Vi ho già parlato delle persone che sono chiodo, quelle che appuntano le storie nella bacheca dei ricordi, fissandole così forte, ma così forte che il vento non le potrà mai far volare via.
Saranno storie a prova di vento.
Oggi vi parlerò delle persone risucchio, quelle che, quando vanno via, trascinano verso altri un vortice di ricordi che riporta indietro di momenti, di anni, di epoche.
Mi è già capitato di subire questo risucchio, e fu quando vidi il volto vivo in un manifesto funebre di un vecchio Carabiniere. Diventò pagina di un libro.
Di Memè Orlando, detto Bobby, non c’è bisogno di altro dire, oltre il vortice che ha smosso andando via.
È già pagine di libro.
Ma il risucchio che provoca, andandosene, porta indietro di quasi cinquant’anni, in un corridoio stretto stretto dove generazioni di ragazzi, con malupilu spacciato per baffi e pantaloni a zampa comprati dopo mesi di paghetta settimanale, passavano veloci per entrare nella grande stanza dei giochi.
La stanza dell'adolescenza.
Il biliardo con le stecche, il calcio balilla, i flipper. Mica i video poker assassini. Giochi di ruolo dove a turno ci sentivamo Mazzola e Rivera, oppure sfrontati scugnizzi che per darsi un tono pulivano la stecca senza saper neanche quale fosse il lato giusto.
Ma stavamo, senza saperlo, dal lato giusto della vita, dei rapporti umani che sarebbero diventati inossidabili, resistenti alle onde tenui che lambiscono le spiagge della serenità.
Sul ponte di quella nave, ancorata in riva al corso Garibaldi, a Melito, ci stava Bobby.
E nessuno di noi irsuti e ormonali passeggeri sapeva come, il capitano (quello buono) da Memè, divenne Bobby.
Lo spiegò il figlio grande, in un bel libro, diversi decenni dopo.
Ecco, il risucchio.
Ecco, il vortice.
Uno dei tanti.
Alto, con il sorriso a mezzo baffo, e l’ironia garbata verso i ragazzi transitori che mai ebbero nei suoi confronti una parola sfrontata.
Mai.
Al bar di Bobby si andava anche la domenica, ma vestiti bene.
Ed in quel caso il ponte della nave veniva percorso al contrario. Un occhio verso l’esterno, all’uscita della Messa, dove le ragazzine che ci sembravano donne fatte percorrevano su e giù il Corso, senza guardare di lato.
Almeno con entrambi gli occhi.
Bobby era centrale operativa del corteggiamento occulto, che ci appagava, mentre annegavamo nella timidezza e nell’immaginazione.
Quasi di fronte, spostato più in giù, ci stava il Bar di Martorano, palesemente chic, riservato ai più adulti, con Don Paolo scacciatore di ragazzacci che occupavano le sedie di ferro e plastica senza consumare.
Ma questa è un’altra storia. Un altro risucchio portato in superficie da un vortice più forte.
Come tutto cambiò nessuno lo ricorda.
Il perché è semplice.
Cambiammo, d'improvviso, anche noi.
Il malupilu diventò barba, le ragazze guardarono più forte verso gli angoli del Corso, e con entrambi gli occhi.
I giochi dei ragazzi diventarono impegni e responsabilità.
Così, di colpo, in un giorno qualsiasi, ci ritrovammo adulti.
Ma Bobby era sempre lì, sopravvissuto alla nave dei ragazzi, affondata da tempo.
Seduto in una delle sue antiche sedie, quando tutto era finito, con altri amici condottieri degli anni andati ad indugiare in chiacchierate tenui nelle ore più calde del giorno.
O nelle più fresche, in primavera.
“Buongiorno don Memè”, dicevano i vecchi ragazzi con i figli tenuti per mano, ricevendo un’alzata di baffo, o un sorriso con gli occhi.
Diventava, passando di là, un ponte retroverso.
Un passaggio all’indietro. Un risucchio.
Appunto.
Apprendo della sua partenza con la sorpresa di chi, forse come tanti, col passare del tempo, pensava alla definitiva immortalità di Bobby.
Di don Memè.
E penso che aggiungere la mia pagina a quelle già scritte molto meglio, possa comunque servire a fissare un altro chiodo alla memoria collettiva di un luogo.
Perché i luoghi, lo sappiamo, sono persone.
E oggi Melito è don Memè Orlando.