Giovedì, 12 Settembre 2024

                                                                                                                                                                             

 

                                                                                                                                                                                                          

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UN GATTO ROSSO

UN GATTO ROSSO S’AGGIRA FURTIVO SUL SET, MA FA PARTE DEL CAST

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Degli attori “cani” non si pensa un gran bene, mentre i gatti “attori” godono d’una migliore reputazione. E ovviamente non sono solo quelli dei classici cartoni animati, in cui, loro malgrado,  vengono forzatamente umanizzati e/o mitizzati, tipo lo Stregatto della trasposizione disneyana di “Alice nel paese delle meraviglie” (1951), per Lewis Carroll Cheshire Cat -  in italiano, per assonanza, Gatto Cesare, Ghignagatto nella traduzione di Silvio Spaventa Filippi, e probabilmente incarnazione della leggenda del Gatto Mammone, immaginato sardonicamente sogghignante, da cui il modo di dire britannico: “To grin like a Cheshire cat”. 

Puss in Boots 

Il grasso felino di Boss Artiglio (Dottor Gang), nella serie “Inspector Gadget”, ha per nome Satanasso (Mad Gatto); Lucifer è il gatto siberiano di Madame Tremaine, in “Cenerentola” (1950); Azrael (nome dell’arcangelo della morte per gli islamici - Birba, in Italia) il perfido micio di Gargamella in “The Smurfs Movie” (I Puffi, 2011); Duchessa la madre di tre cuccioli in “The Aristocats” (Gli Aristogatti,1970). Si e Am (Si-Am-esi) fanno coppia in “Lady and the Tramp” (Lilli e il vagabondo, 1955); Puss in Boots (il Gatto con gli Stivali) ricompare in “Shrek” (2001); Fiocco di neve in “Stuart little” (1999); Chloe (da χλοη, verde, epiteto di Demetra) in “The Secret Life of Pets” (2016); e Zorba (dal romanzo di Nikos Kazantzakis del 1946, Βίος και Πολιτεία του Αλέξη Ζορμπά) ne “La gabbianella e il gatto” (1998), tratto dal racconto di Luis Sepúlveda (Historia de una gaviota y del gato que le enseñó a volar, 1996); mentre Garfield è stato dapprima un fumetto disegnato da Jim Davis. 

Cats

Da “Old Possum's Book of Practical Cats” (1939) di T. S. Eliot il musical “Cats” (1981) di Andrew Lloyd Webber e la successiva traslazione cinematografica del 2019, curata da Tom Hooper (The King's Speech, 2010). Candidati alla reincarnazione allo Strato Ionizzato: Jennyanydots (“Genny tutto punti”, un gatto soriano con mantello a strisce di tigre e macchie di leopardo), Rum Tum Tugger (forse un Maine Coon nero con criniera selvaggia e petto chiazzato), Bustopher Jones (forse un altro Maine Coon, decisamente dandy alla Beau Brummell); gli altri randagi si chiamano Macavity, Mistoffelees, Mungojerrie, Old Deuteronomy e Rumpleteazer…

Cinefili ailurofili

I cinefili, non necessariamente cinofili, a eccezione d’uno sparuto gruppo di ailurofobi (da αἴλουρος, gatto), parteggiano per quella naturale simpatia che promana dai domestici felini, anche in una loro semplice comparsata sullo schermo che li rende immediatamente popolari, pure se impegnati in ruoli sgradevoli. 

Murder of Mouser

Nel giallo “Murder of a Cat” (2014) di Gillian Greene-Raimi, moglie talentuosa di Sam Raimi, quello che sembra un grigio certosino recita nella parte della vittima trafitta da una freccia, ma Mouser (Catturatopi), questo il suo nome, si scopre essere, come il goldoniano Truffaldino, l’amato beniamino di due affezionati padroni, decisi a ripercorrerne le tracce. 

