“Non vedrai altro film all’infuori di questo” (!?) – Verso una “nuova” cinefilia, - di “cinefagi” e “cinevori”-, di fronte all’imprevedibilità della “bruttezza” a cui si offre una seconda “chance”, quella di divenire “cult”.
«Un film, ça n’est pas si important, on n’a pas à passer des années dessus, ni à s’exciter sur le cadre ou la direction d’acteurs, qui sont deux choses qui ne me semblent plus avoir le moindre intérêt. N’importe qui peut faire un cadre et la direction d’acteurs c’est une blague. Les acteurs se dirigent eux-mêmes.» (Un film non è così importante, non bisogna passarci sopra degli anni, né entusiasmarsi per l'inquadratura o la direzione degli attori, che sono due cose che non mi sembrano più avere il minimo interesse. Chiunque può fare una cornice e dirigere gli attori è uno scherzo. Gli attori si dirigono da loro stessi)- da «Skorecki: entretien XXL», Les Inrockuptibles, 12 septembre 2007.
Il critico cinematografico francese Louis Skorecki l’«agonia» del Cinema (con la maiuscola) la fa iniziare nel momento in cui, dopo oltre tre decenni d’impegno filmico sul grande schermo (relativo ai lungometraggi), Alfred Hitchcock comincia a presentare sui canali televisivi americani la sua celebre “serie” di brevi gialli e thriller da 25 minuti ciascuno (cortometraggi), Alfred Hitchcock Presents (1955-62), poi ribattezzata The Alfred Hitchcock Hour (1962-5), allorquando la “durata” delle azioni drammatiche venne raddoppiata a poco meno d’un’ora (mediometraggi).
Hitchcock
Sul tema musicale della "Marche funèbre d'une marionnette" (Marcia funebre d’una marionetta) di Charles Gounod, la silhouette di Hitchcock dal bordo destro dello schermo si portava al suo centro, eclissando un disegno caricaturale del rotondo profilo del regista, disegnato da lui stesso. Dopo la sequenza dei titoli di testa, introduceva la storia da brivido in tono scherzoso, magari prendendo in giro lo sponsor, così da presentare brillantemente lo spot pubblicitario. Allo stesso modo chiudeva lo spettacolo, rassicurando il pubblico, in maniera poco convincente, tuttavia quale atto dovuto ("un gesto necessario verso la moralità"), che il destino, o le autorità preposte, avessero infine potuto consegnare il colpevole alla giustizia.
Northwest Passage
Poco più di trent’anni dopo, per il titolo alternativo dell'episodio pilota d’un format, che avrebbe avuto un peso enorme sulle produzioni televisive successive, venne scelto un, non sappiamo quanto inconsapevole, rimando all’hitchcockiano “North by Northwest” (1959) e, per via dell'ambientazione geografica, Northwest Passage. Il riferimento esplicito (NWP) riguardava la rotta marittima tra gli oceani Atlantico e Pacifico attraverso l'Artico, lungo la costa settentrionale del Nord America, attraverso i corsi d'acqua dell'arcipelago canadese (Canadian Internal Waters).
Twin Peaks
Lo straordinario successo di “Twin Peaks” fu tale da decretare, nella storia stessa del piccolo schermo, come una sorta di suddivisione tra un prima e un dopo gli inizi degli anni ’90. Il progetto venne sviluppato nell'intento di contaminare con il genere “poliziesco” quella “soap opera” dalle caratteristiche campy e melodrammatiche, allora molto in voga; ma fu poi inoltre permeato da un'inquietante atmosfera d’ambiguità e doppiezza, il cui stile eterogeneo sconfinava in quella specie di macedonia di horror e detective story, condita da una science fiction sovrastata dalla "dimensione sovrannaturale", rasente un surrealismo grottesco e il quasi kitsch spirituale, che andava oltre gli switching endings di The Twilight Zone (Roberto Manzocco, Twin Peaks. David Lynch e la filosofia. La loggia nera, la garmonbozia e altri enigmi metafisici, 2010).
The Twilight Zone
In quest’ultima serie, che andò in onda dal 1959 al ‘64, la visuale dello spettatore veniva, alla fine, ribaltata con un imprevisto capovolgimento della prospettiva “normale”, la quale rendeva credibile anche quell'impossibilità prodotta dall'incontro con l'«ignoto». Marcati temi di tipo fantapolitico, kafkiani od orwelliani, ha elargito pure The Prisoner, Il prigioniero interpretato, nel 1967, da Patrick McGoohan.
David Lynch
Eppure, a venire sottolineato, da David Lynch e Mark Frost, quale innovazione postmoderna nel medium televisivo, fu il ricorso ai canoni del cinema sperimentale di quel periodo, in cui, oltre alla molteplicità di stili e generi, predominavano la frammentazione narrativa e l’aleatorietà dei personaggi.
Soprattutto il collasso dei tradizionali confini categorici d’ogni etichettatura, nello sfidare le convenzioni con varie stranezze, e nel dimostrare il potenziale del piccolo schermo come mezzo veramente innovativo, in grado di produrre in futuro forme genuinamente nuove d’espressione culturale, finiva col produrre una sorta di straniamento cognitivo, potenzialmente rivoluzionario, dei preconcetti più radicati, eppure congeniale alla fase tardo consumistica di quel momento, - quasi a conferma della tesi del critico letterario e teorico politico statunitense Fredric Jameson, secondo cui il postmodernismo è un riflesso della logica culturale dell’ultimo capitalismo.
Peyton Place
Per compiere quest’ibridazione, gli autori trovarono ispirazione nelle sotto-trame di Peyton Place (tratto dal romanzo del 1956 di Grace Metalious, ambientato in una città immaginaria nel New England), in quei suoi intrighi di potere, turbolente relazioni amorose, ristrettezze degli spazi vitali. Mark Frost, co-autore delle prime dieci puntate, descrisse l'episodio pilota come «Velluto blu [Blue Velvet, il film diretto da David Lynch nel 1986] che incontra Peyton Place», la quale, come Lumberton (capoluogo della Contea di Robeson, nella Carolina del Nord) di Velluto blu, è una cittadina industriale, dove, sotto la patina della normalità, si nasconde un, altrimenti indefinibile, “male”.
