colaprico & Luca Fazzo “Manager calibro 9. Vent'anni di malavita a Milano nel racconto del pentito Saverio Morabito” (1995). Ed ecco il trait d'union tra 'ndrangheta e mala lumbard (o meglio quella cosiddetta “Duomo Connection”, altro titolo del ‘91, di chi avrebbe persino coniato il termine “Tangentopoli”: Colaprico), a rendere più torbido quel venato umorismo che aiuta il protagonista a non prendersi sul serio quando si trova spaparanzato, nel terrazzo con vista sulla piazza principale della capitale della finanza italiana, ad assistere con occhio risolutamente terrone allo spettacolo dei riflessi di luce sulle dorature della “bela Madunina che te brillet de luntan…”.
Dall’attenta scelta, dalla sua collezione, dell’orologio da indossare al momento giusto allo sfrecciare sulla fuoriserie d’ordinanza, in poche inquadrature, s’intuisce con chi abbiamo a che fare; non certo uno sprovveduto, piuttosto un ricco e potente che si vuol godere la vita toccatagli in sorte e il potere faticosamente conquistato; lentamente, però, essendo venuto da lontano, molto lontano, dall’estremo meridione. Per questo, invece d’inoltrarci in una trama che si pregusta sorprendente, quanto oscura e violenta, si fa un subitaneo passo indietro, un po’ inaspettato e deludente, per tirare le fila “ab ovo”.
L’infiltrazione del “calabro-ne” dal Sud era cominciata sin dagli anni cinquanta con elementi di spicco provenienti dalla Locride, venendo favorita fino a tempi piuttosto recenti dai diffusi, altezzosi e ipocriti atteggiamenti settentrionalisti di sottovalutazione e rimozione del fenomeno del riciclaggio di denaro derivato da sequestri, narcotraffico, traffico d'armi, usura ed estorsione, come anche da appalti fin troppo agevolati, movimento terra, intermediazione immobiliare e finanziaria, specie in campo bancario e istituzionale. Tutte queste “attività” richiedono basi logistiche e un impeccabile e implacabile controllo del territorio; non si possono improvvisare dall’oggi al domani; per cui le mafie esistono ora, come sono esistite prima, e, alleate tra loro, sono divenute invadenti; ma si fa finta di non vederle o non riconoscerle: ad Assago, Buccinasco, Cesano Boscone, Corsico, Rozzano, Trezzano sul Naviglio.
Le “caprette di Heidi”
Arrestato nel 1990, Saverio Morabito diviene, tre anni dopo, collaboratore di giustizia, svelando i retroscena d’una decina d’omicidi e di altrettanti sequestri di persona, perpetrati dalla metà degli anni ’70 alla fine degli ‘80, tra cui quelli di Cesare Casella, Alessandra Sgarella e Augusto Rancilio, il cui cadavere non fu mai ritrovato. Rivela che i suoi corregionali avevano trasformato la zona di Buccinasco e Corsico in un clone di Platì: “certo, mancavano solamente le montagne, però le capre le avevano anche qui… la mentalità, le abitudini, i modi e gli usi erano quelli di Platì”. La bassa macelleria delle povere “caprette di Heidi” costituisce quasi come un naturale preludio ai “sacrifici” umani, perché, come il diamante, Platì è per sempre!
Wiseguy
Una “saggistica” precedente risale al 1985 e appartiene al giornalista Nicholas Pileggi che racconta la vita d’un associato mafioso (mobster) diventato informatore, in “Wiseguy: Life in a Mafia Family”, da cui Martin Scorsese ha tratto “Goodfellas” (1990). Da bambino e adolescente, “sapientino”, tirapiedi (gopher, simile al peone/pedone, ed etimologicamente semplice: go + for = va’ per questo, va’ per quello) d’un boss di quartiere, l’italo-irlandese Henry Hill si adatta ben presto alle rapine e allo spaccio dell’organizzazione criminale, per poi investire intelligentemente nella ristorazione, ma, quando, non potendosi svincolare, sospetta che i suoi precedenti protettori stiano pianificando di farlo fuori, accetta d’entrare nel programma di protezione dei testimoni.
“Goodfellas”
Scorsese fu subito affascinato dal romanzo di Pileggi essendosi fatto l’idea che fosse il più onesto ritratto di gangster mai letto. Anzi, proprio quella lettura gli avrebbe persino suggerito il tipo di approccio filmico da adottare, come d’un colpo di pistola (gunshot) da velocizzare a mo’ di trailer, seppure nella durata di due ore e mezza. “Penso che sia l'unico modo per poter davvero percepire l'euforia di quello stile di vita e avere un'idea del motivo per cui molte persone ne sono attratte".
Sono stati soprattutto gli aspetti documentaristici del libro di Pileggi a incuriosirlo di più. "[Wiseguy] ti dà un'idea della vita quotidiana, della noia, di come lavorano, di come prendono il controllo di determinati locali notturni e per quali ragioni. Mostra come s’è fatto…". E, probabilmente, come si continua a fare, con poche innovazioni tecnologiche d’adattamento.
