Venerdì, 24 Gennaio 2025

                                                                                                                                                                             

 

                                                                                                                                                                                                          

I Incontri contemporanei

HAN KANG PREMIO NOBEL PER LA LETTERATURA 2024

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La scrittrice sudcoreana Han Kang ha ricevuto il premio Nobel per la Letteratura 2024, con questa motivazione "... per la sua intensa prosa poetica che affronta i traumi storici ed espone la fragilità della vita umana".

Nata a Gwangju il 27 novembre 1970, figlia dello scrittore Han Seungwon, ha vinto il Yi Sang Literary Award. Tra i suoi libri "La vegetariana", vincitore del Man International Booker Prize nel 2016, "Atti umani" (2017), "Convalescenza" (2019) e "L'ora di greco" (2023), da noi i suoi romanzi sono pubblicati da Adelphi.  

Vincitrice nel 2017 del premio Malaparte a Capri, dove aveva presentato "Atti umani", in traduzione italiana, con la giuria presieduta da Raffaele La Capria. Il romanzo è stato ispirato da un episodio di rivolta urbana avvenuto nella Corea del Sud nel maggio 1980, ed è un lungo dialogo tra ‘i vivi e i morti’, centrato su una carneficina realmente accaduta, ma che noi in Occidente non conoscevamo.

La scrittrice sudcoreana era salita alla ribalta mondiale nel 2016 con "La vegetariana", che racconta la storia di una donna che, quando si rifiuta di mangiare carne, si imbatte in conseguenze disastrose: la protagonista, Yeong-hye, viene sempre descritta attraverso un'altra persona: prima il marito, poi il cognato e infine la sorella; ed è come se la protagonista fosse così privata del diritto di avere una propria identità, e la sua esistenza fosse giustificata solo in rapporto a qualcun altro. La decisione di non mangiare più carne rappresenta un atto di ribellione, ed è co significante della necessità di Yeong-hye di riaffermare la propria esistenza in quanto individuo a sé. Al tempo stesso però, è anche una sorta di negazione di quel corpo, il suo, che ha subito una violenza fisica e psicologica. Il disgusto per la carne, che si avverte dalla stessa natura visionaria dei suoi sogni, si identifica con la negazione di quel corpo stesso e con la ricerca attraverso questa operazione di una liberazione catartica dal trauma, attraverso una sensibilità al femminile che da sempre ‘sente’ il proprio corpo, la propria stessa ‘carne’ come ‘culla’, ma anche ‘tomba’, in un continuo rapporto tra ‘vita’ e ‘morte’.

Yeong-hye, un giorno sogna una foresta scura e, dentro di questa, una baracca piena di carne appesa grondante sangue. Risvegliatasi, rifiuta di mangiare, cucinare e servire carne. L’improvvisa e impassibile ostinazione della donna genera nei famigliari reazioni sempre più violente rivelando alla sorella, solo nel momento più estremo, come la loro infanzia fosse stata un susseguirsi di piccoli ma ripetuti abusi che lentamente ma inesorabilmente avevano cambiato la forma di chi li subiva, lo spazio che occupava nel mondo, il proprio equilibrio. Una cultura sopraffattoria che non le ha dato le parole per esprimere quel che subiva, ma unicamente per nasconderlo. Solo gli incubi riescono a dare la loro enigmatica forma a ciò che Yeong-hye sente, mentre il rifiuto della violenza si traduce progressivamente in una rinuncia a vivere attivamente, anche solo a nutrirsi di qualcosa che non sia immateriale.

Dopo gli studi all'Università Yonsei di Seul in letteratura coreana, Han Kang esordisce con una raccolta poetica nel 1993, "Winter in Seoul" (1993). L'anno successivo esce il suo primo romanzo, "Red Anchor", al quale ne seguiranno altri sei. Dal 2013 insegna scrittura creativa al Seoul Institute of the Arts.

Singolare l’iniziativa aderendo alla quale Kang, il 25 maggio 2019, ha consegnato un suo manoscritto inedito intitolato ‘Dear Son, My Beloved’, alla Biblioteca del futuro, un progetto artistico culturale ideato da Katie Paterson. Così come le altre opere di questa biblioteca anche il libro di Kang verrà pubblicato e reso disponibile cento anni dopo l'avvio dell'iniziativa. 

L’autrice compie un’indagine su chi ha subito violenza. Sulle conseguenze di questi atti sulle vittime e sul perpetuarsi degli effetti nelle società attraverso la storia, per arrivare all’ereditarietà del trauma e della violenza.

Ed è proprio questo l’aspetto più significativo del lavoro di Han Kang. E lo è fin dal suo libro ‘La vegetariana’ del 2007.

«Quell’inspiegabile serenità lo atterrì: gli fece nascere il sospetto che si trattasse solo di un’impressione, quel che era rimasto in superficie dopo che un’enorme quantità di inenarrabile violenza era stata assimilata, o si era depositata dentro di lei come un sedimento», osserva il cognato di Yeong-hye, divenuto artista dopo essere sopravvissuto al massacro di Gwangju. È l’unico che in qualche modo riesce ad avvicinarsi a lei, non senza danneggiarla, còlto com’è da un’ossessione artistica ed erotica per il suo corpo paradossalmente sempre più incapace di sentire e mostrare desiderio.

Un eccidio e il riflesso che questo ha avuto sulla società è anche il fulcro del romanzo We Do Not Part, del 2021, che sarà pubblicato ai primi di novembre da Adelphi con il titolo Non dico addio. La storia si svolge all’ombra dello sterminio avvenuto alla fine degli anni 40 sull’isola sudcoreana di Jeju, dove decine di migliaia di persone, tra cui bambini e anziani, furono fucilati perché sospettati di essere comunisti. Un’onirica discesa agli inferi, nella storia di una famiglia, dove la frontiera tra visibile e invisibile sembra svanire. Non svanisce, ma invece persiste, la violenza. Traumi ripetuti sono all’origine anche del mutismo della protagonista di L’ora di greco (2011, Adelphi 2023), che aggrappandosi alla radicale estraneità della lingua greca spera di riappropriarsi della propria voce.  In The white book (2017), non ancora tradotto in italiano, il più autobiografico di tutti i suoi romanzi, per ammissione stessa dell’autrice, assistiamo ad una sorta di memoria verso una persona che non ha mai vissuto, che la narratrice non ha mai conosciuto, il tentativo di superare un lutto mai veramente vissuto nella sua pienezza, quello per una sorella morta prima che lei nascesse, due ore dopo aver visto la luce. Una meditazione su un trauma che non si annida nella sua memoria, ma in quella altrui, a che eppure in lei esiste, anche se non ha forma.

Una scrittura poetica ed onirica senza essere mai piegata su sé stessa, ma invece anche scarna e asciutta, il racconto di più aspetti della violenza, e dei soprusi che spesso sperimentano le donne, ancora oggi.

Una sensibilità onirica che trasmette attraverso il rimando al visionario, che l’avvicina ad altri grandi premi Nobel, come ad esempio Frédéric Joseph Étienne Mistral, scrittore e poeta francese, insignito nel 1904 del premio Nobel per la letteratura, o nel 1913 - Rabindranath Tagore, e a seguire nel 1946 - Hermann Hesse, nel 1947 - André Gide e nel 1948 - T.S. Eliot, solo per citarne alcuni.

Ma quello che maggiormente affascina della scrittura di questa scrittrice, è il lavoro sugli opposti che visti come dualità finiscono con l’auto affermarsi a vicenda, la vita con la morte, il pieno con il vuoto, in un gioco, o anche una sorta di danza dai rimandi ancestrali.

 


 

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