Nel nostro paese abbiamo assistito a diverse ondate di flussi e riflussi demografici, da parte di nostri concittadini all’interno della nazione, quasi esclusivamente dal mezzogiorno e dalle isole verso il nord-Italia, in seno alle regioni dell’Europa,
come pure transoceanici (emigrazione), a volte seguiti da rientro, magari unitamente alle nuove generazioni nate fuori (remigrazione), e, del tutto più recentemente, a massicci ingressi di nomadi, richiedenti asilo, e altro genere di disperati in cerca di fortuna (immigrazione). Indubbiamente la forma più comune di migrazione è quella di chi si sposta per motivi economici, alla ricerca di un lavoro. Può trattarsi di un movimento massiccio che avviene, all’interno dello stesso paese, da una zona rurale a una urbana, come da un’area dalle condizioni ambientali sfavorevoli a una società a maggior sviluppo. Ci sono, poi, i rifugiati di guerra e gli esiliati politici, i quali soffrono un vero lutto da separazione (Munoz L., 1980), sia per via dell’assoluta mancanza di progettazione, sia a causa del vissuto di espulsione, che alimenta sentimenti di netta aggressività, non ben indirizzata, bensì sentita come “sospesa” (Perez M. M., 1984). Tra i rifugiati di guerra è soprattutto l’integrità del nucleo familiare e gli effetti personali a venire danneggiati più seriamente, per le gravi perdite finanziarie. Comunque, in caso di persistenza di un disturbo postraumatico da stress, la depressione, legata ai fattori di disagio più recenti, perché successivi alla migrazione, segue un andamento del tutto indipendente (Sack W. H., Him C. & Dickson D., 1999).
Gli stress affrontati possono essere naturalmente connessi ad aspetti pratici, quali trovare un lavoro, un’abitazione, istruirsi, ed eventualmente padroneggiare la lingua, essere accettati e intessere una rete di relazioni. Apprendere dei pattern comportamentali tipici di un nuovo stile di vita, che rispecchino la differente gerarchia di valori, costituisce un processo di adattamento e di trasformazione talmente elaborato da procurare quella forte pressione psicologica che si va a scontrare con la questione del mantenimento dell’identificazione etnica e culturale, sfociando in un conflitto interiore, in cui dibattito e negoziazione sono destinati a rincorrersi indefinitamente.
Le modalità di adattamento possono seguire delle strategie differenti, a seconda di alcune variabili. In base all’ambiente, ad esempio, refrattario, e alle relazioni di gruppo, un nucleo di immigrati può intrattenere scambi soltanto con coloro che appartengono alla stessa etnia, conservando quindi la lingua madre, socializzando prevalentemente tra di loro, persino risiedendo negli stessi quartieri; questa modalità, che non ricerca un vero inserimento nel paese ospitante, ha finito per formare le note “China Town” o “Little Italy”. Viceversa, secondo un altro ambiente, più propizio, e la personalità individuale, si possono ricercare una rapida acculturazione e un’aggregazione imitativa, che, qualora non dovesse riuscire, provocherebbe però frustrazione e squilibri. Se l’ambiente viene percepito nettamente sfavorevole e riluttante, prevale allora una modalità di tipo difensivo, che conduce all’assunzione di una posizione persecutoria, con accentuata diffidenza, sfiducia, sospettosità, sino a manifestazioni di tipo paranoicale (Ndetei D. M., 1988).
Quanti sono orgogliosi della loro cultura d’origine possono essere renitenti ad acquisire un nuovo stile di vita e nutrono più forti pregiudizi nei confronti degli ospitanti. Se il processo di passaggio tra le due culture viene prospettato graduale e aperto, la conflittualità della scelta si avvertirà, in ogni caso, molto di meno. Se invece il processo viene imposto come forzatamente unidirezionale, sul piano psicologico, se ne percepirà l’estrema difficoltà e si avvertirà quella stessa notevole tensione di quando ci si sente come presi in trappola. La possibilità di una “pausa, ritorno e regressione culturale” svolge infatti la funzione quasi di un respiro di sollievo. Un’integrazione possibile si attua così più facilmente in un contesto disponibile a quell’eterogeneità che promuova il “melting pot” e armonizzi la purezza originaria con il confronto tra diversità, magari sottolineando le affinità piuttosto che le differenze. Trincerandosi dietro un background incontaminato, diverrà invece assillante la pretesa di un’impossibile assimilazione incondizionata.
