«… Sapientiam quidem ipsam quis negare potest non modo re esse antiquam, verum etiam nomine? Quae divinarum humanarumque rerum, tum initiorum causarumque cuiusque rei cognitione hoc pulcherrimum nomen apud antiquos adsequebatur. Itaque et illos septem, qui a Graecis σοφοί, sapientes a nostris et habebantur et nominabantur, et multis ante saeculis Lycurgum, cuius temporibus Homerus etiam fuisse ante hanc urbem conditam traditur…» (…chi può negare che la saggezza stessa non sia antica solo di fatto, ma anche di nome? Per la conoscenza delle cose divine e umane, e dei principi e delle cause di ogni cosa, ottenne questo bellissimo nome fra gli antichi. E così anche quei sette, che dai Greci furono considerati σοφοί e saggi dai nostri vennero nominati, e molti secoli prima di Licurgo, al tempo in cui si dice che Omero sia esistito prima ancora che questa città fosse fondata…) – Cicero: Tusculanae Disputationes V, III, 7.
I sette sapienti
«Oἱ ἑπτά σοφοί» di cui sopra sarebbero vissuti in un periodo compreso tra la fine del VII e il VI secolo a.C., rappresentando alcune personalità pubbliche dell'antica Grecia, esaltate dai posteri come modelli di saggezza pratica e simbolicamente elencati in un numero tradizionalmente sacro: sette, in quanto “amitor” (ἀμήτωρ, senza madre) non prodotto fattoriale, dunque, bensì formato dal 4 (azione, materia, femminile) più il 3 (spirito, sapienza, maschile), e quindi “Veicolo di Vita”.
La cifra del Sette
Nella mitologia greca antica, tale cifra si trova ripetutamente come quella di membri di vari gruppi divini (per esempio, le Pleiadi, o le Esperidi). Anche Niobe ebbe 7 figli e 7 figlie con il tebano Anfione, i Niobidi, sterminati da Apollo e dalla di lui sorella Artemide. Tebe fu dapprima assediata dai famosi Sette, e successivamente dai loro discendenti, gli Epigoni. Quando Ulisse arrivò per la prima volta sull'isola di Calipso (Ogigia) rimase per una settimana in balia del mare. Esiodo, in "Έργα και Ημέραι", Opere e giorni (770-779), afferma come il settimo giorno d’ogni mese sia santo, poiché avrebbe dato i natali ad Apollo: Πρῶτον ἔνη τετράς τε καὶ ἑβδόμη ἱερὸν ἦμαρ·...
La E di Delfi
Nonostante il dialogo di Plutarco “Sulla E a Delfi” (Περὶ τοῦ Εἶ τοῦ ἐν Δελφοῖς) si soffermi di più sul rapporto del dio con il cinque (πέντε, nella numerazione ionica rappresentato dalla lettera ἔψιλον, epsilon), quante le dita della mano e i Dattili (Δάκτυλοι), piuttosto che con il sette (επτά, indicato dalla ζῆτα, zeta; in quanto il sesto posto dell’alfabeto era occupato dal digamma), un tale valore sacrale veniva attestato, in particolare, proprio nel culto di Apollo Elio, a sua volta padre di sette figli e dio di quella “sapienza” religiosa delfica a cui sembra ricollegarsi la medesima tradizione dei "sette".
Convivium septem sapientium
Gli incontri supposti tra loro, come ricordati dal Convivium septem sapientium di Plutarco, promuovono perfino l’idea d’una specie di ἀγών, gara, al fine d’assegnare in premio un tripode (da τρεῖς, tre e ποδ-, πούς, piede), opera di Efesto, al più saggio dei Greci, e che alcuni di loro si rimandarono dall'uno all'altro, fin quando non si decise di dedicarlo espressamente ad Apollo, perché il più meritevole di tutti.