“Who shot J.R.?”
La storia principale appare trainata da un mistero che ossessiona i personaggi quanto gli spettatori, secondo l’evoluzione narrativa del giallo deduttivo (whodunit, da "Who done it?", Chi l'ha fatto?), da cui: "Who killed Laura Palmer?" (Chi ha ucciso Laura Palmer?), alla stessa stregua del tormentone/ slogan pubblicitario (“Who shot J.R.?”, Chi ha sparato a J.R.?) adottato dieci anni prima, nel 1980, dalla rete americana CBS per promuovere la serie televisiva Dallas, oppure da quella commistione di romanzo giallo/concorso a premi dell’83, creato da Bill Adler e scritto da Thomas Chastain: “Who Killed the Robins Family?” (Chi ha ucciso la famiglia Robins?).
Invitation to Love
Peraltro, l'incursione intradiegetica di spezzoni d’una sorta di metatestuale "opera nell’opera" (Invitation to Love), seguita appassionatamente dagli abitanti di Twin Peaks, enfatizzava la convenzione del genere soap, con quelle strane ripetizioni di accadimenti che andavano riflettendosi all’interno dell’immaginario dell’una e dell’altra fiction. Per esempio (nell'episodio L'ultima sera), un personaggio (Leo Johnson) viene colpito da una pallottola mentre nell’inquadratura del televisore, posto di fronte a lui, contemporaneamente, viene trasmessa una scena simile. Non è chiaro se questa specie di “parodia” degli stereotipi del genere fosse stata concepita tale fin dall’inizio, e non fosse piuttosto, alla stessa stregua d’una delle due streghe buone del mondo di Oz (Glinda) in Wild at Heart (1990), una sorta di omaggio, nel caso specifico alla “serialità televisiva”.
Laura
Il nome “Laura” non sarebbe che un’altra citazione, stavolta del noir di Otto Preminger del 1944, ispirato all’omonimo bestseller di Vera Caspary. E un’altra Laura si ritrova nel romanzo di Wilkie Collins “The Woman in White” (1859), appartenente al genere letterario sensation novel, incentrato sulla somiglianza e sostituzione di persona, nonché stracolmo di colpi di scena e suspense.
Il lato oscuro di Twin Peaks ripercorre anche il tema hitchcockiano di Vertigo (1958), mentre del Sunset Boulevard (1950) di Billy Wilder richiama lo stravagante cinismo.
Un gusto rétro
Per Lynch sembra una vera e propria consuetudine tipizzante mantenere l'ambiguità delle atmosfere, e come in Twin Peaks così in Velluto blu, in specie in quell'assenza di chiarezza rispetto pure all'ambientazione temporale in cui si svolgono le vicende, confusa come si lascia in una dimensione sospesa, di gusto rétro, confermato soprattutto nelle scelte musicali, oltre che nei costumi e nelle scenografie d’un vintage anni cinquanta. Ma tale sensazione di malinconia, legata agli eventi passati, viene appesantita da un “anticipato” rimpianto per il presente, e da una “anticipatoria” nostalgia per qualcosa che non è nemmeno ancora accaduto, e tale da sconfinare nell’evanescenza della disintegrazione spaziotemporale di quel sentimento che i finnici definirebbero Kaukokaipuu.
Demarcazione tra cinema e tv
Sicuramente inusuale, rispetto agli ordinari programmi del palinsesto televisivo, il lavoro di Lynch viene considerato una "totale e libera espressione del suo genio", capace di "accendere inebrianti dibattiti sulla natura stessa della televisione", nonché sui limiti della medesima demarcazione rispetto al cinema, un dibattito ancor più acceso dalla presa di posizione dei prestigiosi Cahiers du cinéma, che, nelle proprie classifiche, arriva a proclamare “Twin Peaks - The Return” (2017) il film più bello dell’anno e del decennio, innescando un’ulteriore discussione sull'eventuale differenza artistica tra cinematografia e serie TV nell'era dello streaming.
Mulholland Drive
Anche l’indiscusso capolavoro Mulholland Drive (2001) era stato, in origine, concepito quale episodio pilota d’una potenziale serie televisiva; per cui fu lasciato terminare in un epilogo aperto, poi conclusosi allorquando il progetto televisivo seriale non venne accettato.
Risentendo, l’intero lungometraggio, d’un tale risultato d’insieme, metà pilota e metà film compiuto in sé, il significato degli eventi, unitamente al caratteristico stile del regista, sembra volutamente lasciato alla libera interpretazione degli spettatori, del pubblico in genere, dei critici, come degli stessi membri del cast che vi hanno partecipato, quasi in un invito a degli scambi di ruoli, come per ulteriormente inquinare forse delle acqua già sufficientemente torbide.
Il rifiuto di Lynch di fornire spiegazioni sulle sue intenzioni narrative, concedendole alle speculazioni più varie, è semplicemente indicativo del suo affidarsi a della materia onirica sulla quale ognuno deve sentirsi libero di speculare a piacimento.
“Mi dia quella videocassetta. Attenzione, morde”
Con l’avvertenza “Careful... it bites!”, nei confronti dell'invadenza televisiva e del VHS, David Cronenberg proponeva, in Videodrome (1983), una sua personale allucinazione “cinevora”, da fungere quale base ideologico-politica per un profetico salto di qualità verso la rivoluzione dello sguardo e della visione, che però arrivava ad alludere, in una sorta di pericolosa liturgia catodica, “transustanziantesi” in “carne e sangue”, al carattere teologico d’una paranoide auto-fagocitosi.
