In determinate circostanze calendariali (2 novembre, Natale, Epifania), per Lombardi-Satriani e Meligrana, autori de “Il Ponte di San Giacomo”, i morti svolgono un ruolo “pedagogico” sovrapponibile a quello di babbo Natale e della Befana, anzi, potrebbe sostenersi probabilmente a maggior ragione proprio il contrario, in quanto sia la Befana, sia Santa Claus, San Nicola, e persino il San Martino che chiude il dodekaemeron autunnale, impersonano appunto in figure uniche l’insieme dell’orda degli antenati.
“La conformità del comportamento infantile alle norme sociali vigenti è oggetto di giudizi nei termini di bontà e di cattiveria e conseguentemente è assoggettata ad un meccanismo di premi e punizioni che ponendosi come sanzione mitica, definisce il passato e orienta il futuro. La funzione dei morti quali garanti della continuità culturale e il processo di familiarizzazione della morte trovano nella festa del 2 novembre uno spazio pedagogico decisivo.”
Essere o non essere
“Nella percezione folklorica, - analizzano Lombardi-Satriani e Meligrana ne “Il Ponte di San Giacomo”- la prossimità del bambino alla nascita comporta con la precarietà una maggiore vicinanza ed esposizione al rischio radicale di non esserci. Non ancora compiutamente essere, il bambino può smarrire, più di qualsiasi altro, il suo esserci. In questa prospettiva la nascita appare come emersione da quella zona indistinta da cui si dipartono vita e morte, dimensione precategoriale che fonda la categorialità della vita e della morte”.
Ricorrenze manistiche
La negazione della visibilità si traduce in una presenza vicaria di chi manca. All’invisibilità fisica del morto si fa corrispondere l’invisibilità sociale del mendicante, oppure l’anonimato ovvero la conformità della maschera.
Anche le questue rituali, o meglio l’insieme di richiesta-offerta-dono, pertanto, riguardano specialmente quei momenti riconoscibili quali spartiacque stagionali, o ricorrenze manistiche, ovvero antichi capodanni, quali si possono riconoscere nel Natale, primo gennaio, Epifania, giorno di Sant’Antonio Abate, Carnevale, Quaresima, l’antico, pagano (e perciò dimenticato) Calendimarzo, Pasqua, Calendimaggio, San Giovanni d’estate, vigilia d’Ognissanti, giorno dei morti, San Martino.
Computi calendariali
L’anno può essere misurato secondo due fondamentali computi calendariali: quello riferibile al moto solare e quello relativo alla rivoluzione lunare, tra i quali però rimane sempre una differenza precisa di dodici giorni (dodekaemeron), i quali in fondo costituiscono proprio quel “tempo fuori dal tempo”, tipico d’ogni periodo festivo, del carnevale come del lasso che va dalla vigilia d’Ognissanti a San Martino, o da Natale all’Epifania.
Tra di essi poi, una tradizionale “quarantena” scandiva le date più importanti delle ricorrenze principali, in particolare la cosiddetta Quaresima maggiore e la Quaresima minore.
Nel suo antico calendario liturgico, la chiesa gallicana prevedeva due quaresime, una detta “maggiore”, innanzi Pasqua, evento legato all’equinozio di primavera che dà termine al carnevale, l’altra detta “minore”, precedente il Natale e successiva al giorno di San Martino, analogo al martedì grasso al quale fanno seguito le ceneri, ed accadimento riconducibile all’avvento del solstizio d’inverno.
I giorni di passaggio da un ciclo all’altro non possiedono appartenenza definita e si collocano al di fuori del normale scorrere di quelle settimane, le une uguali alle altre. I giorni di passaggio divengono un periodo intermedio, codificato così per quello che potrebbe risultare quasi un approccio controllato al mondo ultraterreno. Un tale momento di passaggio è in grado di frenare le minacce di distruzione irrelate all’ignoto, all’unheimlich, ed, offrendo protezione ai bisognosi, si propone in maniera appariscente come festa per eccellenza dei bambini, dei poveri, dei pellegrini, degli ignoti transitanti, e pertanto di tutti gli assenti.