Ognuno ha un micio da trovare

La scomparsa di Gris Gris, in “Chacun cherche son chat” (1996) di Cédric Klapisch (L'auberge espagnole, 2002) dà l’avvio alla scoperta delle problematiche tipiche d’un quartiere parigino, quale l’11° Arrondissement, secondo un cinema di strada, però sulla falsariga stilistica di Rohmer. 

Seal Point

In giro per i set cinematografici ci sono stati numerosi siamesi Seal Point: Cagliostro in “Bell, Book and Candle” (Una strega in paradiso,1958) diretto da Richard Quine (My Sister Eileen, 1955; The Solid Gold Cadillac, 1956); Tao in “The Incredible Journey” (L'incredibile avventura, 1963) di Fletcher Markle; G.G. Gatto Guastatore (D.C. Darn Cat) in “That Darn Cat!” (Quel dannato gatto), in Italia “F.B.I. - Operazione gatto”, nel 1965 trasposizione cinematografica da parte di Robert Stevenson (Mary Poppins, 1964; The Love Bug, 1968; Bedknobs and Broomsticks, 1971) del poliziesco “Undercover Cat” (gatto sotto copertura) della coppia "I Gordon" (Gordon Gordon e Mildred Nixon Gordon).

Troppe nove vite per un gatto solo

Essendo Barry Sonnenfeld (The Addams Family, 1991; Men in Black, 1997), il regista di “Una vita da gatto” (Nine Lives, 2016), allergico al pelo, il micio in questione fu scelto di razza siberiana.

Bigolo 

Sphynx è Mr. Bigglesworth del Dr. Evil, acerrimo rivale di Austin Powers, nei film diretti da Matthew Jay Roach. Himalayano lo Sfigatto (mr Jinks), che dopo l’uso della toilette, tira educatamente lo sciacquone, in “Meet the Parents” (Ti presento i miei, 2000) sempre di Jay Roach. Forse un angora turco sta in braccio a Ernst Stavro Blofeld nei primi film di James Bond. Persiano Mr. Tinkles di “Cats & Dogs” (Come cani e gatti, 2001) di Lawrence Guterman (Son of the Mask, 2005). 

Crookshanks

In “Harry Potter”, il gatto di Hermione Granger, Grattastinchi, sembra un incrocio tra un persiano e un fantastico Kneazle, dalle orecchie sproporzionate e la coda di leone. Nella fanta-realtà, la Goose di Carol Danvers è un’aliena appartenente alla pericolosa razza dei Flerken, proveniente da un’altra dimensione, somigliante ai felini terrestri, ma ovipari; in “Captain Marvel” (2019) di Anna Boden e Ryan Fleck, viene interpretata da quattro gatti diversi (Archie, Gonzo, Reggie e Rizzo). 

Rabarbaro

Nel 1951, per il personaggio di Rhubarb, “Il Gatto milionario” di Arthur Lubin (Phantom of the Opera, 1943; la serie Francis the Talking Mule), oltre al celebre Orangey, furono impiegati ben altri trentacinque esemplari di micio rosso (ginger cat), quelli che prendono il nome dalla Sorìa (Siria), dov’era selvatico; da impuro e meticcio è divenuto il più comune domestico, definito anche tabby (dal latino medioevale attabi, ossia proveniente dall'Attabiyah, attuale Iraq, dove si produceva una seta striata i cui motivi il pelo dei soriani ricorda. 

Un “gatto di strada”

A Street Cat Named Bob” (in italiano però: “A spasso con Bob”, 2016) fa il verso al Tennessee Williams di “A Streetcar named Desire” (Un tram che si chiama Desiderio, 1947), mentre è un film britannico diretto da Roger Spottiswoode (suo “Turner & Hooch”, 1989; “The Journey Home” del 2014). Partendo dall’autobiografia di James Bowen, tossicodipendente redento dall’ailurofilia, è stato interpretato da Bob the Cat nei panni di se stesso, anche se in qualche scena coadiuvato o sostituito da altri sei mici/amici sosia, come Booker, Jafffa, Leo, Oscar, Ricki e Trayce; il sequel natalizio girato da Charles Martin Smith, “A Gift from Bob” (2020), purtroppo ha coinciso con il suo ultimo film, uscito postumo a causa dell’accidentale scomparsa del protagonista. Una sorta di “Trainspotting” (di Danny Boyle, 1996), “A spasso con Bob” in versione, comunque, di “feel good movie”, e in forma di trattato di Pet Therapy intensiva, applicata al disagio psichico e sociale. 