Una passione “allucinata”
D’altra parte, già sul n°293 (octobre 1978) dei “Cahiers du cinéma”, Louis Skorecki (Contre la nouvelle cinéphilie) si chiedeva se la Tv potesse rappresentare una via d'uscita (di scampo!) dall'impasse della crisi del cinema, allora a lui contemporanea, in un momento storico a metà strada tra l’irruzione sul piccolo schermo dei corti e mediometraggi hitchcockiani degli anni ’50-60 e la serialità, potenzialmente infinita, che avrebbe successivamente confermato Lynch. E, forse, si riferiva a un recupero d’un “minimo” ritorno alla passione più democratica di quella del grande cinema dell’altro ieri, perché accessibile a un numero ancora maggiore di spettatori; ma, anche, a una “minima” passione “allucinata” (hallu-ciné) - da un etimo greco (aluo, ἀλύω) la cui profonda emozione sembra sostenuta dal movimento (kineo, κῑνέω) di quelle figure, anche mute, - e per giunta “sconsiderata” (e téméraire) per ogni altra immagine parlante, e pure riproducibile su nastro magnetico. Sconsiderata pure perché quella “minore” considerazione va intesa in tutti i suoi possibili sensi: dall’azione d'esaminare con attenzione alla stima e alla motivazione adeguata a (inter-)agire (quasi “carnalmente”?) con essa.
Un parassitismo culturale?
Proprio nei limiti della sua attuale modalità di fruizione, senza alcuna discriminazione/ “considerazione”, e alla “minima” distanza, la televisione rischia di rivelare la sua più grande, quale sua sola, ricchezza; proporsi a mo’ di “nido di cuculo” a quelle piccole dosi culturali, non sempre ben scelte ed equilibrate, perché a malapena capite.
Forse, l'essenza dell'«amore per il cinema» consiste in questo vago e parassitario sottrarre da qualche parte per approfittarsi di ciò che si disprezza?
Le “cose” andrebbero riposte nella loro giusta prospettiva, a volte trattenute, fissate con fermezza, altre volte più dischiuse: non fosse altro, almeno per favorire certi filmati, a scapito degli altri?
In fondo, ciò serve a sottolinearne l’importanza e a dimostrare a noi stessi “cosa” in fondo vogliamo “ingurgitare”, cosa amiamo, cosa sappiamo (anche di noi stessi) e cosa o chi siamo, o siamo diventati; tutte “cose” più difficili da individuare di quanto possa sembrare a prima vista, poiché con queste “cose” spesso siamo costretti ad arrivare a qualche compromesso. Insomma, una questione sempre difficile da affrontare in modo lineare. E con “cose” dobbiamo intendere anche i singoli generi, classificazioni ed etichettature, pure quelli rimaneggiati in favore della fantasia, della curiosità e dell’estro di circostanza.
Home video
Forse, allora, la lotta tra piccolo e grande schermo si sarebbe potuta, a un certo punto, limitare a una differente distribuzione di fasce orarie, alcune intra-, altre extra-domestiche?
Soiré o matinée sono più impegnative d’un comodo divano su cui ci si siede in pantofole a fruire opere audiovisive in ambito privato. Ma siamo sicuri che, in televisione, al di fuori della “riproduzione”, succeda qualcosa di interessante, proprio in ogni momento del giorno e della notte?
Spesso, non basta premere (a caso, o con la dovuta sapienza) i tasti “giusti” per restarne coinvolti; il più spesso, la pigrizia prende il sopravvento sulla stima/ considerazione che abbiamo di noi stessi, determinata da “cosa”, in fondo, vogliamo; e, senza prestare troppa attenzione, o trovare il più piccolo motivo per farlo, ci scopriamo a farcene forzatamente una, altrettanto “minore”, ragione, nella maggior parte dei casi, insufficiente (perché, a tutti gli effetti, minimalista?).
Jacques Tourneur
Nel testo originale “Contro la nuova cinefilia”, Skorecki ha inserito un lungo “allegato” su Jacques Tourneur, il regista francese che, nel 1941, fu scelto dal produttore cinematografico Val Lewton per girare diversi (poi acclamati) film horror a basso budget per gli RKO Studios, tra cui Cat People (1942) e I Walked with a Zombie (1943).
Night of the Demon
Night of the Demon (1957) venne adattato dal racconto di Montague R. James "Casting the Runes" del 1911, per conto di Hal E. Chester, il quale, al solo scopo di renderlo più commerciabile, ne fece accelerare il ritmo narrativo; per cui, quell’originale durata di 96 minuti fu ridotta di quasi un quarto d’ora, venendo ribattezzata, questa versione abbreviata a 82 minuti per il mercato americano, Curse of the Demon, e proiettata come seconda metà d’una doppia programmazione, a seconda delle esigenze locali, o insieme con The True Story of Lynn Stuart oppure con The Revenge of Frankenstein (1958), come racconta Tony Earnshaw in Beating the Devil: The Making of Night of the Demon (2004).
Lato A/ lato B
Sebbene considerate di serie B, le pellicole di Tourneur si distinguevano per uno stile che in seguito verrà spesso imitato. Una volta promosso nella lista A della RKO, diresse molti altri filmati, tra cui Out of the Past (1947), Berlin Express (1948) e, nel ’64, il nono episodio della quinta stagione della serie tv The Twilight Zone, dal titolo “Night Call”, basato sul racconto di Richard Matheson, "Sorry, Right Number" (1953), la cui morale si sintetizza nella prerogativa, che ciascuno di noi ha, di crearsi il proprio particolare, e privato, Inferno in terra (pure domestico e televisivo!).
B movie
Solitamente, il “B movie” si caratterizzava per essere dichiaratamente commerciale, a budget limitato e di scarsa qualità, proprio perché realizzato con pochi mezzi e in tempi molto ridotti; per lo più un mediometraggio che magari sfruttava attrezzature, scenografie e attori già impegnati su set di riprese più importanti. Durante l'età d'oro di Hollywood, il loro utilizzo originale fu simile a quello, in ambito discografico, dei lati B della musica registrata, destinati cioè alla distribuzione proprio come “una” metà inferiore, ovviamente meno pubblicizzata, d’un “doppio spettacolo”, in sostituzione di varie bobine di cortometraggi comici, d’animazione, di attualità, ovvero cinegiornali, o varietà dal vivo. Per lo più, si trattava di metraggi di circa 70 minuti, la qualcosa, unitamente al minor fatturato, contribuiva a dare l’impressione di trattarsi di opere di qualità più modesta rispetto agli headliner dal budget più generoso, venendo così solitamente del tutto ignorati dalla critica.