“La cultura folklorica ha elaborato una strategia di delimitazione temporale dell’apparizione dei morti. – hanno osservato acutamente Lombardi-Satriani e Meligrana nel loro “Il Ponte di San Giacomo” - Come lo spazio, anche il tempo è minacciato dalla presenza diffusa degli spiriti; prevedere per la loro possibile apparizione un tempo definito si pone come tentativo di disciplinare la fenomenologia altrimenti ben più caotica delle apparizioni e si inserisce, quale tecnica specifica, nel lavorio di difesa della vita superstite. Il tempo, depurato dalla contagiosità della morte e del suo potere radicalmente corrosivo, può divenire tempo ritrovato”.
“I becchi vanno alla fiera”
E così per San Martino “i becchi” vanno alla fiera e vi sono condotti con strepitio, fracasso e ovviamente con clangore di corni. E chi avesse avuto la moglie più bella sarebbe stato indubbiamente scelto quale capo del branco.
Il sogno delle corna di Panurge
Nel Gargantua di Rabelais, Pantagruel interpreta un sogno in cui Panurge ha al suo fianco una moglie piena di garbo, giovane e bella, che lo vezzeggia e gli corona il capo con delle corna fino a saldargliele sulla fronte, ed in cui, subito dopo, la coppia si trasforma in un tamburo ed una civetta. Pantagruel gli preannuncia l’infedeltà di una consorte fedifraga che si comporta come una vera “civetta” ed una ladra, mentre il defraudato marito-tamburo sarà “cornuto e bastonato”, e, come si suol dire, vedrà aggiungere al danno pure la beffa.
Panurge si illude di essere, oltre che protagonista, anche sceneggiatore e regista di ciò che gli è apparso, e, rivendicando la padronanza della scena, non accetta di subire ciò che la notte gli ha rivelato. Il suo tentativo di attribuire un senso a quanto probabilmente gli appare insensato, o semplicemente non accettabile, e non decoroso, rivela la complessa problematicità che si intrattiene, volenti o nolenti, con se stessi. Cosicché, invece di esaminare la nuda immagine dei sogni, di osservarne forma e composizione, Panurge si sforza di captarne supposti messaggi reconditi mediati da fantasiose simbologie.
Lo scatapocchio del satiro
Ribaltando l’interpretazione di Pantagruel, ne propone, in maniera altrettanto credibile e facendo ricorso alle medesime analogie, un’altra che si colloca esattamente agli estremi opposti: il matrimonio sarà fecondo perché arricchito dalla cornucopia. Al corno dell’abbondanza si accompagnerà quello del caprone, in guisa di instancabile “scatapocchio” da satiro. Il tamburo rimanda alla festa ed all’allegria, e la civetta alle grazie della fedeltà, dell’armonia e della fortuna domestiche.
Il sogno epifenomeno
L’importante contenuto simbolico dei sogni ha sempre rischiato di indurre pesanti fraintendimenti, a seconda che vengano interpretati alla lettera oppure confusi con fantasie della mente disinibita. Senza contare, poi, che potrebbero semplicemente costituire una sorta di epifenomeno privo di specifico significato della necessaria riorganizzazione dei processi di apprendimento.
Tutto può venire capovolto dall’equilibrio del contrappeso. E con buona pace di tutta una complicata oniromanzia, da Artemidoro a Freud, Rabelais sembra aver messo ogni cosa al suo posto, una volta per tutte, a proposito della natura aleatoria e sfuggente dei sogni e della loro perentoria invadenza sul palcoscenico di una psiche fin troppo fragile e pronta ad accoglierli alla stregua di rivelazioni, anziché accettarli per quello che sono, fascinose espressioni di un’inattendibile ambiguità.
“Corne ‘e sore, corne r’oro; corne ‘e marito, corne sapurite; corne ‘e frate, corne ‘ngrate; corne ‘e mugliere, corne vere!”
Ma al charivari, riservato ai mariti traditi, si aggiunge, a volte, un qualcosa di inquietante, più simile alla “caccia selvaggia” di Nastagio degli Onesti. Le vittime di adulterio vengono “condannate” ad affrontare “fughe” e duelli notturni, in cui son costretti a sdoppiarsi, alla stessa stregua dei “benandanti” di Ginzburg. Per lo più nelle sedi preferite dalle streghe, le loro “ombre” ingaggiano battagliere tenzoni utili a rendere fertili i campi.