A colazione… senza crema di panna e vaniglia (Chantilly)

Tutti soriani rossi allora, come Jonesy, il micio di bordo dell’astronave Nostromo, imbarcato insieme con Ellen Ripley, in “Alien” (1979) di Ridley Scott (Blade Runner, 1982; Thelma & Louise, 1991), o Boris in attesa del ritorno della padrona in “Gone Girl” (2014) di David Fincher (Seven, 1995; Fight Club, 1999; Zodiac, 2007); e stranamente, neanche in “Colazione da Tiffany” (Breakfast at Tiffany's, 1961), il randagio, come ci saremmo potuti aspettare, appartiene alla “loquace” razza Chantilly Tiffany (color cioccolato, probabile incrocio tra Burmese e Himalayano, che per temperamento s’intrattiene in lunghi miagolii, ed è perciò soprannominato “parlante”). 

Il “sangue freddo” di Truman Capote 

La sceneggiatura non segue il romanzo di Truman Capote del 1958, impostato sulla vita nel ventennio precedente di Holly Golightly, dalle numerose frequentazioni maschili, e da un’unica compagnia fissa, quella d’un gatto rosso “senza nome”, che tuttavia non esita ad abbandonare sulla via dell’aeroporto. 

Il gatto come problema emotivo irrisolto

Le relazioni d’ambigua complicità e d’amicizia tra uomo e donna alludevano abbastanza verosimilmente all'omosessualità del narratore e il legame che tra loro si frantuma alla fin fine veniva ben espresso dal ritrovamento del felino solo dopo la partenza di Holly per il Messico. 

Per poter essere felici si deve possedere un felino a cui poi appartenere 

La sinossi del film riconduce sinteticamente allo sfogo di George Peppard (Paul 'Fred' Varjak): “Vuoi sapere qual è la verità sul tuo conto? Sei una fifona, non hai un briciolo di coraggio, neanche quello semplice e istintivo di riconoscere che a questo mondo ci si innamora, che si deve appartenere a qualcuno, perché questa è la sola maniera di poter essere felici. Tu ti consideri uno spirito libero, un essere selvaggio e temi che qualcuno voglia rinchiuderti in una gabbia. E sai che ti dico? Che la gabbia te la sei già costruita con le tue mani ed è una gabbia dalla quale non uscirai, in qualunque parte del mondo tu cerchi di fuggire, perché non importa dove tu corra, finirai sempre per imbatterti in te stessa.”.

Monroe/ Hepburn 

Capote avrebbe preferito come naturale interprete del suo personaggio di assai piccole virtù una “ruspante” Marilyn Monroe, cosicché la scelta d’una sophisticated comedy da parte di Blake Edwards (in seguito: Pantere rosa, Hollywood Party, Victor Victoria…) con la Hepburn, che tra l’altro fu costretta a ingurgitare i per lei odiosi biscotti al burro danesi (Danish Butter Cookies: Vaniljekranse, ghirlande di vaniglia, Brysselkex, biscotti di Bruxelles, o Sablé, frollini), comportò modifiche sostanziali nella descrizione delle ampie disponibilità bisessuali della protagonista del racconto originale, non più spregiudicata callgirl, bensì delicata geisha, mondana sognatrice di fronte alla vetrina del numero 727 della Fifth Avenue di New York, addirittura corteggiata da uno speculare “collega”, mantenuto di lusso d’un’anziana protettrice, spacciata per “progettista d’interni”. 