Una questione di genere?
Per la stragrande maggioranza dei casi, volendo rispettare l’etichettatura d’una certa qual catalogazione, le pellicole di serie B rientravano in un genere particolare: tipo western, nel periodo della Golden age statunitense, horror e fantascienza intorno agli anni ’50. Con l’avvento del piccolo schermo, la produzione di opere cinematografiche intese quali "secondi lungometraggi" non ebbe più ragione d’esistere, trasformandosi di conseguenza in “divisioni” di programmazione televisiva, realizzando più o meno sempre analoghi contenuti a basso costo, lasciando in parallelo però ampio spazio a quei “film d'essai”, indipendenti dal circuito dello sfruttamento commerciale.
Questo ne ha connotato un’intrinseca contraddittorietà, poiché accanto a produzioni decisamente vivaci ed energiche, non vincolate ai costi, e pertanto alleggerite dalle convenzioni pretestuose della resa economica, o camuffate da presunzione di impegno e serietà, si trova il mainstream ad alto budget, con contenuti in stile commerciale, di solito in generi tradizionalmente associati ai film di serie B, e appunto questi ultimi dalle “minime” ambizioni artistiche, sempre meno ispiratori di sequel, perché decisamente scadenti.
Una questione estetica?
Che la “bruttezza” dei film sia diversa da quella, abbondantemente, sparsa nell’arte, nella letteratura, nel teatro è una questione che potrebbe sembrare anacronistica, almeno a prima vista, - intesa anche come a una “prima visione”-, perché, infatti, questo giudizio potrebbe virare nel tempo, ridonando nuova vita, e vitalità, a dei prodotti inizialmente considerati mediocri o grossolani. Tanti, se non raggiungono la dimensione d’un vero e proprio cult, diventano oggetti di studio, di rassegne cinematografiche apposite, oppure di semplice, eppur complesso, dibattito culturale.
Due degli esempi più fallimentari di tutti i tempi, "Plan 9 from Outer Space" (1957) di Ed Wood e "The Room" (2003) di Tommy Wiseau, hanno ispirato pellicole più recenti che li hanno rivisitati: "Ed Wood" (1994) di Tim Burton e "The Disaster Artist" (2017) di James Franco, generando degli spettacoli più che decenti da pessime performances, di conseguenza rivalutate.
The Room
Il titolo di Tommy Wiseau si riferisce banalmente al fatto che una stanza (Room) è un luogo in cui possono succedere “cose” d’ogni tipo. Ma ad attirare l’interesse dei cinefili, oltre alla bizzarra performance dello stesso Wiseau, alla trama inconcludente e alle sotto-trame piene di buchi, è stata l'involontaria comicità di molte scene.
"Epitome del cinema così brutto da essere bello"
La fantascienza horror di Ed Wood prevedeva l’attuazione da parte degli alieni d’uno schema (il "Piano 9") per resuscitare i morti della Terra, che avrebbero formato eserciti di quelli che in seguito avremmo potuto riconoscere quali zombi (in anticipo su Romero - Night of the Living Dead è del 1968 -, il primo film del genere sarebbe stato, nel 1932, White Zombie, per la regia di Victor Halperin). Il risultato finale è riuscito ad accaparrarsi la definizione paradossale di: "epitome del cinema così brutto da essere bello".
Attack of the 50 Foot Woman
Secondo Carlo Celli e Marga Cottino-Jones, autori di A New Guide to Italian Cinema, (2007), a ispirare l'episodio ironico Le tentazioni del dottor Antonio di Federico Fellini, nel film a episodi Boccaccio '70 (1962), sarebbe stato Attack of the 50 Foot Woman (1958) di Nathan Juran, una fantascienza statunitense di scarsa qualità, a cui s’attribuisce l’insolito merito d’aver introdotto sul grande schermo il tema “gulliveriano” (swiftiano) della donna gigante, ripreso dalla parodia The 30 Foot Bride of Candy Rock (1959) di Sidney Miller e, decenni dopo, con intenti satirici, in Attack of the 60 Foot Centerfold (1995) di Fred Olen Ray.
Manos: The Hands of Fate
A presentare vistosi difetti tecnici, di sincronizzazione delle immagini con il sonoro e, a livello di montaggio, di scene prive di nesso apparente con il resto della trama, il film diretto da Harold P. Warren, Manos: The Hands of Fate (1966), dalla stessa troupe sarcasticamente ribattezzato Mangos: The Cans of Fruit.
Mystery Science Theater 3000
Da quando è stato riproposto nell'episodio finale della quarta stagione di Mystery Science Theater 3000 (MST3K), nel 1993, viene adesso considerato un "classico" del trash e del camp. Il compito principale di MST3K sarebbe stato quello di ripescare vecchi filmati caduti nel dimenticatoio o che avevano ricevuto poca o nessuna attenzione da parte del pubblico al momento della loro uscita.
Si presentava in un ambiente, all’apparenza, fantascientifico, che fungeva da cornice, dove, imprigionato da scienziati folli, "The Mads", in un satellite dell’orbita terrestre, l’intrattenitore/ inserviente del Gizmonic Institute, si trovava costretto, assieme ad amici robotici, a guardare supinamente, e di continuo, pellicole di serie B, per lasciare che si monitorassero le proprie e loro promiscue reazioni mentali nei confronti di quelle.
Junk Film: Why Bad Movies Matter
Alla luce di quest’esperienza, c’è allora da chiedersi perché certi “brutti” film risultano poi così “piacevoli”. Non sembra succeda in altri ambiti culturali; i brutti dipinti, le brutte commedie e i brutti romanzi vengono spesso rapidamente dimenticati, mentre i brutti film rischiano spesso d’accumulare negli anni sempre maggiori proseliti per trasformarsi in cult movies.
