Padrenostro… prega per non farti strumentalizzare, ovvero gli «Anni di piombo» e l’im-possibile riconciliazione.
Primo interrogativo: capisco, fino a un certo punto, “ὁ ἐν τοῖς οὐρανοῖς/ qui es in cælis”, tutt’unito, inteso come definizione indicativa della pericope (περικοπή, perikopé, "ritaglio") del brano contestualizzato all’interno del discorso della montagna (Matteo 5, 7), che presenta la “novità” del Regno dei Cieli, rivestito da un valore quasi programmatico, oppure della sezione “Salita verso Gerusalemme”, collocata all’inizio d’una breve catechesi (Luca 11, 1-13); - anche se poi queste due versioni non corrispondono al significato originale del testo in aramaico in ogni parola, e forse ne riproducono, fin troppo pedissequamente, invece, il senso letterale, per noi ormai poco comprensibile; - ma poi perché il titolo in maiuscolo, che nulla aggiunge all’evidenza dell’archetipo edipico, già rafforzata dalla doppia citazione pasoliniana (“Mamma Roma”) e mantegnesca (Cristo morto) di quella figura di scorcio, ripresa con le piante dei piedi in primo piano? E che c’entra quest’urgente richiamo alla preghiera con la modalità filmica di qualcosa che potrà pure essere un’impellente necessità di spostamento di pulsioni, a mo’ di sublimazione, ma di tipo meno creativo e più risolutore d’un dramma interiore e privato?
Seconda domanda: può una semplice “cartolina” di Stignano (il “casino" di San Fili), o del silano Lago Arvo, oppure le inquadrature quando d’un’anonima spiaggia dello Jonio quando d’una distesa di spighe (probabile omaggio al Gabriele Salvatores di “Io non ho paura”, del 2003?), giustificare (e fino a che punto?) un incondizionato e acritico intervento della Calabria Film Commission?
Ne deriva una terza questione: se il problema è di locations (in linguaggio strettamente cinematografico: “esterno”, sia di giorno che di notte), cioè dei luoghi utilizzati per simulare l'ambientazione d’un film (ambientazione comprendente le unità di luogo e di tempo, nonché soprattutto il clima storico del contesto), suggeriti da scelte scenografiche, fotografiche e pure manageriali, la lista potrebbe venire suggerita sia dalla politica degli operatori turistici sia da uno spontaneo marketing puramente commerciale del settore e, come si suole dire nel linguaggio degli addetti ai lavori, un po’ marpioni, anche il cinema, si ricordi, è finzione tanto che gli “spaghetti western” si sono girati per lo più lontano dal Texas, altrimenti la “Texas Film Commission” si sarebbe dovuta “sobbarcare” un’adeguata “barcata” di soldi.
Quarto dubbio: se la faccenda riguarda i contenuti, ancor prima di sborsare, Pantalone vuol sapere cosa c’è dentro ‘sto “vaso di Pandora”, ovverossia, in maniera inconsueta per le troupe cinematografiche d’assalto, ma aggiornata alla tragica attualità economica: prima “vedere cammello” e dopo pagare moneta.
Quinto punto (ma non ultimo): il tema delle denominazioni d’origine “protette”, risolto subito dalla democratica considerazione che non solo i calabresi possono girare film sulla propria regione, fermo restando che da loro è giusto pretendere che lo facciano, diciamo pure, un po’ meglio, dedicandoci quel tanto in più che ci si aspetta da chi ha dei, sia pur indiretti, legami affettivi, nostalgici, e persino contraddittori e ambivalenti, con la regione di provenienza.
Colpire al cuore
E, ora, alcuni dei precedenti quesiti possono venire risolti subito da una rotazione del nostro disquisire più dichiaratamente sull’argomento specifico già trattato da due registi calabresi che a esso hanno dedicato forse tra i più significativi e riusciti contributi. “Colpire al cuore” (1982) è infatti il brillante esordio di Gianni Amelio, in cui si inquadra, senza riferirsi a specifici episodi, una vicenda di conflitti generazionali, raccontando d’un professore (Jean-Louis Trintignant) che, intrattenendo rapporti con dei brigatisti, viene denunciato dal figlio (Fausto Rossi), entrambi tuttavia presunte vittime delle circostanze.