Lo sviluppo pre-migratorio di speculazioni infarcite di aspettative irrealistiche o, viceversa, di preoccupazioni immotivate, genera un eccesso di fantasticherie, di confusione e di incertezza, destinato a perdurare per tutta quella fase stressante in cui si vive la condizione iniziale dell’esilio (Sluzki C. E., 1986). Superata questa, in alternativa alla frustrazione, si potrebbe esperire un’esaltante euforia, quasi da “luna di miele”. Nel corso degli anni successivi, lo sforzo di acquisizione dei nuovi modelli continuerà ancora a scontrarsi con la necessità di mantenere almeno alcune delle peculiarità più tipiche della cultura d’origine, trovando ovviamente i maggiori impedimenti in quei paesi ospitanti dove ci si aspetta che l’integrazione sia immediata e totale (Ebata K. et al., 1995). Sono infatti necessari alcuni anni, dopo essersi trapiantati, per ristabilire un equilibrio psichico, quando l’interreazione avviene con un ambiente socioculturale in cui le differenze siano molto accentuate; a volte, addirittura, si assiste a un periodo intermedio in cui, pur diminuendo l’inadeguatezza, si vanno tuttavia incrementando sentimenti di rabbia e ostilità (Lin K. M., Tazuma L. & Masuda M., 1979). Sintomi, quali somatizzazione, fobia, depressione e calo dell’autostima tendono a ridursi parallelamente al processo di acculturazione (Westermeyer J., Neider J. & Vang T. F., 1984), mentre ansia, ostilità e paranoia subiscono minori modificazioni.
Quanti, maggiormente motivati ad affrontare un forte impatto transculturale, abbiano nutrito le più alte aspettative pre-migratorie, dopo il loro insediamento, sono poi quelli che ovviamente lamentano minori disturbi psicologici, rispetto a chi ha invece dimostrato una maggiore resistenza iniziale (McKelvey R. S., Mao A. R. & Webb J. A., 1993). Difatti, i cosiddetti viaggiatori occasionali, avendo un loro ben chiaro programma, purché includa, quasi certamente, il ritorno al paese d’origine, non sono costretti ad affrontare un forzato adattamento radicale, semmai potranno essere le loro compagne, usualmente abituate a restare in casa, a tendere a isolarsi dalla società che le ospita, soprattutto se con bambini ancora piccoli di cui prendersi cura (Armes K. & Ward C., 1989).
Eppure, un eventuale ritorno al paese d’origine non sembra sia del tutto esente da una sorta di “shock culturale inverso”, a causa del riadattamento da “remigrazione”. Dopo un prolungato soggiorno in paesi stranieri, avvengono inevitabilmente dei cambiamenti tra le relazioni interpersonali e le amicizie lasciate in patria, che potrebbero essere anche in qualche modo giustificati da maggiore obiettività e da una crescita personale; comunque, le difficoltà al rientro possono procurare quello che si deve considerare come un vero e proprio shock culturale “inverso” perché dovuto al riadattamento alla propria cultura di appartenenza; in base alla durata dell’assenza, all’entità della presa di distanza, ai preesistenti legami familiari e ai precedenti anamnestici, le problematiche riscontrate possono coinvolgere il sistema di valori, con conseguenti incongruenze e disillusioni, l’affettività, per via dei sentimenti di distacco dalla famiglia e dalle amicizie, nonché le funzioni cognitive, sino al disorientamento ambientale (Hertz D. G., 1984).