A tale strano fenomeno è stata dedicata una raccolta di articoli da parte di Katharine Coldiron, dal titolo Junk Film: Why Bad Movies Matter (Film spazzatura: perché i brutti film contano, 2023): 13 saggi che esplorano la realizzazione di specifiche opere, dagli anni '40 al 2010, inizialmente “fallimentari”, o perché hanno impropriamente mescolato generi cinematografici tra loro incompatibili (è il caso di Cop Rock), oppure per aver sviluppato sceneggiature ai limiti della psico-sociopatia (il caso di Staying Alive).
Cop Rock
La prima esperienza, del ’90, consistette nella conversione, da parte di Steven Bochco, d’uno spettacolo di Broadway in una serie televisiva sulla procedura della polizia, con contorno d’umorismo nero.
Staying Alive
Mentre Il sequel, realizzato da Sylvester Stallone, nell’83, de La febbre del sabato sera (1977), avrebbe stravolto “la profondità drammatica dell'originale con una serie di sequenze di ballo prive di ispirazione”.
"Blade Runner" (1982)
Il gioiello di Ridley Scott, e Harrison Ford, è ormai un punto di riferimento per l'azione e la fantascienza, ma all'epoca non piacque molto né al pubblico né alla critica. Il tempo ha riposizionato un po’ tutti al loro posto, tranne probabilmente il, nel frattempo, defunto Philip K. Dick, un po’ scettico sull'intera trasposizione cinematografica del suo romanzo, di fatto abbastanza snaturato da tale operazione, se si pensa, per esempio, al sovraffollamento caotico d’una Los Angeles futura, nel film, contrapposto alla forte sensazione di vuoto, solitudine, insopportabile silenzio, nel romanzo.
“Ho visto cose…“
Persino la domanda, sottilmente sarcastica, contenuta nel titolo originale, “Do Androids Dream of Electric Sheep?” (Gli androidi sognano pecore elettriche?), sarebbe stata riproposta in tutt’altri termini: «Do you think androids have souls?» (Pensate che gli androidi abbiano l'anima?), mentre quanto c’è di più paradossale in Dick sarebbe la constatazione ossimorica che ad assomigliare ad androidi sono gli uomini impegnati a dar loro la caccia, quegli agenti speciali chiamati "blade runner". L’androide risparmia l’inseguitore, traendolo in salvo e rivolgendogli il celebre monologo: «I've seen things you people wouldn't believe» (Ho visto cose che voi umani non potreste immaginare).
Blade Crawler
Tra i critici, le reazioni iniziali sono state piuttosto contrastanti. Alcuni hanno osservato che la trama passava in secondo piano rispetto agli effetti speciali del film, o che non si adattava al marketing dello studio come film d'azione e d'avventura. Le critiche più negative si soffermavano sulla sua eccessiva lentezza, tanto che Sheila Benson del Los Angeles Times lo ribattezzò "Blade Crawler" e, su The State and Columbia Record, Pat Berman lo definì "pornografia di fantascienza". E chi, come Pauline Kael, pur elogiandolo per la sua visione distintiva, nel contempo, ne ha criticato la mancanza di sviluppo in "termini umani".
Un neo-noir retro-futurista
L’opera di Scott è tuttavia uno dei migliori esempi del sottogenere noir d’ambientazione moderna, o contemporanea (neo-noir), dal singolare design retro-futurista, in quanto raffigura l’avvenire per come veniva immaginato in passato, con un antitetico effetto di straniante nostalgia anticipatoria.
C’è pure chi ha teorizzato che, per il suo contributo allo sviluppo storico della narrazione distopica dall’approccio postmodernista, attraverso il repertorio di immagini e la successiva influenza culturale sui film successivi, abbia contribuito, in generale, a modificare lo stesso discorso cinematografico.
Showgirls (1995)
Molto più eclatante il caso di Showgirls, diretto nel 1995 da Paul Verhoeven, che con forte senso dell’umorismo, ha voluto ritirare personalmente gli 8 Razzie Awards assegnati al suo film nella cerimonia annuale organizzata a Los Angeles da John J. B. Wilson per riconoscere i peggiori attori, sceneggiatori, registi, autori di canzoni ecc. della stagione cinematografica precedente.
Alla sua uscita, Showgirls è stato stroncato dalla critica, in primis, per via della sua recitazione ritenuta sopra le righe (in particolare quella di Elizabeth Berkley che interpreta Nomi Malone), della sceneggiatura (Joe Eszterhas), della regia, della canzone (Walk Into The Wind), dei personaggi (la protagonista e tutto il cast), e poi la trama, i numeri di danza e le scene di sesso, venendo costantemente classificato come una delle più “brutte” pellicole mai realizzate, troppo sgargiante ed esuberante, e contemporaneamente misogino. Nonostante ciò, Showgirls è diventato adesso un “film di culto” ed è stato oggetto d’una serissima “rivalutazione” quale ironico lungometraggio nient’affatto esente da qualche lode.
“Satira seria”
Forse, perché ritenuto “inavvertitamente” divertente, qualcuno ne ha parlato come di “satira involontaria”, altri poi di “satira seria” (sic!), ma "satira" non è la definizione più azzeccata. Paragonato a All About Eve (1950) di Joseph L. Mankiewicz, sarebbe da intendere quasi come un remake, aggiornato ovviamente, o piuttosto una parodia?
What Price Hollywood?
Edward Guthmann, del San Francisco Chronicle, ne individuò le ascendenze nella “lunga e sana tradizione di quell'epopea trasandata del dietro le quinte dello spettacolo", riferendosi a The Oscar (966) di Russell Rouse o a Valley of the Dolls (1967) di Mark Robson. E, per Eric Henderson di Slant Magazine, prende di mira, proprio nel loro fallimento morale, quelle narrazioni, tipo “è nata una stella”: A Star Is Born (1937) di William A. Wellman e le versioni precedenti di Frank Pierson (1976), con Barbra Streisand, o quella con Judy Garland (1954) di George Cukor, che aveva diretto nel 1932 anche What Price Hollywood?, il melodramma da cui hanno attinto le opere successive.
