Quando l’ideologia (comunista, cristiana, psicanalitica…) è un handicap
“Questa casa non è mai stata così allegra come per un funerale... cento di questi giorni!”.
Se nessuno ricorda il documentario su povertà e sottosviluppo, girato da Marco Bellocchio in Calabria (”Paola”), e tanti sono invece rimasti colpiti dalla frase tagliente, resa ancor più crudele dall’ambigua dolcezza di Lou Castel (Alessandro), doppiato, ne “I pugni in tasca” (1965), da Paolo Carlini, c’è sicuramente un valido motivo, sia pure un po’ ondivago, tra il suggestivo, l’emotivo e il provocatorio.
La tetralogia fagioliana
Lo stesso dicasi per le scene di sesso esplicito girate da una ventiquattrenne, già musa godardiana (“Prénom Carmen”, 1983), Maruschka Detmers (Giulia), ne Il Diavolo in corpo (1986), le quali, sono ormai divenute un cult del mainstream internazionale, dopo aver suscitato immediatamente un certo scandalo per via d’un’ancora malcelata e coeva pruderie, mischiata a morbosa curiosità (due lustri dopo “Marcia trionfale”, 1976; lo stesso anno di “Novecento” di Bernardo Bertolucci, e “Salò” di PPP; il circuito a luci rosse era nato da poco: “Deep Throat” di Gerard Damiano è del ‘72).
Le Diable au corps
La storia romanzata, ma in larga parte autobiografica, di Raymond Radiguet (“Le Diable au corps”, 1923), basata sulla relazione adulterina, con un adolescente, d’una donna coniugata, infedele al marito impegnato al fronte, e terminata con la tragica morte della fedifraga, aveva già avuto una puntuale trasposizione cinematografica, per la regia di Claude Autant-Lara, nel ’47, in cui s’evidenziava l’immaturità, l’inadeguatezza e debolezza di carattere, soprattutto del protagonista maschile.
Nel lavoro di Bellocchio, l’ambientazione originale viene stravolta e spostata nell’Italia del post-terrorismo, quasi a immergerla nelle drammatiche conseguenze di quegli anni di piombo; personaggio principale diventa in assoluto un’intrigante “nevrotica” che attira l’attenzione dello studentello liceale di turno, mentre entrambi assistono insieme alla scena del tentativo di suicidio d’una squilibrata di colore. Pur avendo subìto, e non ancora metabolizzato, il tragico fardello dell’omicidio del padre da parte delle BR, la seducente psicolabile è fidanzata con un pentito, cosicché il rapporto passionale coll’ingenuo giovinotto sembra l’aiuti a lenire la depressione del recente lutto e anche a superare una sorta di rassegnazione a sposare il carcerato, con cui il rapporto non può che essere inevitabilmente conflittuale, ai limiti d’una specie s’identificazione con l'aggressore (pressappoco sulla tipologia d’una “ sindrome di Stoccolma”).
Secondo il produttore Leo Pescarolo, però, il romanzo di Radiguet sarebbe stato scardinato e ridimensionato a: “storia di due patologie in un acquario vuoto”; senza contare poi che la famosa fellatio, di cui molto allora s’è discusso, non era neppure prevista dal copione (tanto meno se ne specificava la tecnica: blow job, giving head, hummer, tea bag…).
Sembra pertanto che tra il girato e i successivi tagli ci sia stata troppa sproporzione, a causa dell’improprio intervento d’un “plagiatore” del regista, non accreditato né tra i soggettisti (Enrico Palandri) e neppure tra gli sceneggiatori (Ennio De Concini); semmai tra i dedicatari.
La visione del sabba
Due anni dopo, è il tema psicopatologico del transfert consumato nel coinvolgimento d’uno psichiatra dei giorni nostri con il delirio fantastico d’una paziente ammaliatrice, la quale si crede strega d’altri tempi, ad attrarre quella facoltà eidetico-allucinatoria d’un regista già affermato che desidera continuare a stupire a ogni costo, aiutato in questo dagli stacchi netti nel montaggio e da un operatore alla fotografia come Giuseppe Lanci.