Passion project
Discostandosi nettamente dall'epopea classica raffigurata da Coppola ne “Il Padrino” (1972), Scorsese ha riscritto le regole di questo “genere” (gangster movie, sottogenere crime, o viceversa?) di pellicole introducendovi un virtuosismo ritmico indiavolato, a tratti nevrotico, sottolineato da martellanti pezzi di musica rock. Per il regista newyorkese, con nostalgie italiane, è stato quasi "un film amatoriale" (forse meglio: passion project) per parlare di soldi, perché in fondo è per questo solo e semplice motivo che per davvero ci si mette in affari.
Due (?) Trilogie
“Goodfellas” lo ha anche inquadrato quale terzo film d’una non pianificata trilogia (“Mean Streets” del 1973 e “Who's That Knocking at My Door” del 1967) con cui, sia pur "da angolazioni leggermente diverse", ha sistematicamente esaminato la vita degli italoamericani.
L’altra famosa Trilogia, che (cinematograficamente) viene in mente a proposito, è quella “del milieu” di Fernando Di Leo (“Milano calibro 9”, “La mala ordina”, entrambi del ‘72 e “Il boss”, dell’anno dopo), la quale avrebbe molto influenzato Quentin Tarantino (gli scagnozzi di “Pulp Fiction”, Jules Winnfield e Vincent Vega, riprendono le figure di David Catania e Frank Webster de “La mala ordina”); “Il boss” proviene da “Mafioso” di Peter McCurtin, mentre, per quanto riguarda i primi due titoli, nella maggior parte, le atmosfere apparterrebbero ai racconti di Giorgio Scerbanenco. Difatti, “Milano Calibro 9”, ripreso da Di Leo (e poi, per le rivelazioni di Morabito, modificato da Colaprico & Fazzo in “Manager calibro 9”), era in origine una raccolta, pubblicata nel 1969, di 22 racconti dello scrittore nativo di Kiev.
Romanzo criminale
L’esercizio di stile procede comunque lungo un binario sincopato, e franto, parallelo a un “Romanzo criminale” (2005), diretto da Michele Placido, e tratto da Giancarlo De Cataldo (2002). - E qui ci sarebbe molto da indagare sulle motivazioni psicologiche profonde che spingerebbero chi si occupa quotidianamente della realtà giudiziaria per tradurla in fantasia letteraria (De Cataldo: suo anche “Nelle mani giuste”, ambientato negli anni che vanno dalle stragi del ‘93, a Mani pulite, sino alla fine della cosiddetta Prima Repubblica), o per riciclarsi nel mondo della politica e dell’intrattenimento dei talk show (emblematico il caso Carofiglio: il suo “Il passato è una terra straniera” è stato trasposto sullo schermo da Daniele Vicari nel 2008). Si tratta quasi d’un’occasione per ridipingere la cronaca nera con tonalità più nitide?
Ricorso all’extradiegetico
Almeno nel caso De Maria, non sembrerebbe proprio dall’applicazione extradiegetica della voce fuori campo, che l’imperativo anglosassone ci insegna a definire “voice over”, o “speakeraggio”, a seconda della tecnica o delle finalità. In questo film, il ricorso a tale tipo di descrizione, o di commento a quanto (non) succede sullo schermo, avrebbe dovuto aiutare certi collegamenti del montaggio tra palesi discontinuità che finiscono per appesantire il ritmo narrativo, tipo quell’altrimenti apparente repentino passaggio di Santo/Scamarcio, ormai arricchito, dalla strada dove s’era fatto le ossa, alla malavita degli affari altolocati, un passaggio sottolineato dalle note di “Malamore” di Enzo Carella (nella cover di Riccardo Sinigallia).
“Dì che mi amerai di colpo o corruzione”
È a questo punto che l’impressione che se ne ricava rasenta quasi il cambio di “genere”: da crime story a dark comedy, visto che del protagonismo se ne impossessa la figura della moglie (Sara Serraiocco), tanto da far restare nell’ombra quella dell’amante, di cui non si ha modo di captare il fascino. - Marie-Ange Casta pare non possedere infatti che il solo merito d’essere sorella minore di Laetitia. - L’invaghimento non segue le imperscrutabili leggi della passione, forse neppure dell’attrattività straniera, bensì quelle del tedio e della svogliatezza. “Dì che mi amerai di colpo o corruzione … tu che bene mi amerai di malamore”.
È questo un punto di debolezza della sceneggiatura, nella prima parte spadroneggiata con maggior scioltezza. L’altro è di tipo lessicale, per la conflittuale sproporzione tra dialetti. Passi quel "Uè testina"", nel prologo ambientato a ridosso degli anni ‘90, o il «Ça va sans dire», scambiato ignorantemente per una marca di vino suggerita dalla modella portata a cena in un locale elegante, ma, già nel 1967, quando s’è appena trasferito a Buccinasco, la risposta al macellaio: «Va a dà via i ciap cun vèrt l'umbrela!» è fin troppo precoce per qualsiasi immigrato reggino. O ci troviamo di fronte a una sorta di spugna linguistica, ed ecolalica in differita, con intenti imitativi e di mimesi ambientale, o di qualche battuta di scherno da parte di un mariuolo alla ricerca di svolte picaresche. Il contrasto tra la stazza e il soprannome di “slim”, smilzo, oppure l’invito ad affrettarsi da parte del socio baffuto che, mentre mastica chewing gum, sollecita maggior rapidità con un «Dai che facciamo tardi alla messa!», potrebbero rientrare pure in un qualsiasi slang.