“Il catalogo è questo”
Il classico “catalogo” é quello fornito da Platone, nel Protagora (343°), e si compone di “Talete di Mileto, Pittaco di Mitilene, Biante di Priene, il nostro Solone, Cleobulo di Lindo, Misone di Chene e per settimo si diceva ci fosse anche il lacedemone Chilone”, con l’inserimento del penultimo al posto di quel Periandro di Corinto scartato perché giudicato un tiranno crudele, nonostante gli sia attribuita l’affermazione «Δημοκρατία κρεῖττον τυραννίδος» (La democrazia è meglio della tirannide). - Dall’altro celebre detto del figlio di Cipselo, «μελέτα τὸ πᾶν» (pensa al tutto), Martin Heidegger avrebbe sviluppato la tematica della differenza ontologica fra essere ed ente, intendendolo come: "averne cura nel suo insieme".
Per venire incontro alle pressioni politiche insorte nel frattempo, Ermippo (Vite degli uomini illustri, Βίοι τῶν ἐν παδείᾳ διαλαμψάντων), accresce il numero dei σοφοί sino a diciassette. Gli altri menzionabili potrebbero essere Lino, Orfeo, Epimenide, Epicarmo, Anacarsi, Leofanto, Acusilao, ecc.
Il tripode
Alle diverse narrazioni leggendarie relative alla primitiva redazione dell'elenco eptadico o, che dir si voglia, ebdomadico, per Diogene Laerzio, era, comunque, imprescindibile il tripode sacro ad Apollo, sul quale sedeva la Pizia, - banalmente da Πύθων, il pitone ucciso dal dio, oppure da un più arcaico e pelasgico Py(e)tja, che indicherebbe quella "domanda" da porre onde ottenere il responso.
Kroton
Ed avendo Miscello da Ripe (nell’Acaia) ricevuto così l’oracolo sulla fondazione della polis (πόλις) magno-greca di Kroton (Κρότων), il tripode delfico ne sarebbe divenuto l’emblema, anche se forse questo potrebbe essere frutto della contaminazione di un'altra ktisis (κτίσις, intesa quale atto di fondazione della colonia), quella mitica da parte d’un Eracle ecista che avrebbe provato a contenderselo con l’Apollo iperboreo, di cui si diceva che Pitagora fosse l’incarnazione.
Il crocidio degli uccelli palustri
Κρότων, infatti, sarebbe potuto derivare anche dal nome del figlio di Eaco, ucciso per errore da Eracle, oppure da quello del fratello di Alcinoo, re dei Feaci, o ancora dall’onomatopeico crocidio degli uccelli delle vicine paludi costiere.
La raganella di Archita
Il tema del crocidio degli aironi, o delle gru, ritorna nella cosiddetta “raganella” di Archita di Taranto, il saggio appartenente alla "seconda generazione" della scuola pitagorica; quel “giocattolo” riproducente crepitio, a mo’ di nacchere, definito πλαταγή dai greci e crepitaculum dai latini, finalizzato all’apprendimento (παιδεία) della musica e d’un’arte manuale, e successivamente evolutosi in σημαντήριον, pei greci (e per noi bàttola, da impiegare nei riti della settimana santa), pur nella sua semplicità, è un esempio d’impegno pedagogico, meccanico, melodico e liturgico insieme; inoltre, come Eveno, il discepolo del crotoniate Filolao pensava che anche la grammatica fosse soggetta al ritmo.
La trottola magica
I “rombi magici che si fanno girare nei misteri”, di cui parlava Archita, designavano ogni corpo a forma circolare (ῥόμβος, o trottola) da poter muovere su se stesso (ῥέμβω), il cui prillo poteva essere impiegato a scopo didattico per rappresentare, in seno all’armonia cosmica, le evoluzioni della sfera celeste.
Lo strophalos di Ecate
Nel riferirsi a una divinità preolimpica, figlia di Erebo e Notte (che aveva preso posto tra le altre pre-elleniche, come Afrodite, Artemide, Atena/Metis, Demetra, Era, Gaia, Persefone, Rea, ecc.), Ovidio descriveva Ecate come chi «… conosce le arti magiche (...)/ sa bene quale sia il potere (...)/ del filo messo in movimento dalla/ trottola che gira» (Amores, I, 8. 7), per gli Oracoli Caldaici, collegato, alla realizzazione dei desideri degli uomini; il neoplatonico Marino di Neapoli definiva "ineffabili" e "divini" ίυγξ (iugx) e στρόφαλος (strophalos).