È un lieto fine ad assicurare il successo

Soprattutto, nel libro, manca quell’happy end lasciato presagire dalla scena del bacio nell’ultima inquadratura d’un romantico finale che classicamente si presume “lieto”, grazie anche al supporto della colonna sonora composta (Moon River) e selezionata da Henry Mancini. Da allora Audrey Hepburn divenne un’indimenticabile icona di stile e Tiffany un’imprescindibile meta turistica.

La solita storia del solito perdente

Agli anni di Colazione da Tiffany rendono omaggio i fratelli Coen nel 2013 (“Inside Llewyn Davis”) con quelle finestre aperte sulle scale antincendio e soprattutto con quel gatto tigrato (Ulisse, Nessuno, o senza nome?) di cui il protagonista, Llewyn, non riesce a capire il sesso, né a custodire alla coppia di professori dell’Upper West Side di cui è stato ospite; il che lo fa sentire ancora più “perdente” (loser), quando, dopo aver cantato la sua struggente ballata, al termine d’un’audizione solitaria, gli vien rinfacciato brutalmente dal produttore Grossman di Chicago che dal punto di vista economico non vale proprio nulla. 

Rabbit Rarebit, “raro coniglio” 

Non mancano altre indimenticabili arguzie, come l’assioma “Se non è mai stata nuova, ma non invecchia mai, allora è una canzone folk”, oppure la battuta sugli attributi virili del gatto e l’altra, partita dall’etimo del nome Llewyn (da Llewellyn, o Llywelin, probabilmente derivato dalla parola gallese "llyw", che significa “capo”, e non leone come spesso viene spiegato), sui “crostoni gallesi” inzuppati di formaggio fuso (Welsh rarebit, facilmente confusi con “conigli gallesi”), presente e forse più efficace in “Gosford Park” (2001) di Robert Altman.

Nel bel mezzo del nulla…  e neanche c’era 

In parte ispirato all’autobiografia "The Mayor of MacDougal Street: A Memoir” (2012) del folk singer Dave Van Ronk, stilisticamente tiene conto dei precedenti antieroi coeniani, protagonisti in “Miller's Crossing” (1990), “Barton Fink” (1991), “The Big Lebowski” (1998), od “O Brother, Where Art Thou?” (2000), come pure  in “The Man Who Wasn't There” (2001), “A serious man” (2009),  “Hail, Caesar!” (2016).

Il circolo vizioso delle sconfitte 

Una stessa scena in apertura e in chiusura ribadisce la condizione deprivata da possibilità di  scelte alternative, per chi si tormenta con sensi di colpa, da quando l’amico e partner canoro s’è lasciato cadere dal George Washington Bridge. Tra “non-luoghi” urbani, esempi iniziali di consumismo, e stazioni di servizio nel bel “middle-of-nowhere”, tra una spirale iterativa e un circolo vizioso di incastri senza uscita, si accumulano gli elementi d’un viaggio all’eterna ricerca della terra promessa da parte d’un ebreo errante che sembra però proseguirlo all’infinito "On the Road" verso il nulla. Nella metropolitana newyorchese le strade del percorso dalla borghese up-town Manhattan al bohémien Village si leggono negli occhi dello spaurito micione destinato a “perdersi” come il suo accompagnatore.

Il gatto come espediente narrativo

Se è vero quanto ha riferito Joel Coen, il gatto è stato inserito come espediente narrativo in seno a un racconto che si era rivelato dall’intreccio debole. I fratelli di St. Louis Park, in Minnesota, avevano cominciato dapprima col basarsi sulla musica di Van Ronk e avevano notato che nella copertina di quel suo disco, Inside Dave Van Ronk, c’era in effetti un gatto, anche se non soriano, che faceva capolino sulla soglia del portone dove il cantante s’era appoggiato per fumare una sigaretta, e dal quale avrebbero deciso di trarre spunto per arricchire la trama.