Il famoso autore di Theory of film Practice (1932), Noël Burch sostiene che il film di Verhoeven "prende sul serio la cultura di massa, come luogo di fascino e lotta", e arriva a usare il melodramma alla stregua di "un eccellente veicolo per la critica sociale". Per Jonathan Rosenbaum, di The Chicago Reader: "Showgirls dev’essere una delle allegorie più al vetriolo mai realizzate su Hollywood e il tutto esaurito". E lo scrittore Michael Atkinson ha detto di Verhoeven: "potrebbe essere il satirico più coraggioso e sicuro di Hollywood, nella misura in cui riesce a realizzare film di gran genere che nessuno sa se prendere sul serio o meno".
L’arroganza del successo
Di certo, Showgirls ha infine trovato una nuova, più opportuna collocazione quale normale fornitore di intrattenimento leggero, anche se non proprio nel modo in cui sarebbe stato originariamente previsto. Nel 1997, Eszterhas aveva infatti dichiarato: “Chiaramente abbiamo commesso degli errori. Chiaramente è stato uno dei più grandi fallimenti del nostro tempo. Ha fallito commercialmente, in modo critico, ha fallito su videocassetta, ha fallito a livello internazionale…. Col senno di poi, parte di ciò era dovuto al fatto che io e Paul stavamo uscendo da Basic, che ha sfidato i critici ed è stato un enorme successo. Forse c'era coinvolta una certa arroganza: - Possiamo fare quello che vogliamo, andare oltre quanto vogliamo -. Quella scena di stupro è stato un terribile errore. Col senno di poi, un terribile errore. E musicalmente era eminentemente dimenticabile. E sono stati commessi errori nel casting.”.
Era solo il materiale sbagliato per un momento inopportuno, un cast poco affiatato o il regista il meno adatto?
Un’esagerazione sopra le righe
In una recensione dello storico giornalista del Chicago Sun-Times, Roger Ebert, vengono criticate e l’onnipresente nudità esibita e la sceneggiatura, definita "juvenile" (non proprio puerile, bensì adolescenziale), rivelando che in realtà il film "non contiene vero erotismo". Tuttavia, aggiunse: "i valori di produzione sono di prim'ordine e la performance principale della nuova arrivata Elizabeth Berkley ha un'energia feroce che è sempre interessante […]. È spazzatura, sì, ma non noiosa". Tre anni dopo già non lo giudicava più: “del tutto terribile".
Spicy Stuff
Uno dei pochi critici a fare una recensione positiva all’epoca dell’uscita, su The New Republic, fu Stanley Kauffmann che ha commentato: "Ciò che conta molto di più della storia o di quel quid piccante [Spicy Stuff] è la danza, la danza dello spettacolo. È elettrica. Emozionante". Elizabeth Berkley può giocare bene con il personaggio di “viperetta” meccanica che le è stato dato da interpretare. E neppure Sarah Bernhardt avrebbe potuto fare molto di più in questo ruolo “robotico” e men che meno avrebbe potuto ballare allo stesso modo. "Sotto lo sfarzo, Las Vegas è un posto pacchiano e complicato; […] un microcosmo di valori americani al massimo del loro squallore.”. Aggiunge poi Catherine Bray: “Non puoi criticare la performance per non essere realistica. È come guardare un Andy Warhol e dire -beh, quei colori non sono fedeli alla vita. È una caricatura pop-art-“ .
Basta esserne avvertiti e, visto che sembra come navigare per un paio d'ore in una sorta di soap opera, piuttosto che irritarsi, tanto vale divertirsi.
Jacques Rivette
Il critico cinematografico, e regista francese esponente della Nouvelle Vague, Jacques Rivette è persino arrivato a dichiarare: “Showgirls è uno dei più grandi film americani degli ultimi anni, è il miglior film americano di Verhoeven e il più personale. […] È anche il più vicino ai suoi film olandesi [per esempio, Turks fruit, del 1973, o Spetters del 1980] . È molto sincero, con uno scenario senza trucchi. E l'attrice è incredibile!».
In quest'intervista del 1998, Rivette ammette che, di primo acchito, si dimostri “molto sgradevole”, ma giusto perché “si tratta di sopravvivere in un mondo popolato da stronzi, e questa è la filosofia di Verhoeven”. In “Starship Troopers” (1997, liberamente tratto dal romanzo del ‘59 Fanteria dello spazio di Robert A. Heinlein), ha fatto ricorso agli effetti speciali per indorare la pillola della sua inclemenza, mentre Showgirls, come sottolinea Rivette, è ovviamente spoglio di orpelli d’ogni tipo, e letteralmente “nudo” (Les Inrockuptibles, 25 March 1998).
Sensuale crudezza
Questa definizione di “nudo” sembra studiata appositamente per distinguerlo da Basic Instinct (1992), più apertamente “sessuale” (e sensuale), in realtà forse perché Showgirls non si preoccupa affatto, come apparentemente sembrerebbe, dello “smalto per le unghie”. Niente infingimenti nelle sceneggiature, puro acido solforico nascosto anche tra le pieghe dei thriller (oltre Basic Instinct, RoboCop, 1987) e dei film di fantascienza (oltre Starship Troopers, Total Recall, 1990, liberamente ispirato a We Can Remember It For You Wholesale di Philip K. Dick). Unghie finte, ciglia finte e capezzoli al vento, in Showgirls, non sono altro che quell’irrisoria indoratura che a malapena maschera, ormai letteralmente spogliata dei suoi fronzoli, un'America apertamente oscena, non solo perché volgare, ma anche perché vigliacca.
