Il nuovo film di Checco Zalone ha certamente colpito l’immaginario collettivo nazionale più di quanto qualunque altro evento culturale abbia fatto negli ultimi mesi e forse anni. Il successo al botteghino attesta questa condizione ma lo fa solo parzialmente. Il vero successo di Tolo Tolo è nei dibattiti che ha scatenato, nel chiacchiericcio, nelle interpretazioni pertinenti e non, nelle polemiche, nelle battute liquidatorie. Tutto un percorso che si sviluppa nei media “vecchi” (i giornali, la tv) e “nuovi”, quelli digitali (i social network). Gianni Canova, noto critico e docente universitario, ha sottolineato proprio questo elemento. Un film italiano che si guarda “al cinema” in tempi di cambio del paradigma mediale –non una serie tv di Netflix, un episodio della politica internazionale, un evento sportivo, un videogioco, un film che sembra un videogioco dedicato ai supereroi, qualcosa che si dice sui social network– , restituisce la centralità perduta del mezzo cinematografico e del cinema italiano come perno del dibattito culturale, come capitava negli anni d’oro della cinefilia e del cinema d’autore (i ’60 e i ’70).
Ho utilizzato il termine “culturale” perché Zalone è ormai sdoganato alla cultura alta. Dopo qualche perplessità iniziale per la sua origine televisiva, e la sua evidente mancanza di correttezza politica, e qualche spaccatura fra opinioni critiche divergenti per i film precedenti, in questo caso nessuno ha dubbio di trovarsi di fronte a un film “d’autore”. Infatti in qualche recensione “Checco Zalone” comincia a passare in secondo piano per fare emergere ormai “Luca Medici”, il vero nome dell’attore. E il diritto al “nome” altro non è che una sottintesa attestazione di autorialità. E in effetti Zalone è qui anche regista, ruolo di chi si suppone essere, di norma, l’autore del film. Molto si è detto anche della qualità registica del film infatti. Per alcuni la separazione con il regista dei primi due film, Gennaro Nunziante –talento della commedia e intellettuale– avrebbe apportato una perdita della qualità registica dell’insieme che risulterebbe meno ritmico, meno comico, meno “compatto”. Tuttavia, a ben guardare, da un punto di vista della retorica visiva, i precedenti due film erano del tutto “neutri”, trionfi del campo lungo e della mezza figura, del tutto coerente con il resto della produzione della commedia italiana più mainstream e più convenzionale. In questo caso, anche in virtù del budget accresciuto, probabilmente, in alcuni luoghi del film si intravede una qualche accensione fantastica, una minore convenzionalità nella collocazione della macchina da presa, che osa qualche plongée/contre-plongée, qualche episodio montaggio a vista con gli effetti speciali, una intera sequenza in animazione (quella finale) e alcuni numeri musicali. Ne viene fuori un film certamente meno compatto e lineare linguisticamente, ma più mosso e moderno da un punto di vista linguistico. Pur mantenendo una chiarezza, una comprensibilità da “film di cassetta”.
Questo è il primo tratto in cui si intravede quello che sembra essere il vero senso del film. È un film comico – è contrappuntato da gag –, certo; è un film politico – sostiene in maniera molto netta una tesi -, certo; è un prodotto industriale, costruito a tavolino per incassare con una lungimirante strategia di marketing (si è sottolineata oltre che la strategia di promozione con un trailer eccentrico rispetto alla trama del film, anche l’intelligente sottrazione di Medici della propria figura alla presenza pubblica per indurre “desiderio”), ma soprattutto è un film “educativo”. Medici è un moralista, come tutti i grandi comici, il suo intento di far giungere a una massa di persone, con gradi di alfabetizzazione differenziati, una serie di concetti nei quali si vede “il bene” è chiaro. Ma prova anche a far imparare ai suoi spettatori “il bello”. Questa piccola deviazione dal linguaggio cinematografico convenzionale da fiction tv generalista e da quello della commedia media italiana non è altro che un tentativo di instillare nell’inconscio dello spettatore un’opzione alternativa. Quella del “bello”, anche formale, anche del linguaggio cinematografico, della collocazione della macchina da presa o della profondità di campo ricercata.