“La seconda volta”
Quattordici anni dopo, Mimmo Calopresti analizza, nella sua “prima”, “La seconda volta” (1996), i rapporti tra una vittima (un altro professore universitario di Sociologia, che all’epoca andava tanto di moda e faceva tendenza), fortunosamente sopravvissuto a un attentato (Nanni Moretti) e il suo carnefice in gonnella (Valeria Bruni Tedeschi), la quale ormai non lo riconosce (una particolare forma di sindrome di Stoccolma insorta in un post-traumatizzato dalla personalità insicura?).
“Adda passà ‘a nuttata”
Viene allora spontaneo chiedersi, ancora una volta, in che modo il cinema abbia, sino a ora, tradotto quelle che continuano a costituire delle memorie divisive in non banali narrazioni audio-visive, ricordando che il prodotto filmico riproduce in ogni caso lo «spirito del tempo» (Zeitgeist) in cui viene confezionato, rispecchiando obbligatoriamente i più profondi umori contemporanei alla “sua” propria epoca, perfino intercettandone i vezzi, le mode, e spesso anche quelle “paranoie” (?), a volte anticipatrici, nel senso che ci si riferisce a quanto appena trascorso per prevenire, o quanto meno prevedere, il futuro; in ogni caso: “Adda passà ‘a nuttata”.
Le date degli avvenimenti e quelle delle trasposizioni cinematografiche
Da qui l’importanza di tenere, comunque, bene a mente le date degli avvenimenti trattati, - il periodo storico compreso tra la fine degli anni sessanta e gli inizi degli anni ottanta del secolo scorso,- e quelle posteriori (di un decennio e più) della riflessione cinematografica che vi fa riferimento (si notino le differenze tra “Colpire al cuore” del 1982 e “La seconda volta” del ’96), perché il tempo, solitamente considerato solo tiranno, influisce molto sulle modalità d’una, a volte possibile (altre un po’ meno), retrospettiva, la quale può assumere indirizzi decisamente differenti, sul versante storico, socio-politico, come su quello psicologico o immaginativo.
Validità della testimonianza
Un conto è essere stati testimoni in prima persona degli accadimenti, e a che età, ben altro usufruire di “pseudo-memorie” poco attendibili, influenzate da un vissuto emotivo che s’impregna di tanti altri elementi spesso fin troppo discordanti. E non è a sproposito che si formula una tale considerazione, perché il regista di “Padrenostro” (2020), che falsamente ci induce a intendere trattarsi di film espressamente autobiografico, è in realtà nato nel 1975, e quindi all’epoca dell'attentato a suo padre (14.12.1976) non poteva avere l’età del piccolo protagonista dieci/undicenne. E una delle tante debolezze di questo film si basa proprio su questo equivoco preconfezionato a bella posta (la sua non è un’autobiografia, semmai una “dedica” a suo padre), con le pesantissime ripercussioni psicologiche che ne derivano: totalmente diverso trovarsi nella cosiddetta “fase orale” (le cui conseguenze possono essere: mangiarsi le unghie, la bulimia, il fumo, il bere, ecc.), piuttosto che in “fase di latenza”, in cui si tende a interagire con bambini dello stesso sesso (precondizione per giustificare la presenza d’un “amico immaginario”). Insomma, una cosa è avere un’età sufficiente a usufruire di ricordi abbastanza distinti per poi continuare a sentire l’ingombrante peso degli eventi, altra cosa non poter essere in grado di elaborare se non dei pallidi riflessi confusi di discorsi sentiti di sfuggita e suscettibili di fraintendimenti, eventualmente da esorcizzare senza neppure averli ben metabolizzati, neanche inconsciamente.
Veridicità della ricostruzione
La ricostruzione di ciò che non si è vissuto, di conseguenza, rincorre un filo conduttore sfilacciato già alla partenza per poter essere in grado di ricomporre l’atmosfera di quegli “anni di piombo” (a parte la comparsata del gioco del Subbuteo o dell’Alfetta in dotazione alla polizia dell’epoca), neppure aiutata da una colonna sonora ai limiti dell’improponibilità (specie nell’insensatezza d’una modernizzazione delle Quattro Stagioni di Vivaldi, e quella vana “ricerca di se stessi” sollecitata dalle “impressioni di settembre” della PFM).