La condanna
La longa manus che aveva pesato su Il diavolo in corpo, si stende anche su “La condanna” (1991), dove un giudizio critico, tra estetica e analisi psicologica, sulla Madonna Litta ("… il seno di nessuna madre, neanche la più deludente avrebbe potuto eliminare o limitare la sua creatività..") spingerebbe la vittima, di quello che appare a tutti gli effetti uno stupro, non solo ad accettarlo nella stessa posa della Maja desnuda di Goya, ma pure a giustificarlo a posteriori, in quanto: "… smuove realtà profonde che ognuno ha il diritto di tenere nascoste".
Nella seconda parte, in tribunale, il pubblico ministero si sente paralizzato nella sua arringa accusatoria dal rimprovero che gli muove la moglie d’averla delusa sessualmente. Il tutto ruoterebbe quindi non tanto attorno a una vera e propria sudicia violenza gratuita, ma avrebbe a che fare più con un “ritratto in chiaroscuro” delle pulsioni umane, o con un’inconscia fantasia di seduzione, anche se sul confine d’un’ esigenza iconoclasta ("Ora tu sei un'immagine immobile in questo letto come un quadro di Goya. Io ti amo perché distruggerò il quadro di Goya, poi tu mi farai a pezzi come si fanno a pezzi le statue, perché mi resterà il ricordo di te... ").
A Berlino vincerà l’Orso d’argento e Massimo Fagioli, questa volta, figurerà ufficialmente tra i collaboratori.
Il sogno della farfalla
Sempre su d’uno “script” dello psicanalista “eretico” è imperniato “Il sogno della farfalla” (1994). Un promettente attore (Massimo, come lui, di cui è citata nel titolo anche la testata della rivista scientifica) continua cocciutamente a esprimersi senza parlare, o citando testi teatrali; vivono tutti nei loro complessi irrisolti i vari personaggi (la madre scrittrice, il padre archeologo, il fratello fisico nucleare, la cognata insoddisfatta, ecc.) che gli ruotano attorno, somigliando di più così alla famiglia Bellocchio, alla quale appartiene pure il produttore, Piergiorgio.
La famiglia Bellocchio
Come si suol dire: è l’occasione del fratello regista a renderlo cinematograficamente “ladro”, altrimenti Piergiorgio è più noto come cofondatore, con Grazia Cherchi, dei “Quaderni Piacentini” (prolungamento dell'attività del circolo "Incontri di cultura" della “primogenita” città padana, e derivati da quelli “Rossi”, e torinesi, dei primissimi anni ’60, di Raniero Panzieri), e, con Alfonso Berardinelli, della rivista letteraria “Diario” (nel 1985), nonché primo direttore di “Lotta continua” e apprezzato scrittore (“I piacevoli servi”, 1966, vinse l’empolése premio Pozzale Luigi Russo).
Familismo “morale”
Il secondogenito maschio, Alberto, non è da meno, e da sindacalista “riformista” si è dilettato anch’egli, mescolando prosa e poesia, nello scrivere e persino a prendere un po’ in giro i suoi due germani “estremisti”, in un “racconto in versi” (“La banda dei revisionisti”, 2002) in forma d’autobiografia familiare (“Il libro della famiglia” è di due anni dopo): “Il circolo culturale in pochi anni/ esaurì la sua voglia. Avevamo fretta/ di fare: qui ci si divise./ Le questioni concrete/ e dunque locali, il confronto con gli amministratori/ come li passava il provinciale convento scelsero/ alcuni. Gli altri fondarono i Quaderni Piacentini. / […] Loro, per noi, utopisti/ troppo azzardosi, credevano d’esser marxisti, / ma era Saint Just il loro profeta. Noi sprecavamo/ colpevolmente i nostri talenti – questo pensavano –/ in un pragmatismo di retrobottega. Su loro/ incombeva la storia maggiore”.
Sorelle
Strettamente legato a “I pugni in tasca”, “Sorelle” (2006), successivamente sviluppato in “Sorelle Mai” (2011), vede al centro Maria Luisa e Letizia, “rimaste sempre in casa” a vegliare sul tempo che passa, nell’eredità materna della fede cattolica, un po’ bigotta.