“… Ciò fa pensare ad un bagaglio mitico dalle radici affondanti in un remotissimo passato e strettamente legato a un contesto manistico-agrario che trova nel dodekaemeron novembrino deputato al ritorno dei morti e a una particolare apertura spazio-temporale, un momento suggestivo e privilegiato” deducono gli autori (Baldini E. e Bellosi G.) di “Halloween: nei giorni che i morti ritornano”.
Corvus monedula
Quella dei defunti, e degli “assenti” alla sessualità coniugale, come i cornuti, viene descritta quasi un viaggio senza meta, o un pellegrinaggio ai luoghi familiari, oppure una processione di cornacchie e, come tutti i corvidi, la taccola, o cornacchia (corvus monedula), contiene una certa qual ambiguità simbolica, insieme negativa e positiva, tenebrosa e solare, a volte messaggera del divino, altre volte manifestazione demoniaca e annunciatrice di disgrazie.
“Corne ‘e sore e corne ‘e frate, Simme tutte ‘ncorneciate”.
Per San Martino, se i fidanzati si scambiano doni, i giovinastri non impegnati affettivamente provocano gran baccano, ma dato il ricorso al vino novello, si può parlare più propriamente di “baccanale”, che finisce per trasformare la ricorrenza autunnale in un momento di aggregazione sociale, ma contemporaneamente di trasgressione liberatoria, durante la quale, con la complicità di Bacco, si assiste al rituale di passaggio degli adolescenti alla cerchia degli adulti. Si lascia la fanciullezza bevendo il primo bicchiere e si organizzano scherzi a cornuti e beoni, o forse meglio a mariti traditi che bevono per dimenticare.
Parentele simboliche
Come nel giorno di San Giovanni d’estate, si possono formulare parentele simboliche, come quelle che scaturiscono da cerimonie iniziatiche (battesimo, cresima…).
A proposito del privilegio riconosciuto a compari e comari, Lombardi-Satriani e Meligrana scrivono: “Si rompe la irreversibilità della linea biologica e si recupera, attraverso un ciclo culturale, una dimensione simbolica, che supera la disgiunzione morti vivi e istituisce figure simboliche, che sono al di là dell’opposizione vita-morte e ne interpretano, parenti iniziatici, l’equilibrio simbolico”.
“Le figure biologiche della filiazione”, per Baudrillard, si risolvono, mediante il procedimento iniziatico, nella figura simbolica del socius, sostituto dell’antenato, o rappresentante totemico di tutti i membri del clan.
Peperoncino afrodisiaco
A molti santi si associa, nel mito, una fanciulla tentata da un demonio, oppure, con modalità equivalenti, che sta per essere divorata da un mostro, ma sarebbe la stessa cosa se fosse stuprata da un orco.
Per San Martino, alla vuota zucca, oltre ai consueti intagli con dei fori per naso, bocca ed occhi, si aggiungono due corni, oppure, rimanendo in tema alimentare, due peperoncini, per decorarne la fronte; con i licenziosi riferimenti all’infedeltà coniugale, schiamazzi e scherni, si esibiscono così impliciti o espliciti feticci fallici.
Cucurbitatio
Una zucca adornata con le corna è sicuramente ben augurante, rappresentando abbondanza vegetale e quindi fertilità della madre terra. L’eccesso di sessualità femminile, con la propensione all’adulterio, viene perciò celebrata con una grottesca cucurbitatio, annotava Monaco in “Capetièmpe”.
Morta cazzute
La zucca-teschio-morte si riconnette alle manifestazioni vitali attraverso delle corna falliche, e, nel caso dei peperoncini, anche afrodisiache; cosicché l’oscenità dell’espressione dialettale “morte cazzusa”, o “morta cazzute”, nella sua struttura ossimorica, rende efficacemente l’intima connessione esistente a livello anagogico tra gli antipodi.
Nella complessità del suo simbolismo, la zucca è un intero mondo, intermedio tra quello terreno e l’altro, sotterraneo ed occulto. Sia pur parodistica, l’immagine della zucca con le corna è solidale con la gravidanza di una “comare secca” che si ingrossa e diviene tonda, con la figura di una “morte gravida", che, proprio attraverso la sua trasformazione distruttiva, ridona la vita.