“Respira con la pancia"
Il pathos necessario a sostenere una finzione cinematografica non sembra capace a sua volta di supportare quegli stati di panico del piccolo protagonista, che si traducono in psicosomatici attacchi d’asma abbastanza ovvi, specie se vuoi ricucire la confusione avvertita in metropolitana e trasmessaci d’emblée, fin dall’inizio, con quel passato da ricostruire affannosamente sulle tracce lasciate disperse lungo un intralciato percorso senza meta.
L’amico immaginario
Molto più interessante l’elemento dell’amico immaginario, creato dalle paure e dalla solitudine, ma di cui si dovrebbe avere nonostante tutto coscienza dell’irrealtà; e quindi non lo si alimenta con bistecche di carne, a meno che non si è Elwood P. Dowd (James Stewart) nell’“Harvey” (1950) di Henry Koster (poi, nel 2001, verrà “Donnie Darko” di Richard Kelly, dopo quel Tony in “The Shining” di Stanley Kubrick, nel 1980, ecc.). Sotto molteplici aspetti quest’elemento problematico, introdotto in modo scoordinato, rende anomalo tutto il successivo procedere d’una “favola di formazione”, innestata a bella posta sul “romanzo familiare”.
“Fratelli di sangue” (innocente & colpevole), tutti insieme appassionatamente?
L’incongruenza è che, qui, la figura fantasmatica dell’amico immaginario viene successivamente, nel corso delle vacanze in Calabria, come ammessa in famiglia quale esemplare di “enfant sauvage” d’altri tempi (o di un pinocchiesco Lucignolo), per poi ripresentarsi, alla fin fine, in carne e ossa, e barba non rasata (quasi come nel fantastico “Pete's Dragon” del 1977, diretto da Don Chaffey, e basato su un racconto breve di S. S. Field e Seton I. Miller), a riannodare il prologo nervoso e ansimante a un finale eccessivamente buonista, e (s-)confortante, tanto da risultare troppo artefatto per non scadere nel leziosamente mieloso con l’andare a chiudere in quel, in fondo in fondo, non è successo niente: “chi ha avuto, ha avuto, ha avuto: chi ha dato, ha dato, ha dato, scurdammece ‘o passato…”.
L'espressione italiana “Anni di piombo” viene mutuata dal film tedesco “Die bleierne Zeit” (Il tempo plumbeo, 1981) di Margarethe von Trotta, che racconta l’analoga esperienza, storica e contemporanea alla italiana, in quella Germania dell’Ovest colpita dalla violenza del gruppo terroristico d’estrema sinistra, definito dapprima “banda Baader-Meinhof”, e poi R.A.F (Rote Armee Fraktion, Frazione dell’Armata Rossa). Per inciso, le possibili considerazioni sui fenomeni irlandesi o ispanici, dell'Irish Republican Army (IRA) e dell'ETA basca, sembrerebbero, apparentemente almeno, un po’ più distanti da quelli nostrani.
Le tensioni al (del e sul) Cinema
Quale specchio dei malesseri sociali, il cinema è stato molto spesso anticipatore delle tensioni politiche destinate formalmente a estinguersi con molta lentezza. E certamente la vita culturale della fine degli anni sessanta, inevitabilmente, sarebbe andata a impattare sul decennio successivo. Ma, già nei mesi prossimi all’attentato di Piazza Fontana, circolavano i nuovi film di Visconti (La caduta degli Dei, 1969), Pontecorvo (Queimada, 1969), Cavani (I cannibali, 1970), Bertolucci (Il Conformista, 1970), e altri ancora, ma soprattutto Petri (Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, 1970), che riscosse un tale successo da ricevere perfino l’accusa di aver “spettacolarizzato”, a scopo economico, i processi sociali e politici appena trascorsi.
La censura della satira politica e della denuncia sociale
Una pellicola apparentemente banale, certo più popolare, leggera e sexy, come per esempio, “Nonostante le apparenze... e purché la nazione non lo sappia... All'onorevole piacciono le donne” (1972), di Lucio Fulci, subisce tagli di censura delle scene più critiche nel ridicolizzare pesantemente le istituzioni compromesse con le trame di potere. In “Mordi e fuggi” (1973) di Dino Risi, che si conclude tragicamente, i tagli riguardano invece una scena erotica.