Sostenuto da quel vero trionfo che fu, tre anni prima, Basic Instinct, con Showgirls, il sulfureo duo Verhoeven-Eszterhas si spinse oltre, come ammise Eszterhas, e forse anche troppo lontano, da attirare per la sua aspra crudezza le violente accuse che ne avrebbero determinato il flop commerciale e quella dozzina di nomination ai Razzie Awards. Sulla scia di Rivette, però, da diversi anni è in atto un lento moto critico di rivalutazione della sua segreta bellezza, sottile intelligenza e non banalità, anzi originale profondità.
It Doesn't Suck
Il libro di Adam Nayman, It Doesn't Suck: Showgirls (2018), incoraggia questo cambiamento di prospettiva critica sulla pellicola di Paul Verhoeven, rianalizzandola con più attenzione, e rivalutandone l’originario accoglimento in una prospettiva di definitiva riabilitazione. L’espressione gergale "It Doesn't Suck" ("Non è una merda!"), del resto, è ciò che ripete più e più volte Nomi Malone, l'eroina di questo film inizialmente non amato, eppure una delle performances preferite d’Elizabeth Berkley (le altre potrebbero essere: The First Wives Club, 1996, o Roger Dodger del 2002). Un fatto è certo, dopo trent’anni di altri scandali, è arrivata l’ora di rivedere Showgirls con maggiore serenità di giudizio.
Umorismo involontario
I film considerati “brutti”, in quanto s’allontanano talmente dai canoni da diventare inopinabili, in effetti, ribaltano le aspettative del pubblico, a volte con risultati stranamente del tutto inaspettati: l’umorismo involontario, per esempio, può far ridere altrettanto quanto quello sofisticatamente ricercato. Il cinismo in tal caso è duplice, quello crudele degli spettatori che ridono del fallimento, e quello inconsapevole degli artisti falsamente convinti di portare avanti un piccolo (autoreferenziale) capolavoro.
Lo stile di commento dal vivo prodotto da RiffTrax, nei primi anni di questo secolo, rimanda a quello che ha avuto origine con MST3K, in cui allo stesso modo si deridevano ("riff") ad alta voce i film, proprio mentre si guardavano, con effetti a dir poco esilaranti.
Tutto quanto fa spettacolo!
Questa “filosofia” si basa sul fatto che ci si può, comunque, divertire di fronte a qualcosa che, nonostante le imperfezioni, offre dello spettacolo senza pretese e, sia pure, grossolano, dal quale persino si riuscirebbe a estrarre qualche insegnamento a buon mercato.
Involontario insegnamento
Contenendo tanti errori, alcune “cattive” opere fanno meglio apprezzare quelle migliori, rappresentando quasi una sorta di guida all’incontrario circa ciò che non andrebbe fatto.
Emblematico il caso di Christopher Nolan, le cui immagini a volte richiederebbero degli appositi sottotitoli, essendo i dialoghi, in alcuni punti, intenzionalmente registrati in modalità così bassa da non poter essere uditi dai duri d’orecchi. Nolan preferisce usare la performance fornita al momento piuttosto che ricorrere a un ri-doppiaggio; ma si tratta d’una scelta artistica consapevole che molti spettatori hanno tuttavia il diritto di non condividere.
…'s Brain
La Coldiron, autrice di Junk Film, ammette d’aver attinto alla collezione domestica paterna, sul cui dubbio gusto ella stessa nutre forti sospetti, includendo titoli come “They Saved Hitler's Brain”, un adattamento televisivo di Madmen of Mandoras del 1963, diretto da David Bradley, oppure Donovan's Brain, un horror fantascientifico del 1953, realizzato in modo indipendente da Felix Feist, ispirato al romanzo di Curt Siodmak del 1942, eppure citato da Stephen King nel suo Danse Macabre (1981).
Non tutto quanto può o deve essere motivato
C’è da ventilare l’eventualità d’un’occasionale disgiunzione tra il giudizio estetico e l’accoglienza d’un determinato lavoro. Sol perché “piace” vedere qualcosa, non significa che sia “bella”. Molti critici, anche seri, si soffermano su brutti film, a volte per rintracciarvi “un certo non so che” in grado di giustificarli in ogni caso, tal altra presentandoli quasi del tutto irredimibili, tranne magari un particolare apparentemente insignificante. Nel saggio finale di Junk Film, "What We Like: Safe Haven and Girl In Gold Boots", s'esplora giusto quest’idea del non sapere perché qualcosa piace, nonché della non necessità, o impossibilità, di doverla motivare per forza.
Safe Haven è un film thriller fantasy romantico del 2013 diretto da Lasse Hallström, che ha adattato l'omonimo romanzo di Nicholas Sparks del 2010. Girl in Gold Boots è un film poliziesco/drammatico del 1968 sullo squallido mondo sotterraneo del go-go dancing, realizzato da Ted V. Mikels, autore nello stesso anno di The Astro-Zombies.
Il trash come opera d'arte?
Il recupero di certi film non significa trattare il trash come opera d'arte, né caparbiamente impuntarsi sulle solite e scontate definizioni riconducibili a una Kalokagathìa (καλοκἀγαθία) non sempre generalizzabile tout court. A volte, potrebbe non essere interessante, bensì forse interessata, una distinzione tra “buono” e “cattivo”, o bello e “brutto” (il titolo di Sergio Leone, considerato la quintessenza degli “spaghetti western”, esalta lo stallo alla messicana e demitizza l’epopea statunitense), spesso sfuggenti a definizioni tranchant, e magari più utili al consolidamento d’un’operatività che ci faccia riconoscere semplicemente e banalmente che “tipo d’arte” stiamo guardando. Se si riesce in ciò che si sta cercando di concretizzare, probabilmente, si sarà molto più convincenti.
La sospensione dell’incredulità
Questo perché, nei confronti di quanto fallisce i propri obiettivi, sarà difficile sospendere l’incredulità e, restando comodamente seduti, da ospiti invitati, entrare in una dimensione che dovremmo fare nostra per un paio d’ore. Accorgersi degli "aspetti metatestuali" della "simulazione", forse non ci farebbe sobbalzare sulla poltrona, ma certo ci fornirebbe la sensazione d’essere stati posti in disparte, a fare da tappezzeria; oppure diverrebbe motivo di continue distrazioni per quegli oggetti dozzinali sparsi sulla scena, entro la quale avremmo dovuto immergerci in piena naturalezza.