Gastrosofia cannibalica
Per reincorporare in seno alla famiglia la memoria degli antenati si fa ricorso a una specie di “gastrosofia” teologica che tende ad assumere “cannibalicamente” nel ventre dei discendenti quanto era simbolicamente destinato ai defunti, al fine di continuarne l’operatività, a dispetto di quell’immaturo, improvviso decesso che l’ha interrotta.
La valenza simbolica di “principio riproduttivo” della “pupa” di zucchero sembra essere la più arcaica, soprattutto per quel suo profilo femminile enfatizzato dal grembo rigonfio o da una “cornucopia” di uova e di frutta.
Alimentarsi del cibo preferito ai cari estinti diviene così una maniera simpatetica per entrare in contatto con essi, acquisendone le virtù più palesi; mangiare i piatti che la consuetudine ha loro reso graditi, o quelli a loro destinati, significa quindi nutrirsi della loro stessa forza e volontà.
Le zucche di Priapo
Da alimenti, le zucche divennero le personificazioni di quanto si deve esorcizzare, fino ad assumere il definitivo loro ruolo apotropaico. Le zucche rappresentano i morti, e non solo, poiché si caricano di tutti quei simbolismi insiti alle dimensioni mondane ed insieme sotterranee. Le loro varie forme le avvicinano, quando al fallo, quando al grembo materno gravido, quando agli astri, al sole, alla luna, che, obbedendo alla ciclicità della scomparsa e poi ricomparsa, marcano indelebilmente i tempi della vita, costituendone comunque tacita promessa di prosecuzione.
Le zucche hanno così acquistato una particolarissima valenza mitico-rituale autunnale, inserendosi in quella dinamica della rinascita assicurata dalla morte, attraverso la fertilità. Ed il “custode delle zucche” non poteva, per eccellenza, che essere il dio itifallico della forza generativa maschile, quel Priapo, a cui per primo si rivolge la speranza dell’agricoltore.
Compensazione
L’esperienza del sacrilegio riferibile a un mestiere, assieme all’atto di immettere in natura un contributo a essa estraneo, e operativamente orientato a fini utilitaristici, di speculazione, esige una qualche compensazione, una espiazione di tale violazione quale “contrappeso” pertinente all’elemento, terra o acqua che sia, da compiere obbligatoriamente su di un piano metastorico, quello del mito.
Nei gruppi etnici il cui sistema di vita dipende da un’attività sul mare è più vivida la credenza nelle improvvise burrasche misteriosamente provocate dagli spiriti, nel battello degli annegati che compare repentinamente all’orizzonte ed altrettanto repentinamente si dilegua, nella barca di Caronte, nel vascello fantasma.
Onde infuriate da una inspiegabile tempesta vengono solcate da una barca senza meta, grave nel procedere perché carica di scheletri, preannunciante una pesca miracolosa, ma di sole ossa.
Aspirando ad una rinascita, i morti si sentono attratti dal mistero della palingenesi, della vita che si riproduce moltiplicandosi in una fertilità indefessa. Poiché non aspettano altro che ritornare, reintegrarsi sotto nuova forma, con maggior vigore, i defunti sono come lo sperma della fecondità domestica, come i semi in agricoltura.
“Vediam che i vegetali dalla terra prodotti,/ per la putrefazione, sono in terra ridotti./ Quei che di tal tragitto hanno compreso il viaggio/ così come del grano han cura del foraggio,/ che putrefatta paglia in grasso convertita/ si riunisce alla terra e le dona la vita”, insegna un antico testo alchemico.
L’eterno ritorno
Rivelando l’unità fondamentale della vita organica, l’insegnamento della cultura dei campi ha rappresentato forse una delle lezioni più decisive per il progresso intellettivo e spirituale dell’intera umanità, ed in particolare per la sua specifica vocazione religiosa.
L’analogia tra semina e rigenerazione ha procurato l’illuminante rivelazione iniziatica di ciò che Mircea Eliade ha chiamato il ciclo dell’eterno ritorno.