La trama della tragicommedia “Caro papà” (1979), sempre di Dino Risi, sembra speculare a quella di “Colpire al cuore” di tre anni dopo. “Vogliamo i colonnelli” di Mario Monicelli anticipa d’un anno la loro caduta in Grecia. Insomma, delle tonalità alquanto sinistre segnano i film più esplicitamente politici di quel periodo come pure quelli del più esuberante filone della commedia all'italiana in auge ancora per poco. E basti ricordare l’episodio “Senza parole” del collettaneo “I nuovi mostri” (diretto da Mario Monicelli, Dino Risi ed Ettore Scola, nel 1977) ispirato all'attentato al volo LY 444 della compagnia israeliana El Al.
Lo stesso Petri (Tre ipotesi sulla morte di Giuseppe Pinelli) e Nelo Risi (Dedicato a Pinelli), a ridosso degli avvenimenti, riuniscono i loro sforzi e li ricompongono in “Documenti su Giuseppe Pinelli” (1970). Due anni dopo Pier Paolo Pasolini, con Giovanni Bonfanti di Lotta Continua, gira “Dodici Dicembre”, un’indagine su quella morte avvenuta in circostanze misteriose durante un interrogatorio sulla strage, nonché un racconto, e documentario insieme, sulle rivolte sociali di quegli anni.
L’indifferente conformista, o il conformista indifferente, è tra noi?
Un caso a parte potrebbe essere “Il Conformista”, apparentemente imperniato sull’omicidio dei fratelli Rosselli, perpetrato nel ’37, da parte di sicari di regime, e tratto dall’omonimo romanzo del ’51, scritto da un cugino delle vittime (Alberto Moravia), che a suo tempo s’era dimostrato “indifferente” (il libro è del ’29) allo strazio della zia Amalia Pincherle, per cui ci sarebbe da pensare che forse si trattasse d’una metabolizzazione del proprio lutto o d’una tardiva compensazione letteraria del rimorso provato.
Il rosso e il nero
Devono passare trent’anni perché un documentario della RAI, a cura di Carlo Lucarelli (Gioia Tauro: la strage dimenticata) agganci l’oscuro caso d’un disastro, definito colposo, alla storia nazionale, in quanto alla politica dominante serviva una “Reggio (capoluogo) nera” da contrapporre alla “Milano (capitale economica) rossa”. Il 22 luglio ‘70 una bomba nei pressi della stazione di Gioia Tauro uccide sei persone e ne ferisce una sessantina.
La fine dell’innocenza
Poco prima della morte di Pasolini, nel 1975, la vittoria della sinistra era apparsa quasi come un segno di spoliticizzazione, e un adattamento all’imminente degradazione. “Il... Belpaese” (1977), di Luciano Salce, offre ancora dell’amara speranza; “San Babila ore 20: un delitto inutile” (1976), di Carlo Lizzani, esplorava la sottocultura dei giovani neofascisti; e “Un borghese piccolo piccolo” (1977), diretto da Mario Monicelli, decretava la definitiva morte della commedia all'italiana.
Succube d’una duplice manipolazione il protagonista di “Messer in Kopf” (Il coltello in testa, 1978) di Reinhard Hauff. Firmato a più mani da Alexander Kluge, Volker Schloendorff e Rainer Werner Fassbinder, “Deutscher Herbst” (Germania in autunno, 1978), si mostra coraggioso, eppure controverso, sugli eventi tedeschi di quel periodo (omicidio del banchiere Jürgen Ponto, rapimento e uccisione dell'industriale Hanns-Martin Schleyer, dirottamento dell’aereo Lufthansa da parte d’un gruppo di militanti del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, nonché il misterioso suicidio nel carcere di Stammheim di tre esponenti della Rote Armee Fraktion), finendo col denunciare il clima da caccia alle streghe, all’indomani delle misure adottate dalla polizia contro i terroristi.
Il cinema italiano avrebbe invece privilegiato quell’aspetto del predominio del privato sul pubblico, con conseguente perdita dei valori d’appartenenza alla società civile e la celebrazione del consumismo superfluo. Il tema del terrorismo sarà affrontato da pochissimi: in “La tragedia di un uomo ridicolo” (1981), Bernardo Bertolucci rappresenta quella borghesia che cerca di barcamenarsi in mezzo alle tante incertezze di quegli anni.