Renos K. Papadopoulos (“Therapeutic Care for Refugees. No Place Like Home”, 2002) evidenzia il disorientamento per ciò di cui si rivela impossibile stabilire con esattezza l’origine precisa in una perdita che non si limiti a quella tangibile di una abitazione, ma che va allargandosi alla perdita di tutti i tipi di rapporti personali che il soggetto intrattiene con l’ambiente sociale circostante, con gli altri, e perfino con più sé, dal reale all’idealizzato. La perdita riguarda la chiave medesima della libertà e dell’identità. Ritrovare altrove questa chiave perduta diviene una ricerca senza speranza, perché sia la chiave sia la speranza sono state smarrite in quella “casa” che più non c’è, pertanto anche l’altrove andrà viepiù assumendo i connotati dell’irraggiungibile. Il trauma è quello solito dell’abbandono; senza approdo e senza ritorno, la storia si fa incerta e anche la “narrazione” si ingarbuglia affinché il subìto trauma non dipani l’ordito della trama. Con l’erranza, con il nomadismo, con il randagismo, con l’esilio si lascia il linguaggio, la famiglia, la terra per andare a incamerare angoscia, disperazione e quel terrore di morire tra stranieri, equivalente al timore di restare insepolti.
“Hai detto: - Per altre terre andrò per altro mare. / Altra città, più amabile di questa, dove/ ogni mio sforzo è votato al fallimento/ dove il mio cuore come un morto sta sepolto / ci sarà pure. Fino a quando patirò questa mia inerzia? / Dei lunghi anni, se mi guardo attorno, / della mia vita consumata qui, non vedo/ che nere macerie e solitudine e rovina. -// Non troverai altro luogo non troverai altro mare. / La città ti verrà dietro. Andrai vagando/ per le stesse strade. Invecchierai nello stesso quartiere. / Imbiancherai in queste case. Sempre/ farai capo a questa città. Altrove non sperare, / non c’è nave non c’è strada per te. / Perché sciupando la tua vita in questo angolo discreto/ tu l’hai sciupata su tutta la terra.” (Konstantinos Kavafis: “La città”)
Senza potersi far capire si è incompresi; senza punti di riferimento ci si sente persi; senza storia, si è come morti. La propria identità si stempera nel tentare di conformarsi allo sguardo altrui, col risultato di una scissione sofferta tra chi si è, chi si è stati, chi si vorrebbe essere; mentre a miscelarsi è la necessità di riconoscimento, il rispetto perduto e tuttora ricercato, il desiderio di incontrarsi per non restare soli. D’altro canto, per lo più, si intravede sospetto ed esclusione per una qualsiasi diversità che rimette in discussione le certezze degli altri, oppure disprezzo e ostilità persino per una somiglianza che voglia mimetizzarsi, col rischio di divenire forse più realista del re. Comunque, sempre persiste un abbinamento di idealizzazione e disillusione per quell’integrazione che si rivela impossibile, anche dove si intercetta accoglienza. Sentimenti di nostalgia e lontananza conducono alla deriva la provenienza e l’appartenenza sino al distacco definitivo. E neppure un eventuale ritorno sarà in grado di colmare questo vuoto.
Se il viaggio è una disponibilità alla scoperta e all’incontro, come pure al disordine, restare sembra l’antitesi del viaggiare, del mettersi in discussione, ribadisce Vito Teti in “Pietre di pane. Un’antropologia del restare” (Quodlibet, Macerata 2011). Da una parte Ulisse, dall’altra Penelope e l’una non avrebbe senso senza l’attesa dell’eroe. Eppure, quest’ultimo è unico nell’incarnare il molteplice mito eroico maschile della ricerca, mentre occorrono più figure femminili (Circe, Calipso, Nausicaa, Atena, le Sirene…) per rappresentare una sedentarietà in agguato, la pazienza, la speranza, la continuità…
A ogni partenza corrisponde dunque un’attesa. All’uomo che si avvia offrono significazione le donne che restano, moltiplicando il loro ruolo nell’organizzazione dell’attesa, che potrà essere coronata da successo materiale, come costituire un fallimento morale. Senza il ritorno ogni attenzione verrà infine “dis-attesa” in una confabulazione giustificatrice. Perché, se l’esigenza del ritorno consiste nella possibilità di raccontare, il bisogno del mancato rientro si tradurrà in una necessità di fornire spiegazioni. Gran parte dell’Odissea è impostata infatti sul racconto che il viaggiatore per antonomasia intesse nella lunga narrazione esposta, in forma di analessi, ai Feaci (Apologhi presso Alcinoo).