L’edipo bobbiese: beatificazione di Giocasta
La mancanza della genitrice venne ricordata, come un complesso di colpa, ne “L'ora di religione - Il sorriso di mia madre” (2002), dove la metafora si trasforma nel sarcasmo grottesco d’un ostentato ritorno al cinico conformismo, sia pure attenuato dalle rime di Arsenij Tarkovskij: “Né il bene né il male sono passati invano, / tutto era chiaro e luminoso,/ eppure questo non basta”.
“Vanishing Twin Syndrome”?
“Eppure questo non basta”. Dando lustro ai luoghi che videro la predicazione di San Colombano ("topos" di un recupero “al margine dei luoghi dove pulsa l'ideologia”, e dove si fa sempre ritorno anche cinematograficamente - in “Vacanze in Val Trebbia”, del 1980, è però l’ex moglie Gisella Burinato a vivere l’estraneazione) la famiglia Bellocchio ha goduto e gode di gran risalto; tuttavia, come tutte le famiglie importanti, è stata funestata e nutrita dal ricordo, non si sa quanto rimosso, d’un onnipresente e ingombrante spettro, insistente su quella preclara “casata”.
Quando, il 9 novembre 1939, venne alla luce l’ormai ex-énfant prodige del cinema italiano, fu seguito da un gemello, Camillo, che per qualche ora era rimasto nascosto nel grembo materno, dalle cui oscurità avrà forse assorbito quella truce malinconia che non lo avrebbe abbandonato fin quando non se ne separò definitivamente, e da essa e dalla vita, ventinove anni dopo (e non si trattava certo d’una fagioliana ricreazione della fisiologica “fantasia di sparizione”); l’esiziale evento avvenne a ridosso del famoso debutto cinematografico fraterno, il quale proprio dalle condizioni e dalle tensioni della sua affollata parentela (caratterizzata, come sostiene Alberto, dalla “fretta di fare”), aveva tratto drammaticamente spunto.
Il periodo maoista: La Cina è vicina
“I pugni in tasca” è del 1965, “La Cina è vicina” del 1967, e riprende il titolo delle corrispondenze giornalistiche e diari di viaggio (1957) di Enrico Emanuelli, ma la trama appare piuttosto un classico intrigante intreccio di matrimoni di convenienza da parte di arrivisti impazienti d’imborghesirsi.
Pierluigi Aprà vi impersonava il maoista Camillo (il nome del gemello di Marco) che aizza una muta di cani e gatti contro il fratello impegnato in un comizio elettorale. Alla corruzione degli ambienti domestici, s’aggiunge il sordido squallore della provincia, intriso d'ipocrisia perbenista e trasformismo politico, tra il velleitarismo estremista extraparlamentare e il falso riformismo del centrosinistra.
Suicidio: argomento fisso!
Il protagonista di “Salto nel vuoto” (1980) si suicida nel modo in cui aveva immaginato di sbarazzarsi della sorella. In “Gli occhi, la bocca” (1982), un quarantenne in crisi, attore di cinema, ritorna al paese d’origine per la morte volontaria del “gemello” (!). Basato sull’omonimo romanzo autobiografico di Massimo Gramellini, “Fai bei sogni” (2016) racconta d’un giornalista che, dopo aver risposto alla lettera d’un lettore preso dal desiderio di veder morire la madre, e aver assistito alla soppressione per propria mano di chi stava per intervistare, scopre che aveva fatto la medesima fine anche la sua stessa genitrice.
Depressione anaclitica?
Ne “La balia” (1999), liberamente ispirato all'omonima novella (1903) di Luigi Pirandello, un bambino non si attacca al seno della madre, la quale peraltro non riesce a provare alcun sentimento per la creatura che ha dato alla luce. La suzione del latte diviene un “significante” nel contesto di dinamiche relazionali in cui la cultura è d’ostacolo alla spontaneità affettiva, visto che l'ignorante balia riesce a comportarsi molto meglio dell’istruita padrona di casa.