Il film ha una vocazione pedagogica anche nel richiamarsi in maniera piuttosto esplicita alla tradizione della commedia all’italiana, sia come richiamo ad una porzione importante della storia e della cultura italiana, sia come atteggiamento di critica sociale. In effetti il film di Medici/Zalone è anche è un tentativo di ricreare quell’atmosfera in cui si assisteva alla rappresentazione plastica dell’evoluzione della società italiana, nel bene e soprattutto nel male, in maniera collettiva e interclassista. Rappresentazione realistica e spesso spietata, ma che temperava gli effetti repulsivi o depressivi con il sorriso. Non è un caso se lo sceneggiatore del film è Paolo Virzì, considerato il vero erede del genere, ruolo del quale il regista livornese è consapevole, acquisendolo spesso come motivo della sua poetica.
Si sono fatti i nomi di Risi e Monicelli, i maggiori rappresentanti della commedia classica. Ma Medici/Zalone e Virzì guardano anche ad altri registi, della commedia all’italiana, con una vocazione pedagogico/enciclopedica, come a voler fare un sunto di quello che il genere è stato e si vorrebbe ritornasse ad essere. Il riferimento più pertinente è probabilmente quello alla commedia degli anni ’70, quella del post boom, che racconta un’Italia più tormentata, una società percorsa da tensioni sociali e politiche di vario genere. Se si devono fare nomi si potrebbe menzionare Ettore Scola (esplicitamente omaggiato nel trailer del film che è girato nello stesso complesso abitativo in cui fu girato Una giornata particolare), se si pensa alla perfidia dei parenti che vogliono morto Zalone per fame di denaro, esattamente come in Brutti, sporchi e cattivi o al viaggio in Africa che è una catabasi e al contempo un percorso di rinascita come in Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa?, ma si potrebbe citare anche il Nanny Loy che racconta il razzismo in Sistemo l’America e torno, il Luigi Zampa di Bello, onesto emigrato Australia che racconta i problemi esistenziali connessi all’emigrazione, il Sordi di Finché c’è guerra c’è speranza che denuncia lo sfruttamento ipocrita dell’Africa da parte dell’alta borghesia italiana, perfino il Ferreri di Come sono buoni i bianchi, film che racconta con ironia violenta il colonialismo, il consumismo fine a se stesso, l’omologazione e la solidarietà pelosa degli occidentali, ribaltando anche il mito del “buon selvaggio” africano, infine il Luciano Salce che ha diretto Fantozzi, ma anche quella sorta di variazione non grottesca del personaggio di Villaggio ne Il… Belpaese, con protagonista Villaggio stesso. Il film racconta la storia di un piccolo imprenditore rifiutato dal suo paese d’origine, l’Italia, del quale non riesce a comprendere l’evoluzione sociale, che decide di rifugiarsi nell’altrove, una piattaforma petrolifera (trama molto simile a quella di Tolo Tolo evidentemente). Oltre a Sordi, per una capacità di presa sull’immediato, sul civile, sul politico e sull’antropologico degli italiani, Villaggio sembra essere l’altro riferimento attoriale. Nella filmografia dell’attore genovese si sono susseguiti, soprattutto a inizio carriera, alcuni titoli in cui è stato raccontato con perfidia e lucida ironia il dramma dell’emigrazione, il razzismo, l’ossessione consumistica, i fermenti politici, la costante persistenza di germi fascisti nella società italiana (Eat it, Che c’entriamo noi con la rivoluzione?, Sistemo l’America e torno, Italian Superman, Quando c’era lui…caro lei!). Non mancano fra i titoli interpretati da Villaggio tre film che sembrano avere un raccordo ancora più diretto ed esplicito con il film di Medici/Zalone: Il signor Robinson, mostruosa storia d'amore e d'avventure, dove è espressamente messo in campo il rapporto fra una società moderna alienante e corrosa dal consumismo e un altrove esotico dove vivono i sentimenti più puri e le persone di maggior valore; Sì buana, una sorta di presa in giro del colonialismo occidentale dell’Africa, anche nel suo versante più letterario; Pappa e ciccia, dove si satireggia sulla moda altrettanto colonialista e orientalista delle ferie degli occidentali nei villaggi vacanze in Kenya (esattamente come nella prima parte del film di Zalone). In ultimo il Villaggio protagonista di Sogni mostruosamente proibiti ha una mezza attività onirica che trasforma la realtà in ambiente fantastico, come capita al protagonista di Tolo Tolo.