In quanto simbolo, quest’ultimo, forse, assomiglia un po’ a un labirinto, al gammadion o tetraskelion (Γαμμάδιον ή Τετρασκέλιον, ovvero swastika), alla doppia spirale (sistrel), alla voluta ionica, ma molto di più al triskelion (o τρισκελής); trattasi tuttavia di qualcosa d’altro, di circolare, che si muove con un movimento altrettanto analogamente circolare, emettendo uno stridio (ίυγξ ); insomma, una sorta di “ruota”, trottola, fuso (che assocerebbe Ecate alle Moire), o “strumento di filatura” impiegato per invocare la dea e indurla a una predizione o all’esaudimento d’una richiesta. E di questi magici attrezzi, Filostrato dice che Apollonio ne avrebbe visti anche nel tempio di Apollo a Delfi.
Heket, o Heqit, era una dea egizia dalla testa di rana, connessa con la germinazione. Secondo un etimo non greco, heka sarebbe, difatti, ciò che rende attivo il ka, col significato di dar voce a un intento, per cui Heka, in quanto “magia”, avrebbe potuto essere la combinazione di molte divinità.
Quali oscure connessioni (solo associative e linguistiche?) possono collegare Heket ed Ecate ai Sette e, nell’albero cabalistico della vita, alla Saggezza (Chokmah), dagli gnostici chiamata poi Hagia Sofia (Αγία Σοφία)?
Conosci te stesso
La rivelazione dei responsi oracolari, per molti versi, sintetizzava quell'esortazione all'autovalutazione delle proprie scelte, compendiata nel celeberrimo motto "conosci te stesso" (γνῶθι σαυτόν), da Demetrio Falereo attribuito a Chilone, che però l’avrebbe ricevuto in risposta a un suo quesito, appunto direttamente dall'oracolo, mentre Diogene Laerzio (Vite dei Filosofi, I, 40) riferisce che Antistene lo diceva di Talete, nonostante questa massima fosse citata anche tra le Sentenze (16) di Pittaco.
Inciso sul frontone del tempio d'Apollo a Delfi, esortava al riconoscimento della propria “misura” mortale, venendo successivamente interpretato da Socrate nel senso dell'avvertimento filosofico della propria ignoranza, e da Platone poi nell'invito alla riflessione su sé stessi e a una conseguente considerazione speculativa.
“Niente d’eccessivo”
A parte il milesio, considerato il primo “filosofo” interamente dedito alla speculazione (da cui il comico aneddoto della graziosa e intelligente servetta trace che lo rimprovera di non aver guardato a cosa andava incontro, poco prima di cadere nel pozzo - Platone, Teeteto, 174 a-174 c.), - ed eventualmente il costituzionalista Solone, a cui può essere attribuita una vera e propria attività letteraria (Elegia alle Muse e al Buon governo, Eunomia), - gli altri sapientes vengono definiti, come pure fa Cicerone, σοφοί, per via del loro maggiore interesse rivolto principalmente alla condotta pratica, all’attività politica, all’enunciazione di massime gnomiche (dal greco γνώμη, sapienziale – sottintendendo sentenza - o apoftegma, ἀπόφθεγμα, da ἀποϕθέγγομαι: pronuncio), ed esortazioni alla μεσότης (moderazione), ispirata a giustizia (Δίκη), alla scelta della temperanza e alla discrezione, contrapposta alla ὕβϱις (hýbris, tracotanza), - da cui quel μηδέν άγαν (nulla di troppo) attribuito a Solone, - nonché osservazioni e consigli di comportamento che contribuirono alla formazione d’un sapere di tipo etico da distaccare pian piano dall’arcaica tradizione omerica fino ad allora dominante e pervasiva.
Gli apoftegmi
Dopo Talete e Solone, i maggiori autori a cui si attribuiscono degli apoftegmi sono Pittaco, esimneta (dittatore elettivo) di Mitilene (ὃσα νεμεσᾷς τῷ πλησίον, αὐτὸς μὴ ποίει, Ciò che rimproveri agli altri, non farlo tu); Biante, oratore e poeta di Priene (Βραδέως ἐγχείρει• ὃ δ᾿ ἂν ἄρξῃ, διαβεβαιοῦ, Apprestati lentamente al lavoro, ma ciò che cominci, portalo a termine); e Chilone, giudice ed Eforo di Sparta (Μὴ ἐπιθύμει ἀδύνατα, Non desiderare l'impossibile).