Il Superuomo: padre/padrone
Il Padre/Duce, in “Vincere” (2009), si disfa del suo primo nucleo domestico, rinchiudendo in manicomio moglie e figlio. Bellocchio stesso preannuncerà al “Corriere della Sera”: «Sarà un film politico con una continua contaminazione della finzione con il repertorio. Il Mussolini del mio film ricorda l'Alessandro de I pugni in tasca, che si "realizza" uccidendo madre e fratello.».
Un regista-assassino torna sempre sul “set del delitto”, dove ha maturato la prima intuizione de “I pugni in tasca”: un male genetico affligge un giovane “claustrofobico” che nutre sentimenti d’amore e di morte. Ma il passaggio all’atto non gli garantisce la salvezza.
La famiglia? Un inferno!
“Non c’è tragedia, non c’è infelicità che non sia stata la nostra infanzia a prepararle… Ho cercato di smontare sempre con rabbia i meccanismi di tutte quelle istituzioni che hanno seminato finora la follia nella mia vita, e non solo nella mia vita, la famiglia, la scuola, l’esercito... Più di tutto, però, e prima di tutto, la famiglia…”.
“Tu sei il mio L’Altro … E Io il tuo L’Altro…”
Il cinema di Marco Bellocchio è dunque, su sua stessa ammissione, un cinema “autobiografico” e in esso è la sua stessa famiglia a essere sempre stata rappresentata alla stregua d’un “inferno” esistenzialista, come per Sartre “l’Altro” ("l'enfer, c'est les autres"!), che, nell’opera teatrale “Huis clos” (A porte chiuse, 1944), “mi getta addosso il suo sguardo di Medusa”, “pietrificante, reificante, alienante”.
In quello sguardo, nel caso “clinico” Marco Bellocchio, si riflette la “presenza”, familiare ed estranea a un tempo, dell’assenza del gemello prematuramente scomparso, il quale pare rubacchiare le battute all’ultimo film di Bergman, “Fanny och Alexander” (1982); la “familiare”, bonaria, pronunciata da Oscar: «Non c'è nulla che possa separarmi da voi né adesso né dopo… Penso che potrò esservi più vicino che in vita.»; l’ostile ed «estranea» diretta ad Alexander dal fantasma di Vergérus: «Non ti libererai di me»!
Sangue del mio sangue
Nel 2015, suo alter ego è Federico Mai (lo stesso cognome delle “Sorelle” di quattro anni prima), convinto dalla “madre” a incontrare una suora (anch’essa quindi in qualche modo “sorella”) del convento di Bobbio (giusto per completare i riferimenti autoreferenziali), accusata di stregoneria per aver sedotto il gemello (il chiodo fisso di Marco), e averlo indotto al suicidio (sic!).
Ancora l’autobiografia d’una ricerca di responsabilità da proiettare altrove. Che poi ci sia una moderna appendice misoneistica serve giusto a ricucire (un po’ come ne “La visione del sabba”, 1988) la figura del vescovo seicentesco con quella dell’odierno conte che s’aggira di notte come un fantasma (quello di Camillo).
Omnia vincit amor?
Risulta comunque vittorioso il principio dell’eterno femminino, impersonato da Lidiya Liberman (Benedetta), che fuoriesce, ignuda, nella sua splendida e palpitante bellezza, dalla cella della “storia”, e dei legacci parentali, per travolgere ancora una volta l’amante d’un tempo, ora divenuto persecutore (l’attore è il figlio di Marco, Pier Giorgio); e questo quale compenso (insieme con “L'ora di religione - Il sorriso di mia madre”, del 2002) al matricidio di mezzo secolo prima, ne “I pugni in tasca” (1965)?
La critica di Fofi
In quella circostanza Goffredo Fofi commentò: “Il limite di Bellocchio è da tanti anni quello di fidarsi troppo della propria intelligenza: scrive per lo più da solo, e filosofeggia con facilità su inconscio e società, più vicino a certi contorti drammaturghi di ieri che allo Jung cui, infine, sembra oggi rifarsi volendo scavare oltre e dire di più del racconto e della cronaca, volendo esplorare significati profondi che restano tuttavia terra terra…”.