Un’intera comunità a recitare un’unica parte 

Su consiglio dell’addestratore di animali, hanno optato per il soriano arancione, essendo abbastanza comune da poterne scegliere diversi da impiegare per una sola performance. Cosicché per ogni singola scena sono stati chiamati a “recitare” singoli gatti, preventivamente selezionati in base a ciò ch’erano naturalmente disposti a fare da soli.

Questa operazione Joel ed Ethan l’avevano già messa in atto quasi due lustri prima in “The Ladykillers” (2004), dove il soriano Pickles dall’imperiosa coda dritta recita la parte d’un’inconsueta “pietra d’inciampo”, a cui viene affidata l’inaspettata chiusura di tutta la pellicola, col lasciare cadere sulla chiatta della spazzatura il dito mozzato  del "tuttofare" Garth Pancake (“giardiniere frittella”), loquace esperto di demolizioni, ma sofferente di colite spastica (in inglese: Irritable Bowel Syndrome, IBS), il quale avrebbe incontrato la compagna, Mountain Girl, durante un fine settimana per “cuori solitari” affetti dalla medesima patologia (Irritable Bowel "Singles", IBS).

Signora omicidi o gli assassini della signora?

La chiatta della spazzatura, che raccoglie i vari componenti di una banda («specializzati in rococò»), che vi cadono dal ponte, ha sostituito il treno merci utilizzato invece nel classico film britannico di quasi mezzo secolo prima, in italiano «La Signora Omicidi» (traduzione geniale di The Ladykillers, imperfetta, però, perché non gioca sull’ambiguità tra le intenzioni dei veri ma potenziali colpevoli, infine soppressi – gli assassini della signora -, e l’inconsapevole innocente vittima sopravvissuta loro malgrado). Una commedia noir di gusto tipicamente anglosassone, il cui genere veniva definito con il nome della periferia londinese dov’erano collocati gli Studios in cui si girava (Ealing), che poteva contare sulla regia di Alexander Mackendrick (“Whisky Galore!”, 1949) e l’interpretazione di Alec Guinness, Peter Sellers ed Herbert Lom. 

Il nero si stinge di rosa

Nel ‘55, la Gran Bretagna era da poco uscita dall’austera precarietà bellica e postbellica, fatta di tessere di razionamento; tra i segni dei blitz aerei tedeschi ancora ben visibili a Londra, i laburisti che avevano vinto le elezioni del subito dopo Churchill, avevano dovuto cedere di nuovo il passo ai conservatori; ed Elisabetta era stata appena incoronata da soli due anni con una diretta televisiva che aveva reso popolarissimo il nuovo elettrodomestico d’intrattenimento. Di lì a poco il paese avrebbe affrontato la crisi di Suez del 1956, i moti neri di Notting Hill, gli “arrabbiati”, il rock’n’roll, potendo contare soltanto su un momentaneo equilibrio tra Welfare State e tradizionalismo vittoriano; allo stesso modo, in bilico tra satira e parodia, il film di Mackendrick offriva un impasto d’umorismo nero che andava stingendosi nel rosa.

Il cane, il corvo, il gatto… 

Il soggettista e sceneggiatore William Rose raccontò d’avere sognato quella storia quasi per intero, in seguito limitandosi ad aggiungere solo pochi dettagli. Da quell'ottimo script l'umorismo nero i fratelli Coen l’hanno estrapolato riproponendolo in un’ambientazione diversa, il Sud degli States, in una cittadina in riva al Mississippi, con un idoneo commento musicale a base di gospel. Inserendo, oltre al gatto rossiccio Pickles, un cane con maschera antigas, un corvo e il ritratto animato del defunto marito dell'impareggiabile signora Munson, cui appunto rimane il bottino, a dimostrazione che retti principi morali e fede in Dio, sia pur insolitamente, ripaghino d’ogni eventuale sacrificio. 