In “Pitagora e il pitagorismo” (Arkeios, Roma 2022), Nuccio D’Anna sottolinea l’importanza riconosciuta dal filologo bavarese Walter F. M. Burkert (Platon oder Pythagoras? Zur Ursprung des Wortes”Philosophie”, Hermes, 88, 159-177, 1960) all’origine del termine “filosofia”, intesa quale sintesi di φῐ́λος, philos, designante un particolare tipo di “iniziato”, e di σοφία, sophia, quale condizione ultima dello spirito a cui quegli, filosofo, aspira. E non già “amico della sapienza”, allora, (e, semmai, sofio-filo?), come proposto da Cicerone, non fosse altro che per seguire le orme di Aristotele nelle sue impervie astrazioni dell’Etica Nicomachea (libri VIII e IX)?
Una «proiezione» di idee
L’avvertenza pitagorica relativa all’impossibilità di possedere il sapere, per cui occorre limitarsi a perseguirlo con passione (φιλία), potrebbe proiettare sull’illustre figlio di Samo una “romantica” nozione di sentore semmai tardo platonico.
Un’«appropriazione» di idee
Mentre, al contrario, in epoca neroniana, Moderato di Gades, esponente di quel sincretismo ellenistico che, nel sommare temi greci e orientali, avrebbe influenzato il neoplatonismo del III secolo, accusava apertamente lo stesso Platone e suo nipote Speusippo, Aristotele, Aristosseno di Taranto e Senocrate di Calcedonia, d’essersi appropriati, in maniera illegittima, di dottrine primitivamente pitagoriche, riproponendole poi come idee originali.
La meraviglia
Nel Teeteto (150 d), il discepolo di Socrate, affermava: «È proprio del filosofo questo che tu provi, di esser pieno di meraviglia; né altro cominciamento che questo ha il filosofare».
Il dubbio e il mito
«Infatti – aggiungeva Aristotele (Metafisica, I, 2, 982b) - gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia: mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori… Ora, chi prova un senso di dubbio e di meraviglia [θαυμάζον, thaumazon] riconosce di non sapere; ed è per questo che anche colui che ama il mito è, in certo qual modo, filosofo …».
L’osservazione e l’indagine
In realtà, sarebbe stato Eraclide Pontico a far riferimento a “chi”, nella vita come nelle feste a Olimpia, non va per affari, o per gareggiare o per divertirsi, quanto invece per “osservare”, secondo una sorta di “turismo erudito”. Ed Eraclito avrebbe sostenuto come gli uomini filosofi fossero "buoni indagatori di molte cose", mostrando interesse ad andare al di là delle apparenze.
La philosophie comme manière de vivre
«In effetti – dice Pierre Hadot ai suoi interlocutori (Jeannie Carlier e Arnold I. Davidson), in “La philosophie comme manière de vivre” (2001) - tutto lascia supporre che queste parole [φιλόσοφία, philosophia, e suoi derivati: φιλόσοφος, philosophos, e φιλοσοφεῖν, philosophein, filosofare] facciano la loro comparsa solo nel V secolo: nel secolo di Pericle che vede Atene brillare non solo per la supremazia politica, ma anche per lo splendore intellettuale; al tempo di Sofocle, di Euripide, dei sofisti, e anche al tempo in cui lo storico Erodoto, originario dell'Asia Minore, nel corso dei suoi numerosi viaggi venne a vivere nella famosa città. È forse proprio nella sua opera che si incontra per la prima volta il riferimento a un'attività "filosofica"».
L’estetica della curiosità
Nelle Storie di Erodoto (I, 30), quando il re Creso dice a Solone "ho udito parlare dei viaggi che filosofando hai intrapreso per vedere molti paesi", non pone forse l’accento su una dotta forma di “curiosità”, mentre la dichiarazione di Pericle sugli Ateniesi, in Tucidide: "Noi amiamo il bello con semplicità e filosofiamo senza timidezza", non sembra impostare le basi d’un’«estetica» priva di secondi fini?
«βίος πυθαγόρειος»
Bisogna, insomma, pensare al φιλόσοφος, philósophos, come a un “iniziato” che abbia conseguito la sapienza, σοφία, quale dizione valorizzatrice dei sacri contenuti del «βίος πυθαγόρειος», bios pythagòreios?