Il cinema autoriale
Seguendo la vecchia categorizzazione basata su uno stile che rispecchi la personalità del regista, lo accusò in questi toni: “… É un autore secondario e ossessivo che lascia il tempo che trova e rimane prigioniero…”, ci viene da aggiungere di “cosa”: d’una finzione che spesso si fa vera e propria confusione, o inutile orpello di pesantezza?
Da una certa data (tra la progressiva separazione dall’«analisi collettiva» di Fagioli al conferimento del Leone d’oro alla carriera) in poi, Bellocchio è divenuto sufficientemente consapevole di come: “Ogni ideologia e ogni fede limitino l’arte”. Anzi, in appendice assomma: “Per me la fede, come dice Ratzinger, è un assurdo…”. E pensare che adesso anche l’autorevolezza papale vacilla!
Che fungano, da una prima cerniera (tra cinema di ribellione e film fagioliani), la trasposizione della tragedia di Pirandello, “Enrico IV”, del 1984, e, da seconda cerniera (maggiore interesse rivolto alla contestualizzazione privatistica e a una sorta di revisione critica del paternalismo nella politica) quella del dramma di Heinrich von Kleist “Il principe di Homburg” del 1997; e questo perché avverte pressante la necessità d’una doverosa esplicitazione che si tratti di sogni vissuti nella finzione scenica, in quanto è proprio la formulazione teatrale a fornire coerenza al materiale onirico?
Il cinema è rottura
Eppure, fin dal titolo, “I pugni in tasca” esulava dall’ambito schematico delle classificazioni. Pur insistendo nel genere, definiamolo per comodità “drammatico”, a distanza di poco più d’un lustro dalla nascita, e sull’«onda», della “nouvelle vague” (“Le beau Serge” e “Les Cousins” di Claude Chabrol sono rispettivamente del ’58 e del ’59, il medesimo anno de “Les Quatre Cents Coups” di François Truffaut), assumeva i tratti sommari d’un pamphlet politico, acuto e visionario precorritore, insieme con il Bertolucci di “Prima della rivoluzione” (1964), d’una successiva rinnovata tipologia, insurrezionale forse, ribelle, di rottura, d’opposizione, di rivolta, come quella di Dennis Hopper (“Easy Rider”, 1969), di Arthur Penn (“Alice's Restaurant”, 1969), di Stuart Hagmann (“The Strawberry Statement”,1970), del Michelangelo Antonioni di “Zabriskie Point” (1970) e , per certi versi, probabilmente del Pontecorvo de “La battaglia di Algeri” (1966), o persino del Fellini di “Prova d’orchestra” (1979).
Il cinema è audacia
Quell’esplosione di violenza a stento trattenuta avrebbe descritto in seguito tutta una generazione che sentiva il bisogno di slegarsi dalle istituzioni consuete, scuola (Nel nome del padre, 1972), esercito (Marcia trionfale, 1976), ormai vuote convenzioni, compresa la famiglia, ricercando nuovi e differenti modelli positivi di riferimento, come preconizzava Vladimir Majakovskij nella sua declamazione “futurista” (del 1922): «Per voi il cinema è spettacolo. Per me è quasi una concezione del mondo. Il cinema è portatore di movimento. Il cinema svecchia la letteratura. Il cinema demolisce l'estetica. Il cinema è audacia. Il cinema è un atleta. Il cinema è diffusione di idee. Il trionfo del cinematografo è garantito, perché è soltanto la logica conclusione di tutta l'arte moderna».
Marx può aspettare
Cionondimeno, il pregio maggiore di quel film pionieristico, pre-sessantottesco, non sta tanto in quanto mostra, bensì in quanto lascia sottinteso.
“Marx può aspettare” è la frase che dà il titolo al documentario (2021; forse la vera “resa dei conti” della saga familiare) e che Camillo pronunciò (“… ho angosce e tormenti talmente grandi…!) quando Marco, cercando di conferirgli un'identità ideologica attraverso l'impegno politico, attribuì l’eziologia dell’infelicità alla comune matrice borghese e il disagio psicosociale alla materna ossessione religiosa.