In ultimo il richiamo alla commedia italiana è anche ad un livello ancora più generale. Fin dai tempi del muto, già con il comico Ernesto Vaser, Cretinetti, Tontolini la commedia italiana è stata la messa in scena di un dramma sociale e di classe. Essa ha spesso raccontato il tentativo di inserimento di aspirante borghese all’interno di una società borghese che lo rifiuta. Totò, Macario, Sordi, Pozzetto, Banfi, Benigni, la maschera di Fantozzi, alcuni momenti di Troisi, tutti i “Mostri”, i “soliti ignoti”, le commedie degli anni ’50 del neorealismo che raccontano il tentativo di entrare nella nuova società urbana e dei consumi dei giovani del dopoguerra. Anche lo Zalone protagonista di Tolo Tolo è un aspirante borghese, che si lancia in attività imprenditoriali del tutto sproporzionate rispetto al contesto in cui si vanno a collocare (ristoranti di sushi in stile milanese nei paesini pugliesi), e che viene rifiutato dalla borghesia italiana e dallo Stato più in genere – persino dalla sua famiglia – . Checco è il borghese perfetto, schiavo di tutti i riti della classe a cui vorrebbe appartenere (dalle creme liftanti, ai vestiti firmati), che però è “inadeguato” a “cavalcare la tigre”, non riesce a capire come si possa sopravvivere ai riti che essa impone, e non riesce ad aggirarli come fa la reale “borghesia maneggiona”, pur volendo. In questo è, per l’appunto, erede di una lunga tradizione della commedia italiana e non solo.
Da questo breve excursus emerge con chiarezza come Medici/Zalone e Virzì abbiano provato a svolgere un specie di sunto, mappa, della commedia all’italiana, proponendosi come eredi e continuatori e sperando – pedagogicamente – di sollecitare nello spettatore la curiosità di ricostruire un percorso culturale preciso all’interno della storia del cinema italiano.
In ultimo c’è da segnalare quello di cui si è parlato di più. Il versante politico del film, sul quale si sono versati fiumi di parole. Certamente il film ha riscontrato un generale buon successo di critica e qualche distinguo, su una linea di separazione che è più o meno quella destra/sinistra, sovranisti (ovvero nazionalisti etnici)/internazionalisti (ovvero blandamente aperturisti al fenomeno migratorio). Con posizionamenti bizzarri, quali quelle di alcuni politici di estrema destra che, non concordi palesemente con le posizioni solidaristiche del film, non si sono espressi chiaramente sul punto, e si sono invece scagliati contro la presunta poca ispirazione comica (“Non fa ridere”) o narrativa (“È noioso”). In alcuni casi ha stupito che ci si sorprendesse della posizione assunta da Zalone/Medici in Tolo Tolo, evidentemente non ricordando o non avendo inteso l’inizio e la fine del film precedente. Quo vado è tutto raccontato in flashback. Zalone racconta la storia dell’evoluzione del suo personaggio dall’individualismo al solidarismo ad una tribù africana (dipinta in modo evidentemente irrealistico), questa evoluzione si conclude con una corposa donazione ad un ospedale africano.