Zoé e Bios
Se Zoé (ζωή) è la vita in noi, per mezzo della quale viviamo (qua vivimus), bios (βίος) allude al modo in cui viviamo (quam vivimus). Alla base del «βίος πυθαγόρειος» v’era dunque uno “stile di vita” volto alla salute, dal greco δίαιτα, dìaita, e in particolar modo nei confronti dell’assunzione di cibo, abbinata a pratiche sportive o ricreative.
Uno “stile di vita”
“Questi vivevano, secondo l’indirizzo da lui impresso, nel modo seguente: di mattina facevano delle passeggiate solitarie e si recavano in quei luoghi dove potevano trovare in misura adeguata quiete e tranquillità…” (Giamblico, Vita di Pitagora, 96).
Lunghe passeggiate, contatto con la natura e la bellezza, meditazione, attività ginnica, danza, musica, poesia, alimentazione sana ed equilibrata, vegetarismo, andreia (ανδρεία, bravura, valore, coraggio)… Questo sarebbe l’aspetto più evidente di quello che giornalmente si faceva nel VI sec. a.C. nella πόλις magno-greca di Κρότων.
Etaireia
Il movimento misticheggiante creato da Pitagora si venne strutturando su base comunitaria (per Burkert, quale “comunità pitagorica di culto”), riservata ed esclusiva, iniziatica ed esoterica, assumendo i caratteri d’una confraternita analoga a quei sodalizi guerrieri sui quali s’era impostato l’ordinamento politico-istituzionale lacedemone, e naturalmente assimilabile a un qualche tipo di consorteria analoga a un’arcaica εταιρεία, etaireia.
La Philìa
Giamblico vi distingueva una cerchia “interna” di seicento “adepti”, εταιρείoι, etaireioi, laddove duemila erano quei φῐ́λοι, philoi, che praticavano una qualche forma del culto, per J. A. Philip (Pythagoras and Early Pythagoreanism, University of 1966), dalla straordinariamente potente comunanza di visione del mondo e di destino spirituale, oltre che dall’indissolubile legame d’amicizia (φιλία).
La Phi e la civetta di Atena
La ventunesima lettera dell’alfabeto greco, φ, è l’iniziale di philia, amicizia, e di phileîn (φιλεῖν), amare; nella parola greca equivalente a sapienza (σοφία), occupa il terzo posto); appare, inoltre, come una stilizzazione della civetta, di cui segue la linea degli occhi e del becco; tale rapace dalle abitudini crepuscolari, sacro alla dea glaucopide, per la sua capacità di vedere nel buio, è ritenuto simbolo e della filosofia e della saggezza; mentre la lettera φ, accomunando all’amore per la conoscenza e per la ricerca in senso lato, quel senso di bellezza e d’armonia, è divenuta icona della sezione aurea. - Altra valenza, forse ancora più arcaica, quella erotica di φαλλός , per Lacan, in grado di collegare il significante (simbolico) al significato (immaginario).
Didaskaleion
Gli εταιρείoι erano i veri depositari della sapienza custodita dal movimento, σοφοί, i quali avevano accesso, secondo Porfirio, a un “antro” riservatissimo nel quale praticare le cerimonie più occulte, impostate su qualche modalità contemplativa o meditativa. Tale διδασκαλεῖον, didaskaleion, avrebbe avuto conformazione architettonica prossima al semicerchio per riprodurre quel simbolismo cosmico derivato dalla rotazione celeste, semiciclo/ semiperiodo della precessione degli equinozi.
Akousmatikoi e Mathematikoi
Le due categorie di “af-filia-ti” (la cui etimologia potrebbe essere rivista alla luce di quanto sopra, a proposito di φῐ́λοι e φιλία) indicavano molto probabilmente anche differenti livelli conoscitivi dalle ricadute pratiche e gerarchiche: gli akousmatikoi, ἀκουσματικοί (da ἄκουσμα «percezione uditiva), che si limitavano ad ascoltare le lezioni, e i mathematikoi, μαθηματικοί, che imparavano a metterle in pratica.