Il racconto varia a seconda se viene esposto al ritorno ed allora sarà basato sull’esperienza, oppure “in itinere” e, in questo caso, a riemergere sarà il richiamo dell’appartenenza. Viaggiare e narrare rappresentano tutta una letteratura specifica che dall’invito e dalla guida in un luogo sconfina nel perdersi, nel vagabondare, per poi ritrovarsi. Joseph Conrad faceva la considerazione: “Niente è più incerto del destino dei racconti di viaggio. Non c’è un’altra forma di produzione letteraria che dia un maggiore spunto alle critiche. Scrivere un libro di viaggi significa mettersi in balìa dei propri detrattori. L’autore di un’opera di divulgazione scientifica è in una posizione migliore, poiché il soggetto di cui tratta è in realtà straordinario in sé, ed è per questa ragione che un certo numero di intellettuali finisce per assimilarlo in modo febbrile, o per lo meno per accettarlo pedissequamente, per tirare infine delle conclusioni che appagano il proprio senso di meraviglia.”
Si può rimanere se stessi allontanandosi definitivamente e ci si può aprire al mutamento senza effettuare nessuno spostamento. Joseph Freiherr von Eichendorff in “Aus dem Leben eines Taugenichts” (vita di un perdigiorno, 1826) e Xavier de Maistre, in “Voyage autour de ma chambre” (viaggio intorno alla mia camera, 1794) e nel sequel “Expédition nocturne autour de ma chambre” (spedizione notturna attorno alla mia camera, 1825), raccontano di scoperte introspettive fatte senza muoversi di un passo.
Adelbert von Chamisso, in “Peter Schlemils wundersame Geschichte” (storia meravigliosa di Peter Schlemihl , 1814), narra di un uomo che, vendendo la sua ombra, si condanna all’erranza, per andare alla ricerca della salvezza in questa prospettiva di viaggio senza direzione. E la vicenda del “doppio” ripercorre pari pari l’esperienza binaria di allontanarsi e di restare.
”Ma come il viaggio non comporta necessariamente spostamento mentale, l’attesa può essere accompagnata da un grande mutamento esteriore e interiore. - sostiene Vito Teti in “Pietre di pane. Un’antropologia del restare” (2011) - Il viaggio può essere un falso spostamento e la stanzialità può essere segnata da grandi cambiamenti.”
L’occhio dell’uomo curioso vede un altrove anche nel posto in cui abita e, per via della percezione che ha di sé, scorge il diverso nell’endotico, ibridando lo straordinario nel senso comune. Nello spaesamento l’ordinario si presenta invece estraneo, allorquando non avviene il riconoscimento di ciò che ci era familiare (unheimlich), ma in fondo in fondo la differenza sta tutta nelle motivazioni.
Per Heidegger (“Sein und Zeit”, 1927) sembra che il nostro maggior problema sia riposto proprio nello stare a casa. Giusto attraversando la propria contrada può accadere l’incontro con qualcosa che non ci contrasti. Mentre il “non-essere-a-casa” assume priorità ontologica poiché è nello spaesamento (unheimlich) che dovremmo rintracciare il fondamento stesso del nostro “essere nel mondo” (dasein).
