È tornata la nuova stagione del più dissacrante show di cabaret della televisione italiana. Zelig pensereste voi? No, Fuori dal coro, programma del martedì sera in onda sulle reti Mediaset, precisamente Rete 4, condotto dal poliedrico presentatore Mario Giordano.
In realtà Mario Giordano e Fuori dal coro sono tutt’altro, il primo è giornalista, il secondo un talk di approfondimento politico. Tuttavia, l’esordio dell’altra sera ha fatto scaturire negli spettatori che facevano zapping col telecomando un dubbio profondo, dato lo scenario che si sono trovati davanti ai teleschermi.
Il suddetto Mario Giordano disteso su un banco a rotelle, in volata per tutto lo studio, denunciandone la presunta inutilità con un tono urlante e un comportamento ai limiti dell’infantilismo. Il conduttore si è fisicamente scontrato con alcuni figuranti, meschini loro, i quali non si aspettavano di subirne l’impeto, mentre lo stesso sbraitava all’indirizzo del regista, il celeberrimo Donato, la nenia seguente: “I banchi a rotelle, Donatooooooo, i banchi a rotelle. Ma servono a fare gli autoscontri”?
Al di là della facoltà di critica, indubitabile, al Governo o a chiunque fosse rivolto quell’ingresso, è lo stile che confligge col ruolo espletato da Giordano.
Un giornalista che, in prima serata, ci ha da sempre abituato a entrate “scenografiche” (si ricordi la polemica contro Halloween e il bonus monopattino, stigmatizzato col medesimo modus operandi), così “originali” da risultare fuori luogo. Lo stile della narrazione di Giordano, volto a colpire più che il senno la pancia del pubblico, è rappresentazione icastica del depauperamento che ha coinvolto, nostro malgrado, anche il giornalismo.
Un genere di informazione priva della complessità, banalizzata e in quanto tale soggetta a possibili inesattezze.
Un genere di giornalismo che trascende dal giornalismo stesso, che lo mortifica, che lo svilisce. La parola, il confronto sostituito dallo strepito, dallo sfottò, dalla camera che inquadra il volto del giornalista che si strugge, si dispera, cercando di emulare sgraziatamente l’inarrivabile Gianfranco Funari, e insieme si spoglia del proprio dovere sociale. Il dovere di accompagnare, di porsi da guida, di discernere e analizzare scientemente, con rigore se, in tal caso, i banchi siano stati un investimento giudizioso o meno. La scena un po’ bambinesca del pilota Giordano in rotta di collisione, contro tutti e tutto, è purtroppo un oltraggio a quei cittadini e a quei giornalisti che onorano la ricerca della verità. È triste rimuginare su cosa siamo diventati, su come ci siamo ridotti. Nei mesi scorsi abbiamo perso due colonne portanti della storia del giornalismo italiano, Sergio Zavoli e Arrigo Levi. Due Signori, di immensa professionalità e morigeratezza, i quali hanno profuso un impegno incommensurabile per fare un’informazione di qualità, una qualità ad oggi trascurata dalla necessità preminente di imporsi nell’audience.
“Si è perso il contatto con noi stessi: non indugiamo più su noi stessi. E questo dipende molto dalla velocità della comunicazione, che non ci mette più in condizioni di indugiare su nulla”.
Non indugiamo più su nulla, sosteneva Zavoli, sopraffatti dalla frenesia del consenso esasperato, dalla esacerbazione mal dissimulata, dal sospetto costante che miete un’unica vittima: noi stessi, la nostra coscienza, la nostra consapevolezza.
Una società con un’informazione superficiale è essa stessa superficiale.
Sarebbe ora di mettercelo bene in testa.