Se l’irreale non ci appare reale, la percezione dell’intero contesto che dovrebbe sigillarne l’illusione neppure riuscirebbe a reggersi. Ed ecco allora, un lato, per certi versi, positivo d’un brutto film: quello di possedere come una sorta di trasparente “qualità olografica”, che non nasconde il tentativo di trasformare le cose per renderle così per come sono. E questa si dimostra una qualità che possiedono solo i grandi artisti allorquando ci strizzano l’occhio sfondando la “quarta parete”, come per ricordarci che quello che vediamo è quanto vogliono farci vedere loro.
Nel testamento cinematografico di Alfred Hitchcock, perché il suo ultimo lungometraggio, Family Plot (1976), la protagonista madame Blanche guarda direttamente verso l'obbiettivo della macchina da presa e ammicca con compiaciuta complicità allo spettatore.
Crisi del cinema o … dello spettatore?
C’è da chiedersi se siamo in grado d’essere autonomi e ancora capaci di discernere, di vedere e sentire, ognuno per conto proprio, ciò che ci sta accadendo dinanzi a uno schermo, grande o piccolo (o piccolissimo) che sia. Certo, potremmo vedere un’infinità di informazioni che il cinema non potrà mai fornire; perché non mi riferisco soltanto ai cinegiornali d’un tempo e ai documentari di oggi, ma un po’ a tutti i programmi, da quelli sociali a quelli didattici, come all’approfondimento dell’attualità, ai leziosi varietà, ai quiz show, alle canzoni da discoteca e agli intermezzi musicali, trasmessi dalle varie reti tv, fino ad arrivare all’immutabilità del monoscopio in caso di sospensione dei programmi.
L’onnipresente ricorso allo smartphone sta rendendo obsoleto il piccolo schermo tradizionalmente inteso, oggi ulteriormente rimpicciolito e ridottosi a dimensioni palmari. La televisione potrebbe quindi essere intesa come “penultimo” luogo dove è ancora riproponibile qualcosa dell’allucinatoria (mancanza di) lucidità della cinefilia d’un tempo.
Se fino a qualche decennio fa, ci si doveva chiedere se le soap opera, anche le migliori, equivalevano al cinema seriale americano, adesso la domanda di maggiore attualità è in che modo dal moderno “focolare” domestico del familiare schermo tv si sia passati all’estremizzazione egotistica d’uno schermo ancora più minuto da potersi trattenere con due dita.
Il film di genere, un po' sciatto, tendeva già a scomparire dalle multisale, eppure continuava a proliferare in tv, quando con più quando con meno fortuna o successo, a seconda dell’ingenuità di chi (non) si annoiava in panciolle. Poi, ci sono le serie più modeste, e casalinghe, che ripropongono le avventure romantiche, e degli umili e dei ricchi nostrani, ma più spesso di questi ultimi, più adatti a rendere felice la famigliola che con essi tende più improbabilmente a (non) identificarsi; i format gastronomici per chi vuole elevare, spesso a sproposito, un gusto da ostentare e di cui andare fieri; quelli criminali che rischiano d’esaltare una già diffusa mentalità; quelli dedicati agli opinionisti d’ogni materia, i politici furbi e gli ingenui parvenu in cerca di conferme, e tanto altro lurido scarto che fa audience; tutto ciò alla stessa stregua di film già visti sul grande schermo, belli, meno belli, scadenti, o di film che speriamo di poter guardare con meraviglia per la prima (o ancora una) volta.
Una nuova perversione cinefila
Se la nuova perversione cinefila, con tutti questi estratti di immagini parlanti (e non), quasi sempre uguali e ripetitive, con poche variazioni sul tema audiovisivo, fosse sufficientemente in grado di fornire, comunque, come una dimensione autonoma all'infinito, ognuno potrebbe mettere insieme (“montare” direbbero i tecnici) i suoi spezzoni fantasmatici, se non proprio alla maniera del découpage, quanto meno del collage di cartoline, in cui scoprire quanto le riproduzioni si dimostrino persino più interessanti degli originali, perché, per a un affamato cinefago o cinevoro, le briciole appaiono quasi sempre più appetibili d’un sofisticato piatto da gourmet stellato, in specie in un clima di ormai diffusa (in-)civiltà, per giunta in disaccordo con se stessa.
L’ulteriore rimpicciolimento dello schermo, da tv da parete a oggetto racchiuso in una mano, costituisce un fattore “entropico”, di degradazione dell'energia legata appunto al medesimo aumento di questa confusione, e, in quanto “minima” funzione che definisce lo stato di disordine d’un intero sistema, si trova in una specie d’(in-)e-voluzione sempre crescente, fino a condurlo a un ulteriore e definitivo caotico scompiglio. Quell’egoistico solipsismo che da “Ce petit coup au cœur quand la lumière s'éteint et que le film commence” (2007), enunciato da Gilles Jacob per festeggiare i 60 anni del Festival di Cannes, traduce la locuzione latina dell’«Unicuique suum» nel titolo della collezione di cortometraggi “Chacun son cinéma”, facendo, come preconizzato da Skorecki, d’ogni spettatore il potenziale attore e regista di se stesso.
Bibliografia essenziale:
Celli C. and Cottino-Jones M. A New Guide to Italian Cinema, Springer, New York 2007
Coldiron K. Junk Film, why bad movies matter, Castle Bridge Media, Denver 2023
Earnshaw T. Beating the Devil: The Making of Night of the Demon, Tomahawk Press, Sheffield 2004
Manzocco R. Twin Peaks. David Lynch e la filosofia. La loggia nera, la garmonbozia e altri enigmi metafisici, Mimesis, Milano 2010
Nayman A. It Doesn't Suck: Showgirls, ECW Press, Toronto 2018
Skorecki L. Contre la nouvelle cinéphilie, Cahiers du cinéma, n°293, pages 31-52, octobre 1978