Somigliante fisicamente un po’ all’alter ego cinematografico Lou Castel, e persino pure all’altrettanto sfortunato James Dean (“Rebel Without a Cause”, 1955), e dallo sguardo ancor più malinconico, Camillo soffriva soprattutto per sentirsi escluso dalla stretta comunione di tante personalità travolgenti. “Avevamo fretta/ di fare: qui ci si divise… Noi sprecavamo/ colpevolmente i nostri talenti – questo pensavano ... Su loro/ incombeva la storia maggiore”.
"Ognuno pensava a sé stesso" in “quel manicomio che era la nostra casa"
L’irruenza verso un anelito lungimirante e un eccesso di autonomia ideologica non lasciava spazio alla volontà di capire quanto stava succedendo nell’immediata prossimità, fraintendendo “quel manicomio che era la nostra casa", dove "ognuno pensava a se stesso", per quel presuntuoso acume capace di promuovere o falsificare le distorsioni divenute complicate regole, secondo l'imprinting materno cristiano-cattolico o le varie weltanschauung allora di moda, e di rimuovere collettivamente un naturale senso di colpa, da dover invece elaborare in privato e in dolorosa solitudine.
Infatuazioni, fin troppo repentine e istintive, si sono via via susseguite, prima per il marxismo-leninismo, poi per l’eresia psicanalitica di Fagioli; amicizie e collaborazioni proficue (con Stefano Rulli e Sandro Petraglia: “Matti da slegare”, 1975; ”Il gabbiano”, 1977; “La macchina cinema”, 1978), alternate a rapporti spesso contrastanti con intellettuali non allineati e critici non propensi all’adulazione (tipo Goffredo Fofi, a proposito di “Sangue del mio sangue”, 2015, o del parricidio della Repubblica, in “Buongiorno notte”, 2003); e poi polemiche continue, e numerose, come quelle scoppiate, e rinfocolate a più riprese, in vari “festival” nostrani; e quando (2012) per essere stata preferita a “Bella addormentata”, dal presidente Michael Mann (quello di “Heat”, 1995), l’opera (“Pietà”) del regista sudcoreano Kim Ki-duk , quando (2003), a giudizio d’una giuria “veneziana”, di cui facevano parte (e mal gliene incolse per non aver difeso l’amor patrio!) Monicelli e Accorsi, "Il ritorno" (Vozvraščenie) del russo Andrey Zvjagintsev superò "Buongiorno, notte".
“Good morning — Midnight/ I'm coming Home/ Day — got tired of Me/ How could I — of Him?”.
L’epigrafe dickinsoniana introduce alla tessitura filmica di opposizioni, tra disperazione e speranza, che impediscono, e insieme alimentano, il desiderio di normalità con un tanto auspicato ritorno a casa. La trama è ripresa piuttosto liberamente da “Il prigioniero” (1998) della ex brigatista Anna Laura Braghetti sui fatti avvenuti vent’anni prima, ma il livello narrativo della pellicola è pluristratificato da documenti televisivi, mischiati a stralci di interrogatori dello statista (assurto a “Padre della Patria”, nei confronti del quale i suoi assassini sono pertanto dei “parricidi”), proiezioni oniriche del desiderio di liberazione e citazioni dei comunicati di Renato Curcio e Alberto Franceschini: «... Ecco perché noi sosteniamo che l'atto di giustizia rivoluzionaria esercitato dalle Brigate Rosse nei confronti del criminale politico Aldo Moro, [...], è il più alto atto di umanità possibile per i proletari comunisti e rivoluzionari, in questa società divisa in classi».
Il ritorno del buio
“Esterno notte” (2020) è un naturale prosieguo a supplemento di quel prendere posizione di controcampo, quasi per sottolineare un buio che non si riesce neppure adesso a diradare.
Complesso di Laio?