Il “teatro” pitagorico
Porfirio racconta di come, ancor prima dell’esilio megalo-elladico, Pitagora fosse abituato a meditare all’interno d’un’emblematica “caverna cosmica”, rifugio per pochi eletti; mentre la “scuola” aperta in patria, a Samo, aveva preso la denominazione di “semicerchio”, o teatro (da θεωρεω, theoreo, osservare – per – comprendere), dove ci si riuniva tutti a deliberare sugli argomenti di comune interesse.
Dattili Idei
A Creta, Pitagora s’era accostato ai misteri di Morgo, uno dei Dattili Idei (Δάκτυλοι ᾿Ιδαιοι), dai quali venne persino purificato con una “pietra di fulmine”.
“Fin dall’alba, stesosi supino vicino al mare e di notte presso un fiume, fu incoronato con ciuffi di lana d’agnello nero. Disceso poi nel cosiddetto antro ideo avvolto di lana nera trascorse tre volte nove giorni rituali, fece un sacrificio a Zeus e contemplò un trono sul quale ogni anno venivano stesi tappeti. Vi incise un epitaffio dal titolo Pitagora a Zeus che inizia così: Qui giace morto Zan che chiamano anche Zeus”.
Zagreo
In “Themis. A study of a social origin of greek religion” (1927), Jane H. Harrison evidenziò il valore misteriosofico di questo brano di Porfirio, e, visto che i misteri attribuiti ai Dattili Idei avevano svolto un ruolo fondamentale anche nell’iniziazione di Orfeo, lo accostò al frammento 472 della tragedia euripidea, giuntaci “sfilacciata”, Κρἡτες (Cretesi): “Noi viviamo una vita pura da quando siamo stati iniziati ai misteri di Zeus e del Monte Ida; noi mesciamo libagioni in onore di Zagreo (Dioniso), che ama i riti notturni; noi partecipiamo ai banchetti antropofagici accendendo le fiaccole sulle montagne in omaggio alla Grande Madre”.
I Titani
Rapito dai Titani, Dioniso Zagreo venne fatto a pezzi e divorato; e Zeus, dalle ceneri dei cannibali fulminati creò gli uomini. Nella versione cretese del mito, Zeus non soltanto era nato nella grotta del Monte Ida, ma vi morì anche, venendovi poi cremato, e divenendo l’ultimo anello d’una catena di feroci, e “ripetitivi”, drammi famigliari.
La fertilità proviene sempre da un’unione tra Cielo e Terra, da cui nascono più figli, che il padre cercherà di “rimangiarsi”, trovando invece la morte per mano loro. Dapprima Urano ebbe da Gaia dodici figli, al tempo in cui uno dei Cureti (Kourêtes, giovani), accoppiatosi con Titaia, generò i Titani, ognuno dei quali avrebbe avuto modo di lasciare in eredità agli uomini un dono prezioso.
L’agguato di Crono
Urano riuscì a ingurgitare undici figli, ma l’ultimo, Crono, messosi d’accordo con la madre Gaia, si nascose nella vagina-caverna per tendergli un agguato (λοχεός, locheòs) ed evirarlo nel momento dell’amplesso. Pure Crono, in seguito, divorò i figli avuti da Rea (la romana Opi, detta Magna Mater deorum Idaea), venendo a sua volta castrato da Zeus, che gli farà vomitare gli ingoiati fratelli e la pietra stessa scambiata per lui, dopo essere stato allevato e protetto dai Coribanti (Κορύβαντες, Cureti, o Dattili Idei), che con il baccano infernale provocato da balli, salti e percussioni di scudi e tamburi, erano riusciti a coprirne i vagiti e non farlo scoprire dal padre. Sciolti dalle catene, i tre Ciclopi, incatenati da Crono, ricambiarono il liberatore consegnandogli la Folgore.
Kallipolis
Forse, però, la musica di questi “coreuti”, che doveva nascondere le grida del piccolo Zeus, non era soltanto chiasso in grado di annullare un altro rumore.
Nell’ultimo dei suoi dialoghi (Νόμοι), Platone racconta d’un’«escursione» organizzata sul monte Ida, proprio alla ricerca di questa grotta (vagina, λοχεός), nel mentre si disquisisce intorno a quale possa essere la costituzione migliore; e, siccome le leggi provengono da Zeus, è nella sua caverna (utero) che di esse si può rintracciare nascita, origine e senso.