Non d’un vero e proprio “sgarro” dev’essersi trattato, ma d’una meno grave “trascuranza”, se il padre di Santo, da semplice “picciotto” pecoraio, non è stato punito con la morte ma con l’esilio. Ed è in questa “debolezza”, costituzionale, dell’autorità paterna e, normativo-giurisprudenziale, di quella preposta al giudizio sugli errori degli affiliati alla criminalità organizzata che s’inserisce il comportamento del figlio, il quale, per un nonnulla, finisce in riformatorio, dove deve imparare a farsi rispettare per difendersi. La trama si snoda in ripetuti flashback, che ne contrassegnano la carriera delinquenziale nel periodo degli anni di piombo, già esplorato da Renato De Maria, con “La prima linea” (2009, liberamente ispirato al libro “Miccia corta” di Sergio Segio), protagonista sempre Scamarcio, il quale finisce per assumersi, nel film, la totalità degli errori e delle responsabilità, da spalmare invece, secondo la critica molto polemica del militante extraparlamentare, assai più oculatamente nella realtà circostante. Anche in quella pellicola era stata notata qualche incongruenza glottologica, e una poco curata ambientazione, relativamente in specie al parco macchine, definibile più da mostra d’auto d'epoca.
Far soldi con le rapine, ne “Lo spietato”, non trova però alcuna motivazione ideologica, se non una specie di accreditamento agli occhi dell’onorata società che potrebbe guardarlo come “contrasto onorato” pronto a entrare presto a farne parte. Ma questo significa ancora accettare un ruolo subordinato ed eventualmente subire ulteriori umiliazioni alle quali semmai si potrà reagire a tempo debito. Una tale potenzialità gli offre l’opportunità di mantenere l’apparente normalità di imprenditore edile, almeno fin quando non verrà arrestato una seconda volta. Poi le cose si complicano, in quanto la mancata osservanza di strutture gerarchiche rigorosissime nessuno è mai disposto a tollerarla.
“A modo mio, avrei bisogno di «sregolatezze» anch’io…”
La fosca epopea del ragazzo calabrese, sbarcato con le valigie di cartone, per “studiare” all’Università (della vita) di Buccinasco, inizia dunque con dei primi furtarelli e il carcere minorile, trampolino di lancio da cui intraprendere decisamente la via della criminalità. E, anche se il passaggio dalla scuola di strada alla malavita degli affari sembra poco chiaro, evidente e netta appare la dottrina che la giustifica: “La mia filosofia era sempre stata questa. Non fare mai niente per niente.” (Santo Russo), o «Nella Milano dei manager ho scelto di essere manager a modo mio» (Saverio Morabito).
Le giustificazioni psico-sociologiche che si rifanno all’emarginazione e alla voglia di riscatto sociale vengono decisamente sconfitte dallo sfrenato desiderio d’arricchimento e da una solida genealogia di famiglia (si è 'ndranghetisti, non lo si diventa, per diritto di sangue: il cosiddetto “giovane d’onore”). L’antieroe vive le sue prerogative d’onnipotenza e di piaceri smodati in barba ai sensi di colpa, perché lombrosianamente in quella “razza” c’è, a suo modo, del “genio” e della sregolatezza (il Désordre et génie di Dumas padre, o d’Emmanuel Théaulon?), non tanto della fragilità emotiva.
Da quale parte dello schermo c'è sempre un lieto fine?
Nella Milano del boom, come in quella degli yuppies, non manca in assoluto la romantica tristezza di “Carlito's Way” (1993) o di “Scarface” (1983), entrambi diretti da Brian De Palma, il primo ispirato alle novelle di Edwin Torres, il secondo all’omonima pulp fiction di Armitage Trail, portata sullo schermo da Howard Hawks già nel ’32. “Il mondo intorno a noi non esisteva/ Per la felicità che tu mi davi…” è la melodia più volte ripresa.
Dove s’intravede del dolore a inceppare un meccanismo ben oleato dall’implacabile destino costruito pur sempre con le proprie mani? Nello sguardo annoiato e privo d’empatica tensione, che pianifica gli omicidi senza il bisogno di giustificarli, neppure catalogandoli tra gli accadimenti inevitabili, quali effetti collaterali?
Nell’identificazione fattuale tra aggressione erotica, da consumare legittimamente e con gusto, e violenza gratuita, nient’affatto necessaria, da commettere senza senso, dove potrebbe trovarsi la differenza, se non in una maggiore o minore appropriatezza di movimento e gestualità?
Forse è questa la contraddizione tra l’onirismo filmico e la percezione del proprio vissuto, quella di volersi appropriare d’una qualche (s-)fortuna e d’un annesso lieto (?) fine che difficilmente ci potrebbe appartenere, come anche no.