Alcuni punti fermi nella discussione esistono e da tempo. Allinearli rapidamente può essere utile per tentare un passo in avanti. Ad esempio non ci voleva lo scandalo delle toghe per enfatizzare un dato noto da tempo, ossia che la lotta per le carriere è al calor bianco soprattutto tra i pubblici ministeri e soprattutto quando si aspira a posti di comando nelle procure della Repubblica.
A innescare la guerriglia e a dar fuoco alle polveri una pericolosa miscela che prende le mosse da improvvide riforme legislative (la brusca riduzione dell’età pensionabile a 70 anni e il rafforzamento, dal 2006, dei poteri dei capi degli uffici) e giunge sino alle opache commistioni - sempre più intime - tra non poche toghe e un certo giornalismo “da riporto” più che “da caccia”. Il tutto reso più instabile e precario dalla disponibilità sempre più vasta che i pm esercitano sulla polizia giudiziaria; una potestà che ha addirittura un fondamento costituzionale e che, per tale ragione, si ritiene intangibile.
Ci sarebbe altro, ma accontentiamoci di questo, per questa volta. Di tutte le criticità che affliggono settori esponenziali della magistratura inquirente quella delle relazioni tra pm e polizia è la più difficile da affrontare. Invero in molti vorrebbero che non se parlasse affatto. È un intreccio inestricabile di norme, di prassi e di qualche devianza che affligge certo a macchia di leopardo la giustizia inquirente, ma che - come tutte le malattie pericolose - ha un alto tasso di contagiosità.
È un connubio a geometria variabile quello tra pm e polizia giudiziaria che, solitamente, vive sommerso, a pelo d’acqua, appena percepibile, ma che, tuttavia, è capace di ergersi possente e spietato quando occorre. Un potere in apparenza mite, cresciuto e giustificato dalla retorica del “fare squadra” che un senso aveva nella Palermo degli anni ’80 in cui toghe e divise corrotte occupavano i palazzi del potere, isolando gli onesti, ma che è privo di ogni giustificazione in questi decenni del nuovo secolo, quando 40 anni sono passati, e non invano per fortuna, da quella stagione buia.
Si diceva della disponibilità della polizia giudiziaria da parte del pubblico ministero. A parlarne si varcano i cancelli di un giardino proibito e si affonda lo sguardo sui pilastri sommersi dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura in Italia. Senza l’articolo 109 della Costituzione («L’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria») l’ordine giudiziario, la sua stessa rappresentazione iconografica, avrebbe in mano la bilancia, ma non la spada, ovvero il simbolo della sua capacità di recidere e colpire il male. Si badi bene: la giustizia penale in Italia non si limita a stabilire chi sia colpevole o innocente, come nel resto del mondo occidentale, ma dispone tra le proprie fila di un braccio operativo, di un’organizzazione praticamente illimitata, fondata sulla disponibilità che il pm ha di centinaia e centinaia di agenti e ufficiali di polizia giudiziaria anche nel più minuto dei circondari di tribunale. Organizzazione che, come noto, ha un compito decisivo ovvero stabilire di cosa i giudici si possano e si debbano occupare. Anche solo indicare a chi competa la qualifica di operatore di polizia giudiziaria è un compito immane: oltre alle tradizionali forze di polizia, ci stanno dentro gli ispettori dell’Inail, quelli dell’Inps, quelli delle Dogane, quelli dell’Ispettorato del lavoro, gli uomini della polizia provinciale, quelli della polizia locale in ciascun comune, quelli dell’Agenzia delle entrate e tanti altri ancora. Un esercito che, manovrando abilmente, può rappresentare una forza d’urto incontenibile e che ciascun pm può adoperare a propria discrezione: a Piacenza, per dire, le indagini sui carabinieri sono state condivise tra Guardia di finanza e Polizia municipale. In altri ordinamenti questa possente ed efficiente macchina da guerra viene tenuta meticolosamente distinta dai giudici. L’attività inquirente è concepita come un’attività amministrativa e non giurisdizionale e, quindi, soggiace naturalmente a un altro modello organizzativo. La pensava così anche Giovanni Falcone, come noto, che del processo accusatorio, quale strumento per battere le mafie, era un convinto e leale sostenitore. Il nocciolo della questione è che, distinta la bilancia dalla spada, il peso complessivo della corporazione svanirebbe o quasi, come in molti altri ordinamenti in cui la giustizia è un mero apparato di servizio e non la cruna dell’ago attraverso cui deve passare il cammello della moralità e della legalità di una Nazione.
Ciò che rende centrale nel nostro ordinamento la posizione del pm nei ranghi della giurisdizione è proprio questa incondizionata disponibilità di uomini e mezzi con un budget, a sua volta, privo di limitazioni finanziarie e di rendicontazioni contabili. Un fatto impensabile altrove. E’ l’ufficio del pubblico ministero che, per così dire, impugna la spada e - condividendo con i giudici l’appartenenza alla medesima corporazione - si pone, lui stesso e lui solo, alla ricerca dei colpevoli, senza incontrare alcun limite che non sia quello, fragile e indifeso, di incanalare le indagini all’interno di un fascicolo. Non importa, poi, quanto questo fascicolo sia smisurato e per quanto tempo resti aperto o che ci entri o ci esca con il sistema degli “stralci”. Non esiste, di fatti, alcun controllo su questo snodo del lavoro inquirente e ogni, pur recente, tentativo di porre un argine a queste prassi è naufragato a fronte di un’evidenza assoluta: per controllare l‘ufficio del pm ci sarebbe in teoria la procura generale in ciascun distretto, ma i mezzi del primo surclassano quelli del secondo di innumerevoli volte. Il controllato è molto più efficiente e, quindi, molto più potente del controllore. Per cui partita chiusa; anzi mai disputata, se non in qualche rara occasione. È come far giocare Messi con il troppo cieco Mr.Magoo.
L’erezione di questo monolite, si badi bene, è un’operazione complessa, richiede intelligenza, alleanze e una capacità di reclutamento tanto feroce quanto efficiente. Soprattutto richiede consenso e parecchio, in modo tale che non trovino ostacoli negli edifici del potere le prassi di cooptazione con cui il pm si sceglie la propria polizia giudiziaria e, altrettante volte, la polizia giudiziaria individua il proprio pubblico ministero. Il decennio appena trascorso appare, a ogni evidenza, come il laboratorio ideale in cui questo inatteso Moloch ha preso vita tra le maglie sfilacciate del processo. Su come sia stato possibile ne riparleremo. Per ora si profila chiaro che coloro i quali - da qualche decennio e invano - reclamano la separazione delle carriere tra giudici e pm in nome della parità tra le parti del processo, trascurano quasi sempre un fattore decisivo della partita che vorrebbero giocare: la diretta disponibilità della polizia giudiziaria da parte del pm. Una disponibilità che si è tentato inutilmente e blandamente di contenere da parte del potere politico e dei vertici delle forze di polizia (basta leggere la sentenza 229/2018 della Corte costituzionale) e su cui si fonda la complessiva potestas (più che l’ormai scarsa auctoritas) della magistratura italiana.
Non è detto che il potere politico nasca sempre e ovunque dalla canna dei fucili (Mao Tse-Tung), ma ci sarà una ragione se Brenno, durante il sacco del 387 a.C., davanti ai Romani che protestavano per la bilancia truccata con cui si pesava l’oro del riscatto consumò il gesto di lanciarvi sopra la propria spada prima di pronunciare il celebre “vae victis”. Ecco una spada che difende una bilancia truccata, pessimo monito per una protesta senza grandi speranze.
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