Platone immagina una Kallipolis, Καλλίπολις, più che “bella”, armoniosa, perché “musicale” e ritmica, dove si educhino i cittadini alle leggi: “Essa deve incentrarsi sulle arti dinamiche: la musica e la danza, e la ginnastica. (…) Su tutte domina il ritmo: il ritmo della musica per la salute dell’anima e il ritmo della ginnastica per la salute del corpo. Tutte le azioni e le opere prive di ritmo e armonia sono invece pericolose…”.
Clinia di Creta, Megillo di Sparta e l’«ospite Ateniese», ovverossia Platone medesimo e gli altri due pellegrini, avrebbero trovato in quell’antro, luogo di meditazione, il senso di quel ritmo armonioso che fornisce la giusta “misura” della vita personale e sociale.
Pietra di fulmine
La purificazione con un pietra caduta dal cielo, o meteorite, dal valore ierofanico, trasforma il sito in cui s’è verificato l’impatto dell’aerolite (come il simulacro della Grande Madre Idea, Cibele) in uno spazio sacro, qualitativamente celeste più che mondano. Al simbolismo dell’illuminazione spirituale, vissuta quale gloria divina, che appare nella sua straordinaria chiarezza al myste (μύστης, iniziato ai misteri) segnato da tale indelebile esperienza, viene fatto cenno in una Laminetta (orfica) ritrovata a Timpone piccolo (di Corigliano Calabro), nel territorio dell’antica Thoúrioi, Θούριοι.
Eukles & Eubuleus
“Vengo pura da puri, o regina dei sotterranei, Eukles, Eubuleus e voi altri immortali: ché io dichiaro di appartenere alla vostra schiatta beata. Mi soggiogarono con il fulmine la Moira e il lanciatore di folgori e volai via dalla ruota dolorosa e greve di patimenti, e montai con i piedi veloci sulla corona desiderata, e riparai in grembo all’infera padrona.... O beato e fortunatissimo, sarai dio invece che mortale! -Capretto caddi nel latte”.
Evklúí Patereí
Rappresentato come tedoforo, Eubuleus o Eubouleos (Εὐβουλεύς, buon consiglio) suggerisce che, più che un epiteto di Zagreus o di Zeus (come Zan), il suo ruolo fosse quello di guidare la via del ritorno dalla discesa agli Inferi. Nelle Laminette orfiche, viene invocato subito dopo la Regina dell’Oltretomba, assieme a Eucles (Εὐκλῆς, buona fama), oppure Evklus, nella Tavola di Agnone, un dio sannita, che nel suo aspetto di psychopompos, ψυχοπομπός (Evklúí Patereí) equivarrebbe a Hermes/ Mercurio. Il che fa pensare a un pantheon arcaico di Grandi Dei (Μεγαλοι θεοι) mediterranei legati a una figura centrale di Grande Madre (quale Axiéros, Rea, Dictinna, Cibele…), favorente sovrapposizioni e fusioni tra Coribanti, Cureti, Dattili, Cabiri (Κάβειροι), Telchini (Τελχῖνες), Penati, Anaci… la cui identità si sarebbe fatta sempre più incerta.
Ecateridi
I cinque Daktyloi, o dita, erano generalmente considerati identici ai Kourêtes, e avevano un numero uguale di sorelle denominate nel loro insieme Ecateridi (Ἑκατεριδες), il cui nome andrebbe ricollegato a due termini, hekateris, ed hekateros, che definiscono due tipi di danze popolari, l’una impostata sul movimento delle mani, l’altra caratterizzata da salti, nel corso dei quali le gambe vanno a ripercuotersi sui glutei.