Il ritratto animato

Come due dei precedenti film della coppia di St. Louis Park, Fratello, dove sei? e “Intolerable Cruelty” (Prima ti sposo, poi ti rovino, 2003), anche “The Ladykillers” fu fortemente influenzato da Preston Sturges (The Great McGinty, 1940; Christmas in July, 1940; The Lady Eve, 1941). La gag del ritratto di Othar che cambia le espressioni del viso è tratta infatti da “Sullivan's Travels” (1941), ed è come se facesse il paio con la foto dello sceriffo nella sede della polizia che vuol fornire un’esilarante quanto sincera spiegazione alla richiesta del voto: «Rieleggetemi, sono troppo vecchio per lavorare». 

Anime sbagliate

I fratelli Coen non amano gli idioti grandiosi (profondamente buoni, прекрасну, prekrasnyj), alla Dostoevskij (Irrende Seelen del 1921, diretto da Carl Froelich), ma i veri imbranati (L'amour braque di Andrzej Żuławski, del 1985): dagli inetti ladri di bambini di Arizona junior (Raising Arizona, 1987) ai balordi rapitori di Fargo (1996). Un rapper sboccato (Gawain, il nome del nipote di re Artù), infiltrato nella casa da gioco da rapinare, un grosso e tonto ex giocatore di football, energumeno "gorilla" rintronato (Lump, “gonfiato”), un ex soldato (Generale) vietnamita, un sedicente ex eroe dei diritti civili, altrettanto sedicente esperto di esplosivi, sono quattro criminali da strapazzo che si dimostrano ben presto inadeguati a qualsiasi compito; ma sono anche quattro personaggi sopra le righe, degni d’un cartoon, e, come se non bastasse, ognuno di loro presenta una caratteristica tutta da ridere: chi soffre di diarrea, chi beve l’acqua in cui è immersa una dentiera, il nero paga la bustarella al bianco e il tonto svolge il lavoro bruto per tutti quanti gli altri. Qui, però, il duo del Minnesota vuole decisamente pure fare sfoggio di ironia e cultura: la vecchia grossa vedova di colore (una “vedova nera”!) canta “Let it shine on me, let it shine on me… My Lord, he's done just what he said” di "Blind" Willie Johnson.

Edgar Allan Poe

“… Ed ecco! Nella nicchia splendere/ Simile ad una statua tu m'appari/ Con la lampada d'agata in mano! / Ah, Psiche, venuta da quelle regioni/ Che sono Terra-Santa.”. A sentire la versione d’un apparente ladro gentiluomo, come il professor Goldthwait Higginson Dorr III, per potersi esercitare col suo quintetto di musica rinascimentale si sarebbe preso un anno sabbatico dall'università di Hattiesburg onde preparare quest’ensemble di appassionati volenterosi alle future esibizioni nel corso d’occasionali ricostruzioni storiche e feste in costume. 

Dovendo tuttavia spesso tener testa a un altro istrionismo, quello del tutto spontaneo, di Irma P. Hall (Marva Munson), Tom Hanks, prendendo il posto di Alec Guinness, si diverte a sfoggiare un linguaggio forbito, infiorato di citazioni e di versi poetici tratti dalle opere di Edgar Allan Poe: A Elena, Il corvo ("Nevermore"), Il gatto nero. Il colore del micio non corrisponde, ma gli altri elementi di quel racconto del 1843 non mancano: dall’inciampo lungo le scale della cantina e dallo scavo nella parete al progetto di murarvi dentro il cadavere dell’affittacamere. 

Aletto, Tisifone o Megera?

In Poe, come nel film dei Coen (che già con “Fratello, dove sei?” s’erano ispirati  all'Odissea di Omero), il gatto sembra sostituire le Erinni dell’Orestea di Eschilo (“un canto d'orrore vogliamo intonare”), assumendosi il compito giustizialista di vendicare gli omicidi dei genitori, nelle tragedie greche, dei congiunti, in Poe, e le cattive intenzioni tout court, nella pellicola, dove il micio rosso non figura tanto come delatore o stimolo malefico (gatto nero), bensì si mobilita per occultare delle prove indiziarie e chiudere il cerchio dell’intreccio, quale motore, defilato e nient’affatto appariscente, dell’intera trama.  


 

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