Marco Tullio Giordana
Quasi ossessivo l’interesse di Marco Tullio Giordana, sin dal suo debutto; e a “Maledetti vi amerò” (1980) si dev’essere rifatto, molto probabilmente, Claudio Noce per le scene in cui si riproducono i contorni degli uccisi sul selciato. Con “La caduta degli angeli ribelli” (1981), Giordana ritorna subito ad affrontare l’impossibilità d’un concreto rapporto con la realtà da parte delle grandi ideologie; poi dovranno però passare poco meno di tre lustri per il docu-drama: “Pasolini- un delitto italiano” (1995), che ripropone l’atto d’accusa contro la DC, esternato dal poeta assassinato in uno dei suoi ultimi scritti giornalistici: "...indegnità, disprezzo per i cittadini, manipolazione del denaro pubblico, intrallazzo con i petrolieri, gli industriali, i banchieri, convivenza con la mafia, alto tradimento in favore di una nazione straniera, collaborazione con la CIA, uso illegale di enti come il SID, responsabilità nelle stragi di Milano, Brescia e Bologna..."; otto anni più tardi, il bilancio d’un’intera epoca (“La meglio gioventù”, 2003), e, a distanza di 43 anni dall’attentato: “Romanzo di una strage” (2012).
Segreti segreti
La tendenza più generale del cinema italiano è sempre comunque quella verso l’evasione che trascuri così degli argomenti considerati fin troppo scottanti. Se ne discostano, tuttavia, Giuseppe Bertolucci, fratello minore di Bernardo, nel rimescolare vari temi, in “Segreti segreti” (1985), inanellando una serie eptadica, tutta al femminile, di rapporti madre/figlia, tra attentati, tentennamenti, omicidi, terremoti, ripensamenti, delazioni, confessioni, appena celata dietro la presunzione di negare le sconfitte, per cui persino un suicidio fallito va considerato un tentativo non condotto a termine.
Il caso Moro
Mentre, in Germania, nello stesso anno, “Stammheim” di Reinhard Hauff, manteneva ancora ben desta l’attenzione sulle oscure morti dei tre imputati rimasti del gruppo Baader-Meinhof, in uno stile di generi contaminati, un po’ thriller un po’ documentario di aperta denuncia, i 55 giorni del rapimento dello sfortunato statista democristiano furono ripercorsi in maniera neutrale da Giuseppe Ferrara ne “Il caso Moro” (1986), tratto dal libro di Robert Katz. “Buongiorno, notte” di Bellocchio è del 2003, “Se sarà luce, sarà bellissimo: Moro, un’altra storia” di Aurelio Grimaldi del 2004, “Aldo Moro il professore” di Francesco Miccichè, del 2018. Via Fani, via Montalcini, via Caetani, sono le mute protagoniste d’un documentario di Sergio Zavoli del ‘90.
Per non dimenticare
Alla sociologia e al documento, negli anni Novanta, si preferisce la riflessione in chiave psicologica. “Una fredda mattina di maggio” (1990), diretto da Vittorio Sindoni, è liberamente ispirato all'assassinio del giornalista Walter Tobagi, avvenuto a Milano dieci anni prima, il 28 maggio 1980. “Per non dimenticare” (1991) di Massimo Martelli, raccoglie le piccole storie di vita quotidiana immediatamente precedenti l’esplosione della bomba alla stazione di Bologna. “La mia generazione” (1996), diretto da Wilma Labate, tratta la difficile scelta di collaborare con la giustizia, tradendo le proprie convinzioni e dimenticandosi di se stessi.
E forse basta fermarci qui, sia per rimarcare come un primo tentativo di riappacificazione degli animi sia avvenuto in quel decennio (“La seconda volta”, 1996), sia perché stranamente al cinema italiano degli anni ‘90 sembra riportarci l’ambientazione di Noce, a quelle riproduzioni stereotipate, a quella piattezza priva d’inventiva e di vigore; persino Favino non sembra essersi ancora svestito dei panni di Buscetta (“Il traditore”, di Bellocchio, 2019), tanto che c’è da supporre che la Coppa Volpi gli sia stata assegnata per quell’interpretazione, non certo per questa non all’altezza del premio (o sono i conferimenti troppo spesso inadeguati?).