Se esistesse la gerarchia dei risucchi, la musica sarebbe al primo posto.
Evocativa per natura, più che l’arte dei suoni, potrebbe definirsi l’arte del ricordo.
Perché ricordare senza rimpiangere è un’arte.
Un’arte indispensabile per sopravvivere alla tenerezza struggente del tempo che non ritorna.
Penso sia accaduto a tutti evocare fatti, persone, amori e dolori mentre scorrevano le note di questo o quell’altro brano.
Prima in radio, poi sul vinile, incipit frusciante compreso, dopodiché sugli iPod e infine sullo smartphone.
Ma anche per strada, in tv, in auto.
La musica impertinente si incunea nelle nostre vite e risucchia volti e fatti.
Immaginate poi, quando con marzo inizia la primavera meteorologica, che poi non ho mai capito che significhi, e ricorre la morte di Lucio Dalla.
Il casino emozionale è più che assicurato.
La prima volta che lo vidi era Sanremo.
Credo, ma non ne sono certo, correva l’anno 1968. E correva veloce, quell’anno. La gente si riempiva le case di elettrodomestici, frigoriferi rumorosi, radio gracchianti, cucine componibili a colmare pareti intere del luogo dove si viveva.
Erano i tempi aberranti che vedevano ancora la donna in cucina e l’uomo con la clava procacciare il cibo.
Ma cominciavano, per fortuna, i tempi medioevali ad essere attaccati dalla rivolta, dall’esistenza gridata in piazza.
Accadde ovunque, ma altrove.
Furono gli anni che prepararono il terreno alle buone leggi, di civiltà e democrazia, che vennero alcuni anni dopo. Se ne scrivo adesso, finisce che dimentichiamo Lucio, e non è giusto.
Un’altra volta. C’è ancora un po’ di tempo.
E poi, tra forni e giradischi, c’era la TV.
Rigorosamente in bianco e nero, ad indovinare i colori tra le sfumature di grigio che allora erano soltanto un esercizio cromatico.
Mica un prurito letterario.
Fu una sera sul divano, con la famiglia riunita di fronte al Festival di Sanremo, che lo vidi per la prima volta.
Piccolo, nero e peloso, cantava di marzo e di Gesù Bambino.
Fu subito scandalo, a casa mia. Non nominare il nome di Dio invano.
Ma un altro dio lo può fare, eccome se lo può fare.
Immagazzinai dentro quel pezzo, senza sentirlo più. La radio non lo passava. La TV ancora meno.
Ma quell’uomo strano che cantava della gente del porto mi rimaneva dentro. Nascosto.
Gli esseri umani sono strani. Dentro viaggiano ad una velocità molto diversa da ciò che esprimono fuori.
Si è ribelli tra l’intestino e il cuore, e si indossa l’abito buono della domenica, fuori.
Fin quando, un giorno qualsiasi, si diventa sé stessi.
E Lucio una mano a diventare sé stessi l’ha data a tanti conformisti della domenica. Me compreso.
Lo ritrovai in una musicassetta, qualche anno dopo.
All’età transitoria degli ormoni.
Le ricordate le musicassette? Quel piccolo rettangolo con il filo marrone dentro, ed una Bic accanto per riavvolgerlo, quando dopo estenuanti ascolti, come un serpente ribelle, si snodava verso l’esterno.
Stavolta Lucio cantava di santi che non pagano il pranzo, ma anche di una piazza grande dove chiedeva amore e carezze.
Camminando la sera, per il vecchio paese, mi sembrava di vederla.
La piazza grande.
Il problema è che la vedo ancora.
Lucio piano piano si faceva strada nella mia vita. L’accompagnava insieme alla cinghietta di gomma che teneva insieme il Rocci con il Villari, e qualche quaderno dove di straforo scrivevo stranezze.
Tra la Divina Commedia e le declinazioni di latino, perse per sempre nella foschia delle piccole cose.
Ed arrivammo, finalmente, al cielo che era un bigliardo.
E la luna una palla.
Chi non desiderava essere Marco? Chi non sperava stare accanto ad Anna che voleva morire?
Tra noi giovani sessantenni, nessuno.
Eravamo tutti Marco con le grosse scarpe.
Quest’uomo barbuto, col cappello di lana e canottiera, sudatissimo sotto la pelliccia, ad un certo punto, osò altro.
Molto altro.
Si stese sul divano, dopo aver fatto le scale tre alla volta.
E si fermò a guardare una stella.
Onanismo dissacrante in tempi ancora perbenisti, ingessati. Formali.
Lo cantavamo in spiaggia, sul Viale, scorazzando dentro i primi catorci di sesta mano che con mille lire di benzina ti consentivano di girare per il Corso Garibaldi un paio di volte.
Non di più.
E la vita, passando, lasciava sul terreno amori immaginati e piccole infelicità.
Lucio Dalla se ne andò all’improvviso un mattino di nove anni fa, all’inizio di un nuovo giorno.
Il giorno, quando inizia, ti mette davanti già dalle prime ore un quotidiano progetto. Ai grandi, come ai piccoli.
Si è uniti e uguali, quando inizia il giorno.
Non ci feci caso alla sua morte.
Gli artisti non muoiono mai perché hanno dentro semi eterni.
La musica, le parole.
Posseggono uno zaino dove mettono al riparo le emozioni di chi li ascolta, di chi li legge. E con queste costruiscono cose nuove.
Lucio ci lascia, ogni primo giorno di marzo, e per tutti gli anni che verranno, i nostri sogni pallidi e stanchi.
Apre lo zaino e tira fuori un treno.
È il treno della notte dove ci aspetta, seduta in seconda carrozza, la felicità.