La parabola edipica tocca, qui, il suo fondo, poiché partendo dalla negazione dell’autorità dell’epoca contestataria de "I pugni in tasca" (1965) e di “Nel nome del padre” (1972), con la dedica a un “Super-Uomo” (il genitore del regista), arriva alla sua accettazione e ri-teorizzazione, e ribalta la situazione di mezzo secolo fa, che, acquisendone carica critica ed eversiva, si rifaceva al libro sull’«estetizzazione» della politica dello psicologo tedesco Alexander Mitscherlich, "Auf dem Weg zur vaterlosen Gesellschaft" (Verso una società senza padre, 1964).
"La vita è una condanna a morte, quindi non c'è tempo da perdere…"
Nonostante siano state molto ammirate sia la sequenza del bagno turco sia l'episodio della 'Divina Madre', poiché affrontato da due anime differenti, il tema etico, costretto a stare in bilico, finisce per costituire, in uno, e la forza e la debolezza di “Bella addormentata” (2012).
Sbatti il mostro in prima pagina
Contro la trasfigurazione astratta di tensioni concrete, una narrazione lucida e incalzante dei fatti ricorda molto “Sbatti il mostro in prima pagina”, 1972).
La dimostrazione che il malcostume giornalistico abbia una certa “paternità” diviene, a sua volta, una comunicazione distorta per intenti di parte. Alla sceneggiatura del soggetto di Sergio Donati aveva comunque collaborato il “critico” Goffredo Fofi.
Genio e talento
L’ingerenza d’un pregiudizio politico non sembra sia riuscita a prevalere tout court sul giudizio artistico. In altri casi, di certo, ha pesato e continua a pesare (per esempio, la paranoia per il politicamente corretto da parte dell’Academy nell’assegnare gli Oscar; i premi frutto di pura ruffianeria a Benigni e Sorrentino…). L’impegno risulta forse troppo greve in qualche contesto, sia pure attento e non eccessivamente distratto dall’atteggiamento di captatio benevolentiae nei confronti dell’onda concettuale montante nel pubblico; e il merito maggiore va spesso assegnato a quella vaga leggerezza che eventualmente non sottrae nulla a una conseguente profonda meditazione.
Si tratta della sottilissima, ma decisiva, linea di confine tra talento e genialità; il primo lo si può sempre dimostrare, l’altra è senza dubbio una grazia ulteriore e per lo più indecifrabile. Ciò che in alcuni registi (per esempio, Pasolini: “Uccellacci e uccellini”/ 1965, “Porcile”/ 1969, “Medea”/1969, “Salò o Le 120 giornate di Sodoma”/ 1975; Glauber Rocha: “Deus e o diabo na terra do sol”/ 1964, “Terra em transe”/ 1987; o Ken Loach: “Kes”/ 1970, “Land and Freedom”/ 1995, “The Wind That Shakes The Barley”/ 2006, “I, Daniel Blake”/ 2016), sembra infatti costituire una costante caratterizzante, una benedizione quasi, o meglio un valore aggiunto, per altri (ed è il caso di Bellocchio?), diventa pressoché un handicap.
In un modo o nell’altro, tuttavia, il bobbiese è sempre riuscito ad attirare l’attenzione sui propri lavori e, di conseguenza, a far parlare di sé, visto quel tanto di autobiografico che in essi, bene o male, inevitabilmente vi converge e coagula, anche laddove l’approccio esasperato e fazioso persegua pretenziosi intenti pedagogico-moralizzatori.
Il triangolo “critico”
Il grande critico cinematografico francese, Serge Daney (appartenente, insieme con Serge Toubiana e Olivier Assayas, alla “seconda” generazione dei Cahiers du Cinéma non formatasi attorno ad André Bazin, e successiva a quanti ormai erano passati alla regia, come i vari Truffaut, Godard, Rohmer e Rivette), soleva dire che la recensione d’un film non è altro se non una “lettera aperta” destinata al pubblico, affinché l’intenda anche l'autore dell’opera, secondo una triangolazione inevitabile, in quanto vengono in ogni caso prima la pellicola e chi l’ha concepita e girata, mentre delle altre due componenti, pur sempre indispensabili, l’una mantiene la condizione passiva di ricevente, e come spettatrice e come lettrice, mentre il chiosatore deve attivamente fungere da tramite, cercando di mediare, commentare, chiarire e collocare nelle giuste caselle quei tasselli d’un “mosaico” che possano essere andati dispersi o non sempre giustapposti in modo ben ordinato.
