Non si sono ancora spenti gli echi delle complicate celebrazioni del centenario della nascita di Saverio Strati, che una Calabria incapace di utilizzare la memoria come scrigno di piccoli grandi tesori di una storia quasi sempre vissuta in secondo piano, si dibatte nella retorica della ricerca di una identità nuova da raccontare in cambio degli stereotipi e dei pregiudizi.
Eppure il grande scrittore di S. Agata del Bianco ha, più di altri e senza clamori, con la sua vita e la sua lezione umana e letteraria rappresentato un modello di calabresità fuori dagli schemi presenti in tanta letteratura, che ha utilizzato in modo strumentale lo stigma dell’emigrante, dell’abbandono del paese natio e della ‘ndrangheta.
Saverio Strati amava dire di se: “Da oltre vent’anni vivo a Scandicci, alle porte di Firenze. Vivere lontano dalla mia terra mi consente di vedere con più chiarezza i problemi del Mezzogiorno. Turgenev in una sua memoria scriveva «So soltanto che io certamente non avrei scritto Le memorie di un cacciatore» se fossi rimasto in Russia. La stessa cosa posso dire di me. Se non fossi uscito dalla Calabria, non avrei potuto scrivere tutte le cose che ho scritto...”
Ecco una indiretta risposta, con quarant’anni d’anticipo, alla cultura della “restanza”, che sembra fermare il destino del calabrese alle sue origini, alla terra natia in un mondo che tende a ridurre gli spazi e il tempo e reclama la globalità delle conoscenze e dei saperi.
Qualche tempo fa si è aperta una interessante discussione sulla narrazione che domina e condiziona i media nazionali e all’occorrenza quelli internazionali, creando necessariamente quei pregiudizi e quelle negatività che accompagnano da sempre l’immagine della Calabria. Ovviamente tutte le opinioni espresse convergevano su un punto e cioè che occorre innanzitutto che siano i calabresi a fare il primo passo. Lo aveva capito con largo anticipo Corrado Alvaro allorché aveva sostenuto, in un articolo pubblicato sul primo numero de L’ Espresso il 5 ottobre 1955 che “il problema della società calabrese è un problema di lealtà… di creare un’atmosfera di collaborazione con i poteri centrali.” Ma sapendo che oggi è necessario confrontarsi con la schiena dritta con lo Stato centrale e con la politica, reclamando un cambio radicale dei codici di lettura dei bisogni del territorio.
La figura di un grande calabrese come Saverio Strati, che con la sua vita spesa fino alla fine lontano dalla Calabria, ci ha voluto testimoniare che bisogna vivere il nostro tempo senza rimpianti e senza cercare di fermarlo o peggio riportarlo indietro. Ma soprattutto prendendo coscienza che non si può cambiare la storia, specie quella del drammatico distacco di tanti calabresi dalle loro origini, dai loro affetti, dal focolare delle loro credenze.
E ancora una volta è la parola di uno dei più grandi poeti calabresi del Novecento, Franco Costabile, di cui anche quest’anno ricorre il centenario della nascita, che in un monumentale “ Canto dei nuovi emigranti “ ci rassegna l’epopea più reale di cosa è stata la diaspora calabrese degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, su cui l’Italia ha costruito il suo miracolo economico.
“Ce ne andiamo, Ce ne andiamo via… Senza/ sentire più/ il nome Calabbria/il nome disperazione… Troppo/troppo tempo/a restarcene zitti/ quando bisognava parlare, basta… Via/Via!… Non chiamateci./Non richiamateci… Noi/ce ne siamo/già andati./Dai catoi/dagli sterchi orizzonti… Cancellateci/dall’esattoria. Dai municipi/dai registri/dai calamai/della nascita… Siamo/le braccia/ le unghie d’Europa./Il sudore Diesel./Siamo/il disonore/la vergogna dei governi./Il Tronco/di quercia bruciata/il monumento al Minatore ignoto… Milioni di macchine/escono targate Magna Grecia… Addio,/terra:/Salutiamoci,/è ora.”
Difficile rispondere ai versi lucidi, ineluttabili dell’immensa tragedia del poeta di Sambiase con la mistica della “restanza” .
Perché oggi, tutto questo “è melodramma, retorica, letteratura sorpassata e consolatoria”, come dice Gioacchino Criaco a proposito dei “calabresi di agosto” quelli dalle “andate lunghe e i rientri brevi” perché questi calabresi “ se li porta via il vento, come le foglie d’autunno”.
Oggi bisogna cominciare a credere che una nuova Calabria è possibile rappresentarla cominciando dal linguaggio e dagli strumenti che si possono utilizzare per dialogare col mondo esterno indicando con chiarezza e autorevolezza i temi del confronto a partire dalla cultura e dalla scienza, senza complessi, ritrosie e senza confini. Non disperdendo risorse e cogliendo fino in fondo le opportunità che si presentano.
In questo senso va letta la notizia della decisione della Professoressa Franca Melfi di abbandonare la docenza presso l’Università di Pisa e ritornare in Calabria presso l’UNICAL alla nuova Facoltà di Medicina. Franca Melfi, nata a Cosenza e cresciuta a Oriolo, professionalmente divenuta la prima italiana nel campo della chirurgia toracica robotica presso l’ Azienda Ospedaliero-Universitaria di Pisa e, oggi, Presidente della Società Europea di Chirurgia Cardio Toracica, ha fatto una scelta di vita e professionale che non solo sconfigge ogni stereotipo e pregiudizio, ma apre una nuova pagina su quella che può essere la capacità della Calabria di attrarre intelligenze ed eccellenze. Non sulla base del marketing territoriale della restanza, ma della grande qualità dell’offerta culturale, scientifica e professionale, di cui si sta rendendo protagonista l’Università della Calabria.
Malgrado gli allagamenti e le fughe dall’Annunziata.