L’assalto alla sede nazionale della CGIL, più antico Sindacato italiano, deve essere esaminato sgombrando il campo dalla furente polemica sulle disposizioni di legge inerenti alla pandemia, altrimenti si cade nella trappola che proprio i facinorosi stanno imbastendo. Un conto è manifestare riguardo ad una disposizione che, in modo coattivo, vorrebbe il bene comune senza tenere conto di una moltitudine variegata di opinioni sul cui merito non è necessario entrare, un altro è resuscitare il modus operandi che andava per la maggiore esattamente un secolo fa, all’avvento di quello che per l’Italia fu il male assoluto: il fascismo.
La Confederazione Generale Italiana del Lavoro può a ragione ritenersi la “madre” del sindacato italiano e dell’intero movimento operaio. La crisi di rappresentanza, che coincide con la crisi delle idee e con un momento storico teoricamente vicino a “La Fine della Storia”, si fonde con una superficialità culturale estrema, con uno sviluppo insensato del narcisismo patologico collettivo, con il trionfo del consumismo delirante- effetto di un capitalismo affatto sensato- determinandone la decadenza d’immagine e, purtroppo, anche di potere.
Le critiche, a volte fondate, più spesso solo frutto di una vulgata sostenuta in modo subdolo da padroni e padroncini, hanno provocato un netto stacco tra una storia importante -della quale non si può fare a meno- e una realtà oggettiva nella quale la dialettica si è ridotta a scambi di battute sui social, a slogan, a concetti da terza elementare elevati a rango di deduzioni filosofiche.
Forse sarebbe bene chiarire che sui luoghi di lavoro senza la presenza di tutti i sindacati le condizioni dei dipendenti sarebbero nettamente peggiori, e che nell’ottica della razionalizzazione delle risorse -impostata in modo estremo dal trionfo di questo liberismo selvaggio- la forza lavoro tornerebbe al servaggio se non alla schiavitù. Il fattore umano conta sempre meno, nella società in generale e nel mondo della produzione in particolare, e l’unico freno al dominio assoluto del capitale è il sindacato.
Solo il sindacato, niente altro che il sindacato, esclusivamente il sindacato, cioè l’unione dei lavoratori, riesce ancora a contenere la logica del profitto, riesce a smussare lo strapotere delle aziende che, in combutta con una larga fetta della classe politica attuale, e sostenute da teorie inumane come quella di Milton Friedman, tendono a ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo attaccando diritti e priorità dei lavoratori.
Diritti e priorità conquistati, nel corso dei decenni, da battaglie sindacali costate lacrime e sangue, diritti per i quali la CGIL ha pagato il suo tributo di dolore, ha subito violenze, intimidazioni, omicidi, sempre e soltanto a difesa e sostegno dei più deboli. Da Di Vittorio a Landini, la storia di questa organizzazione è costellata di martiri, dalla strage di Portelle delle Ginestre a Placido Rizzotto, da Torre Melissa a Pio La Torre a Guido Rossa, un elenco lungo pagine e pagine, e una indimenticabile sequenza di battaglie vinte e risultati ottenuti che incidono, in modo determinante, sul presente di tutti.
Le ferie pagate, la tredicesima, la quattordicesima, il diritto alla malattia, le festività retribuite, il lavoro straordinario. Verrebbe da urlare: gente, guardate la vostra busta paga, prima di nominare i sindacati. Ciascuna di quelle voci è frutto di una battaglia, di un impegno deciso, di una fede smisurata nell’uguaglianza e nella dignità degli uomini.
Che poi, in un mondo totalmente “liquido” per dirla con Bauman, in una realtà mutata dall’avvento epocale dei social e dal predomino tecnologico e finanziario, il sindacato debba fare i conti e ridefinirsi, ricollocarsi e addirittura inventarsi nuove forme di lotta, non ci sono dubbi. Ma da qui a non condannare in modo netto e preciso, senza eccezione e dubbio alcuno, l’attacco di una squadraccia fascista, risorta dal passato grazie all’accondiscendenza e alla complicità di politica e finanza, ce ne passa.
Ciò che è accaduto alla sede nazionale della CGIL deve essere immediatamente preso come sintomo di una recrudescenza antistorica, che manifesta il crollo verticale della cultura di massa, e simboleggia l’arretramento della consapevolezza delle classi sociali più disagiate. Un manifesto della superficialità indotta che va combattuto con tutti i mezzi possibili da chi ancora crede nell’equità e nella giustizia. Non solo con misure legislative e giudiziarie che prevengano e annientino qualsiasi tentativo di destabilizzare questa democrazia malconcia. Ma anche intervenendo nel mondo della cultura e dei media con idee chiare che possano ristabilire verità storiche e indiscutibili. Oltre che riposizionando, al centro del dibattito, quella “questione morale” invocata dalla voce potente di Enrico Berlinguer, che non era un sindacalista ma che ne incarnava l’autentica anima e le sue pulsioni più feconde.