“Da decenni faccio i conti con lo svuotamento dei miei paesi, con la delocalizzazione della mia regione: le più grandi città calabresi sono nate all’estero. E negli ultimi anni la terra della fuga e delle partenze diventa luogo di arrivo, di accoglienza, talora di espulsione. – scrive Vito Teti in “Pietre di pane. Un’antropologia del restare” (Quodlibet, Macerata 2011) - I grandi spostamenti di popoli mi fanno vivere con disagio e con amarezza, con inquietudine e con incertezza, il problema del destino delle zone interne, la fine del paese, la fine dei paesi presepe. Intanto le città si clonano; uguali in tutto il mondo, con le stesse strade, gli stessi centri commerciali, gli stessi empori.”
Vito Teti si domanda: “che senso dare al restare oggi, in un mondo di non luoghi, di non ancora luoghi, o di non più luoghi?... conosco persone che hanno viaggiato molto e non hanno visto nulla. Ho incontrato persone che hanno fatto tutti i viaggi di questo mondo e non hanno mai camminato. Conosco persone rimaste ferme che conoscono il mondo…”. Ogni luogo è relativo ad una distanza, alla distanza da un altro luogo o da un altro osservatore. Perché come esiste una topografia particolareggiata dei posti terrestri, ognuno di noi ha interiorizzato un’altrettanto dettagliata geografia immaginaria. La lontananza, allora, può essere espressa con un desiderio o un’indifferenza, un’esperienza o una fantasia, per i quali ogni sguardo è difettoso, sia nel senso della miopia esteriore sia in quello della presbiopia interna, in quanto il vero problema del vedere consiste nel “come” si osserva. Gli scopi dell’osservazione possono colmare distanze reali, e le modalità di partecipazione, nel contempo, costituire un’invisibile barriera insormontabile.
L’apertura degli orizzonti, quindi, rappresenta un qualche esercizio di verità, e mettersi in gioco contiene un certo potenziale salvifico. Spaziare, anche solo su se stessi, è catartico quanto un racconto di fiabe. Non per nulla in esse, quel “cammina cammina…” assume una funzione interiettiva verso l’affrancamento o la risoluzione.
Le fiabe Walter Benjamin le considerava come “delle precauzioni prese dall’uomo per dissipare l’incubo mitico” ("The Story-Teller: Reflections on the Works of Nicolai Leskov", 1963). Mentre il Kurtz di “Heart of Darkness” (Joseph Conrad, 1899), in punto di morte, tenta il movimento contrario, quello verso “l’orrore”. Un sovvertimento liberatorio coincide con un compimento fatale nel “destino narrativo” e l’asse del cambiamento, pur se trattenuto, non potrà che porsi dalla parte del futuro. Partendo dalle origini, la narrazione insegue qualcosa che sorge, come un rischio, si affranca dal passato per affrontare il niente. L’invenzione, mediante la parola, è una lotta di liberazione da quel fondo mitico che impedisce di crescere. Questo tema della fuoriuscita, già da solo, giustifica la pratica psicoanalitica alleata contro i demoni interiori. La sfida narrativa consiste nella scelta di un campo di battaglia dove essi vengono trasformati in personaggi. Poiché il processo di salvazione passa attraverso l’assunzione della concezione romanzesca della propria esistenza. In fondo, trascorriamo la gran parte del nostro tempo a narrare delle storie, a raccontarci come protagonisti, a intessere la trama della nostra vita.
Paul Ricoeur (Temps et récit), a proposito, ha parlato di “strutture prenarrative dell’esperienza temporale”. Si tratta di una terapia spontanea, che, sdoppiando il trascorso, proietta nel futuro, per sfuggire l’isolamento, e fornire di senso l’attesa di un’effettiva presenza di interlocutori. Il fantasma proveniente dal passato, nato da un’esperienza irripetibile, è quel doppio che, nel concretizzarsi in alterità o in assenza, si ritualizza in accoglienza o in viaggio interiore, formalizzando una delle tante variazioni possibili della solitudine.