La macina della fortuna-la ruota della vita
In determinate attività, come in quella del mugnaio, espletata in luoghi densi di ricche quanto equivoche simbologie, quale può essere il mulino, con quella ruota che dona vita e cibo, ed insieme frantumazione ai cereali e trasformazione in farina, le opposte dualità si sommano e si confondono; positivo e negativo, sacro e demoniaco, assolvibile e punibile si intersecano, in quanto se una cosa come il macinare è necessaria all’alimentazione, tale funzione comporta ugualmente un sacrilegio, il sacrilegio della distruzione e conseguente consumazione dei semi che altrimenti avrebbero potuto riprodursi, riformularsi nel futuro con più fresche e vitali modalità vegetative.
Il rapporto simbolico tra l’atto di macinare ed il mestiere di mugnaio, da un lato, miti e cicli cosmici, dall’altro, sono stati approfonditi da Giorgio de Santillana ed Hertha von Dechend nel voluminoso saggio dal titolo: “Il mulino di Amleto”.
Banshee
Le “lavandaie”, nelle loro manifestazioni di paurosi fantasmi, durante le notti di tregenda, non sbatacchiano certo la comune biancheria, bensì cadaveri di bambini. Che siano spiriti di donne morte di parto o di ostetriche che aiutano le puerpere, o meglio di mammane che procurano aborti, la lavandaia presente nel folklore del nord-est, o l’irlandese o scozzese Banshee, è una delle più inquietanti personificazioni della morte.
Halloween
Ma il tabù per il mestiere del mugnaio e la macina del mulino risponde alla proibizione dettata dal rispetto, nella cultura agraria, per tanta forza germinativa impedita.
Per gli autori (Eraldo Baldini e Giuseppe Bellosi) di “Halloween: nei giorni che i morti ritornano” (Einaudi, Torino, 2006), ciò avverrebbe “in parallelo alla celebrazione dei defunti, custodi di questa energia, di questa potenzialità che li coinvolge in una sacrale dinamica di eterno ritorno”.
Asarotos oikos
Propp ci ricorda che i morti, obbligando i campi a fruttificare o a trattenere le loro forze, sono in grado di inviare dalle viscere della terra, dove abitano abitualmente, un buon raccolto oppure una carestia.
Per generare, i semi han bisogno di trascorrere un certo periodo sotterra, nelle oscurità infere, dove riposano insieme con i demoni più terrifici, le divinità più oscure, le generiche potenze della fertilità, le anime degli avi e degli antenati, i quali tutti, in un determinato periodo ciclico di ricominciamento dell’eterno ritorno, ricompaiono per esercitare la loro forza con maggiore intensità, in specie se evocati da appositi riti, come quello di lasciar loro qualcosa di cui nutrirsi, non spazzando ad esempio il pavimento nei dì di festa: asarotos oikos.
Dodekaemeron
Nel dodekaemeron autunnale, oppure ottavario novembrino dei defunti, le stanze non si spazzavano dopo l’imbrunire, nel timore che i trapassati possano ritenersi indesiderati.
Quale offerta simbolica, o per trarne divinazioni con modalità aleatoria, nella notte di vigilia di Ognissanti, ancora oggi, vige la consuetudine di gettare gli avanzi, in particolare le bucce della frutta, sotto i tavoli, in assoluta controtendenza all’atavica regola agraria “della fame” che invita a masticare ed ingoiare tutto, come saggiamente propose a Pinocchio il Grillo parlante.
La notte che precede Ognissanti (Halloween) i morti lasciano temporaneamente le loro tombe per ritornare a raccogliersi attorno al focolare domestico, anche forse per vaticinare l’avvenire dei congiunti. Perché le previsioni sul buon andamento delle relazioni coniugali, ad esempio, sono di grande importanza per il regolare sviluppo e l’ordinato mantenimento della vita associativa.
In questa particolare circostanza non bisogna spazzare la camera di questa loro misteriosa riunione onde non danneggiare con la scopa le giuste predizioni sul futuro, un futuro che rimane comunque totalmente sconosciuto ai mortali.
Orgia
Ai trapassati dev’essere consentito di saziare la loro essenziale vacuità con la forza vitale dell’orgia. Cosicché i resti del pasto, come gli eccessi dei dì di festa, costituiscono una precisa modalità di un tale appagamento e, contemporaneamente, un momento cardine dell’intera economia di quanto riteniamo sacro, o forse meglio numinoso.
L’eccesso infrange tutte le barriere, consentendo all’energia di fluire, e permettendo il passaggio, da una dimensione ad un’altra, dei germi del futuro; ogni cosa si fonde nella grande matrice dell’universo; tutti i frammenti si integrano nell’unità ed il vuoto si riempie di sostanza.