Discendenti di Ecate
Secondo Esiodo, discendevano esse dall’Ecate preindoeuropea, conosciuta anche come Zea, e perciò probabile paredra di Zan/ Zeus, oltre che di Hekatos/ Apollo (Εκατος, il lungi-saettante), per cui l’etimologia ellenica (Ἑκα, cento e τέρας, meraviglia; oppure ἑκάτερος, ciascuno/a dei due) potrebbe rendersi fuorviante. Divenendo, però, ogni Ecateride la consorte del proprio fratello, Daktylos, avrebbero, entrambi i gruppi, tutti insieme, consentito, intrecciando dito con dito, quell'armonioso ripiegarsi delle mani su se stesse. Da quest’unione nacquero Satiri (Satyroi), Oreadi (Oreiadi) e quei Cureti (Kouretes), considerati i primi cretesi, nonostante le Ecateridi venissero identificate anche con le sorelle-mogli di questi Kouretes, le Meliai (Meliae), e con le dee orgiastiche dei Misteri di Samotracia, le Nymphai Kabeirides, compagne dei Cabiri di Lemno.
Hieros logos
Il capretto, l’agnello, la lana nera, la corona, la ruota, l’«acqua che scorre», la contemplazione del “Trono celeste”, ove ogni anno vanno distesi “tappeti”, l’epiclesi del dio Ideo, con cui ci si deve identificare, e l’epitaffio quale sintesi d’un più articolato hieros logos, ιερός λογός, trascritto presumibilmente a memoria dai discepoli per potervi rimodulare una successiva liturgia, costituiscono, oltre alla “pietra di fulmine”, i principali elementi misterici caratterizzanti quest’esperienza mistica.
Una Nekyia?
In un frammento, Ermippo ridicolizzava l’aspetto “operativo” di una qualche forma di Nekyia (νέκυια), come pure Aristofane satireggiava su quel conviviale banchettare, con i defunti, nell’oltretomba. A fianco delle libagioni sacre, comunque, dei sacrifici non cruenti, della dieta rigidamente vegetariana, emergono soprattutto delle prospettive eminentemente etiche, nell’ampia elencazione di Giamblico, laddove si tace però dei rituali, del simbolismo, delle tecniche meditative. Esistevano quindi dei meno noti insegnamenti orali, o akusmata, ακούσματα.
Akusmata
Per Maria Timpanaro Cardini (“Pitagorici. Testimonianze e frammenti”, 1958-64), l’ άκουσμα “s’ascolta”, “e ha valore di verità e di suggestione etica non solo per il concetto che racchiude, ma anche per le stesse modalità con le quali viene espresso. È metaforico e simbolico; trae la sua forza persuasiva dal suono e dall’immagine evocati dalla parola; ha qualcosa della formula magica”.
Così come ci sono pervenuti negli elenchi di Giamblico (82), o Diogene Laerzio (VIII, 17), Nuccio D’Anna (Pitagora e il pitagorismo, Arkeios, Roma 2022) considera questi ακούσματα “istruzioni ormai disarticolate e indicazioni fuoriuscite da un contesto molto più complesso di quanto potrebbe sembrare”, a prima vista, da una lettura tardo-platonizzante.
Symbola
Un notevole interesse chiarificatore avrebbe rivestito quell’«Esegesi dei symbola pitagorici» scritta da Anassimandro il Giovane, la quale però non ci è purtroppo pervenuta. L’esposizione di molti di questi symbola avrebbe potuto seguire uno schema a enigma, centrato sulla dualità di domande e risposte, da imparare a memoria per meglio rifletterci sopra e riformularle in altri termini, considerate com’erano delle vere e proprie “rivelazioni” alla stregua dei vaticini oracolari.
Sopra la panca/ sotto la panca
Il XVIII symbolon ricordato da Giamblico: Επί χοίνικι μή καθέζου, “sul moggio (oppure sul mozzo, sul centro d’una corona, sulla ruota di Ecate o sul tripode della Pizia?) non sedere”, sembra speculare a quell’evangelico “ὑπὸ τὸν μόδιον” (Matteo 5, 15), eppure costituisce un avvertimento a non occupare il punto immobile dal quale ogni cosa ha inizio, ma, inteso come recipiente, significa non oziare (o non insuperbirti?).
Tutto al contrario di quell'animale in piena salute che fa bella mostra di sé, sulla (επί) panca del noto scioglilingua, e di chi si posiziona in basso perché sta male (o di chi sta male proprio perché s’è messo di sotto, ὑπὸ?).
Molte delle trentanove regole pervenuteci, non vanno dunque interpretate alla lettera, in quanto rappresentano mere, quanto discutibili, allegorie, e non sempre relative a un determinato comune comportamento.
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