«Linque tuas sedes, alienaque litora quaere / o iuvenis: maior rerum tibi nascitur ordo. / Ne succumbe malis: te noverit ultimus Ister / te Boreas gelidus securaque regna Canopi / quique renascentem Phoebum cernuntque iacentem: / maior in externas Ithacus descendat harenas» (Petronio, XLIV)
Il termine “nostalgia” esprime una forte emozione (àlgos, dolore) nei confronti del ritorno (nòstos). Per la prima volta, compare nel vocabolario scientifico del XVII secolo ad opera di uno studente alsaziano, Johannes Hofer, il quale lo impiega nella sua “Dissertatio medica”, presentata all’università di Basilea il 22 giugno del 1688, per descrivere una patologia, definita sino ad allora con la designazione popolare di «mal du pays» o «Heimweh» (letteralmente: il dolore della casa), perché diffusa tra quanti costretti dall'arruolamento come truppe mercenarie a starsene a lungo lontani dal paesaggio elvetico. Una melanconia che paralizza nell’ossessione, nell’assillo, nel delirio, in un distacco dal reale circostante, oppure diviene un modo d’essere, fatto di ricordi, speranze, attese, racconti veri o inventati, o ancora si sdoppia in nuove identità, magari all’ombra di coloro che sono rimasti.
L’ambiguo legame che unisce chi resta e chi parte è impregnato di distorsioni, proiettate su aspettative che si rincorrono reciprocamente, senza mai ricomporsi, se non nella scoperta finale di quell’inganno semantico che sempre, comunque, sposta la stessa vita “altrove”, e lascia che in comune rimanga solo l’inquietudine.
Lo smarrimento e l’angoscia territoriale fanno da contraltare alla “pulsione viatoria” del nomade randagio, senza radici e senza appartenenza, portatore di una sorta di “anostalgia”, equivalente all’estinzione del sentimento del luogo, in quanto ciò che era relazionale, e concreto, è stato reso uniforme, e destoricizzato. L’anomia è invivibile, indefinibile, spersonalizzante, e, con la sua forza disgregante, impone quasi il ricorso alla strutturazione di altre identità e nuove presenze.
E’ proprio nei “non luoghi” che si avverte più forte l’esigenza del riconoscimento, anche solo del doppio o della propria ombra. Giusto qui, nell’incontrollabile, la nostalgia rischia di ridursi maggiormente a particolarismo, a riaffermazione di separatezze, a misurazione di distanze. Se Ralph Harper (“Nostalgia”, 1966) la considera positivamente come sentimento morale rigenerativo, in grado di proteggere da un deciso sradicamento definitivo, c’è anche da sottolineare in essa un bisogno di appartenere a qualcosa, o di presenziare da qualche parte, esigenza impellente almeno quanto quella di prospettarsi un futuro. Ma il “non luogo”, dichiara Marc Augé (“Non-Lieux. Introduction à une anthropologie de la surmodernité, 1992), è il contrario dell’utopia, mentre per l’affermazione di un sentimento di speranza occorre invece un “appaesamento”, conoscenza e riconoscimento di un luogo qualsiasi, nuovo o vecchio che sia, visto che il mondo ha perso i suoi spazi in quella constatazione esclamativa di “quanto sia piccolo!”. E forse, da quando il nostro pianeta è diventato troppo stretto, non si parte più veramente.
Il luogo va ridefinito e, se scomparso, reinventato. Nostalgia delle origini e desiderio di riconoscimento per chi arriva, completo unheimlich per chi è rimasto e teme un esproprio. Perché restare giunge pure ad assumere il significato di un interrogativo, per il quale la risposta potrebbe essere inaspettatamente quella di scoprirsi un po’ tutti “fuori luogo”.
“La resistenza dell’intellettuale nel suo paese nativo riveste spesso il carattere di un eroismo disperato” declama Mario La Cava in “Corrispondenze dal Sud Italia” (2010). Si dice che si parte anche quando non c’è ritorno, e, in questo senso, non si resta mai, poiché, pur stando fermi, a mutare è il mondo in perenne movimento, cosicché, molto probabilmente, per rimanere occorre altrettanto coraggio che per andar via.
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