Quella orgiastica è la principale modalità con cui si può, in un certo senso, fingere di immergersi nell’indeterminatezza, nei regni ultraterreni, inseguendo quella salda identità di questi con le più diverse espressioni della continuità della vita.
L’orgia, l’eccesso, il sesso, la cerimonia, il simbolo, il cibo, la maschera, il gioco, la beffa, il riso, lo schiamazzo… Il sacro si costruisce con tutti questi elementi, ritualizzandoli ed inscrivendoli nella più ampia strategia culturale della difesa, dell’esorcismo, della riaffermazione della carnalità nella trascendenza. Lo stesso cerimoniale festivo costituisce un momento ludico, oltre che di comunicazione, ed il gioco mantiene quel movimento perpetuo per cui tutto è possibile e tutto assume significato: l’erotismo, l’allusione, l’illusione…
Caccia selvaggia
Erotismo, sadismo, rituale funereo, riuniti in “caccia selvaggia”, fornirono a Boccaccio lo spunto per l’ottava novella della quinta giornata del Decameron, quella che racconta di Nastagio degli Onesti. Attraverso una lunga elaborazione, alla quale contribuirono indubitabilmente demonologi ed inquisitori, l’orgia si trasforma “letterariamente” fino ad assumere la definitiva fisionomia del sabba stregonesco, così come le schiere schiamazzanti dei trapassati che vagano dispersi nell’etere rientrarono nel mito più arcaico della caccia selvaggia capitanata da Perchta, Holda, Ecate, Diana, Wotan-Odino, Hallequin, personaggio demoniaco poi rielaborato nella maschera di Arlecchino, l’Artù del ciclo bretone, Dietrich von Bern, ovvero Teodorico (Beatrich), il re dei goti.
Danza macabra
L’atto quotidiano si eleva a funzione religiosa, a partenza dalla sfera alimentare e sessuale, sino a quella carnascialesca o linguistica. Insostituibile come esorcismo, il riso possiede un potenziale segnico eccezionale, una facoltà apotropaica propiziatoria di magica incubazione delle espressioni esistenziali, traducendole in manifestazioni comiche per ciò che riguarda la vita, oppure, come in una sorta di danza macabra, di parodia per quel che ha a che fare con la morte. Infatti, per trionfare sulla “comare secca”, la strategia dell’esorcismo ingloba un po’ di tutto, dal cibo alle libagioni, gli scherzi i pettegolezzi, le narrazioni amene, le allusioni erotiche, persino generiche eccitazioni ed intimi pruriti. Perché la difesa della vita deve vincere la “crisi” che il contesto funereo comporta, anche e soprattutto attraverso quelle forme semiotiche che, nel ribadire tale contesto, estremizzandolo, ne valorizzano l’opposto.
Riferimenti bibliografici:
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Baldini E. e Bellosi G.: “Halloween: nei giorni che i morti ritornano”, Einaudi, Torino, 2006
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de Santillana G. e von Dechend H.: “Il mulino di Amleto – Saggio sul mito e sulla struttura del tempo”, Adelphi, Milano, 1983
Eliade M.: “Trattato di storia delle religioni”, Boringhieri, Torino, 1976
Giallombardo F.: “La tavola l’altare la strada. Scenari del cibo in Sicilia”, Sellerio, Palermo, 2003
Ginzburg C.:”I benandanti. Stregoneria e culti agrari tra Cinquecento e Seicento”, Einaudi, Torino, 1966
Ierace G.M.S.: “La tradizione esoterica del presepe”, Calabria Sconosciuta, XXIII, 87, 15-18, luglio-settembre 2000
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Manciocco C. e L.: “Una casa senza porte”, Melusina, Roma, 1995
Monaco V.: “Capetièmpe. Capodanni arcaici in area peligna”, Sinapsi, Sulmona, 2004
Propp V. Ja.: “Edipo alla luce del folklore. Quattro studi di etnografia storico-strutturale”, Einaudi, Torino, 1975
de Nuisement (le Sieur): “Poème philosophique sur l’Azot des Philosophes” (Traduzione italiana di U. Soliani), Amenothes, Genova 1983