Il paradosso bellocchiano
Il paradosso bellocchiano si può sintetizzare in alcune ossimoriche domande: Questo modo di fare cinema serve a rendere tollerabile qualcosa che non può esserlo? L’estrazione della luce dall’ombra, in un’altra luce specchiata, procura più chiarezza o maggiore confusione nella possibilità di prendere visione degli spettri evocati? Se l’uomo Bellocchio s’accusa di non aver visto, e soprattutto non aver capito, quanto accadeva nella stessa sua casa, e alla sua famiglia, come può, da regista, aiutare il pubblico a vedere, e capire, qualcosa che è sfuggito proprio a lui, o che ha sicuramente sottovalutato, o al massimo appena intravisto, e poi… a distanza di tanti anni?
La lezione tolstojana
La lezione tolstojana dell’Incipit di "Anna Karenina" (“ogni famiglia infelice è infelice a suo modo”) insegna come l’universale nel particolare proprio non ci stia matematicamente, per quello scarto tra suddivisioni di responsabilità, che permangono assolutamente soggettive.
Ciononostante, mi accorgo come questi quesiti siano invero mal posti, perché, il “rimosso”, volente o nolente, in ogni caso, con maggiore o minore consapevolezza, o addirittura del tutto inconsciamente, ha sempre “agito” nei lavori del “gemello di Camillo”, anche se c’è da considerare che, quando dura così a lungo, l’elaborazione del lutto rischia di non ben maturare, anzi d’inacidirsi e di condannare gli incauti afflitti alla meschinità d’una misera sopravvivenza.
Giuseppe M. S. Ierace
Anselmi M. Il film segreto di Bellocchio: la monaca, il confessore e il cardinale per parlare di sé, Cinemonitor, 17 settembre 2014
Aprà A. Marco Bellocchio: il cinema e i film, Marsilio, Venezia 2005
Bellocchio M. Salto nel vuoto, Introduzione di Alberto Barbera e Giovanni Volpi con un saggio di Massimo Fagioli, Feltrinelli Economica, Milano 1980
Bellocchio M. Questo film è una resa dei conti, iodonna.it, 07/08/15
Bernardi S. Marco Bellocchio, Il Castoro Cinema n. 49, Editrice Il Castoro, Milano 1998
Bini D. Operatic appearances in Marco Bellocchio, "Esperienze Letterarie", a. XXXVII, n. 3, pp. 43–54, 2012
Casadio G. e Ceretto L. (a cura di), Immagini del potere. Il cinema di Marco Bellocchio, Le Mani editore, Recco 2009
Ceretto L. e Zappoli G. (a cura di) Le forme della ribellione - Il cinema di Marco Bellocchio, Lindau, Torino 2004
Costa A. Marco Bellocchio: I pugni in tasca, Lindau, Torino 2005
Fofi G. (a cura di) Nel nome del Padre di Marco Bellocchio, collana Dal soggetto al film vol. 44, Cappelli, Bologna 1971
Fofi G. Capire con il cinema. 200 film prima e dopo il '68, Feltrinelli Economica, Milano 1977
Frosali S. Dall'età del malessere alla costanza della passione, in Rossi G. M. e Gruppo Toscano S.N.C.C.I. (a cura di) Marco Bellocchio. La passione della ricerca, Premio Fiesole ai Maestri del Cinema - Luglio 2000, Comune di Fiesole e Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani, p. 19, Fiesole 2000
Molinaroli M. Bobbio è il mondo - Vent'anni di cinema, vent'anni di vita, Ed. Studio E Tre, Piacenza 2016
Paini L. Diavolo in corpo, Il Sole-24 Ore, 11 maggio 1986
Sperati A. Marco Bellocchio e la rivoluzione culturale, Reflections, 18 aprile 2006