Non è mancata qualche posizione effettistica come quella di Marco Giusti che si è mostrato piccato per i tanti “pentiti” che ora apprezzano il “cafone” Zalone e prima lo disprezzavano con supponenza solo perché ora schierato su posizioni più progressiste. Si è stigmatizzata anche la rottura del sodalizio dei film precedenti con Gennaro Nunziante, che avrebbe garantito un “ammorbidimento” delle posizioni politiche grazie al cattolicesimo di Nunziante, e aiutato a migliorare il ritmo del film grazie alla sua capacità di gestione delle gag.
Probabilmente Massimo Panarari ha espresso il giudizio definitivo su queste polemiche un po’ rozze, funzionali al successo del film che però non lo considerano come oggetto estetico, ma come una sorta di espressione di Agit-prop. Il film avanza, certamente e primariamente, una pessimistica ricostruzione dell’antropologia dell’italiano (guicciardiniana, dice Panarari), con frecciate a destra (le gag ricorrenti sul razzismo) e sinistra (i tratti di grottesco rilevati in alcuni riti radical-chic, che peraltro Medici ha sempre satireggiato nel corso della sua carriera o contro il solidarismo meramente mediatico del reporter francese), italiani (memorabile la spietata descrizione della famiglia cattivissima di Zalone o del compaesano ignorante che, senza alcuna competenza, di passo in passo da disoccupato diventa vigile, e finisce col diventare Ministro e Presidente della Commissione Europea) e non italiani (non manca la frecciata contro l’africano traditore o contro i francesi). Detto questo non si può sostenere, come è stato fatto, che il film sia “ambiguo” o non sostenga una posizione chiara ed esplicita. A questo proposito analizziamo la trama, con un atteggiamento da “teoria critica”. La storia è quella di un borghese wannabe qualunquista che scappa per sfuggire le proprie responsabilità. È rozzo, volgare, individualista. Nel corso del film non cambia. Medici regista è spietato nei suoi confronti. Non ha consapevolezza di classe, non fa gruppo, non è rivoluzionario. Quando rientra in Italia non è migliorato nella sua coscienza politica. Solamente è divenuto più sensibile alle sorti del bambino che lo accompagna, per spirito di solidarietà umana e buon senso, e meno individualista perché spinto da sentimenti di riconoscenza e affetto individuale nei confronti del piccolo. Il film è quindi più pessimista di Quo vado dove una reale evoluzione del personaggio e una compartecipazione a un progetto di miglioramento sociale collettivo sussisteva. Tuttavia la posizione di Zalone/Medici è precisa, emerge con nettezza. Non è certo comunista, non ha simpatie per i radical chic, capisce i timori della gente comune, ma la sua idea del “prossimo” e di quale sia la responsabilità individuale è chiara. È quella di un socialismo utopistico o umanitario, saintsimonista quasi, dove il messaggio di solidarietà, ritorno ai valori “umani” – diffusi, generalizzati, riconoscibili da tutti, come il rifiuto del razzismo – è patente, dove il desiderio di miglioramento delle condizioni che in passato si sarebbero definite proletarie è evidente, dove non è legittimo dirsi “fascista” senza perplessità. Nel film di Zalone, contestabile da un marxista ortodosso per mancanza di scientificità nell’analisi economica o per assenza di coscienza di classe, non si può dire ci sia solo qualunquismo, critica generalizzata a destra e a manca o assenza di posizionamento. C’è di certo una scelta fra il bene e il male: in maniera forse semplicistica il “bene” è rappresentato dai valori del socialismo umanitario evangelico-solidaristico, con qualche tocco, dunque, di non dimenticato cattolicesimo democratico. Zalone sta con quello che ritiene essere il buon senso, e i valori condivisi, cerca di affermarli – ancora un volta pedagogicamente, didatticamente – a un pubblico diffuso che trova legittimo in sala arrivare a trasalire quando c’è un riferimento al “rigurgito di fascismo”. Non è poco.