Oggi vorrei parlare di un fenomeno che ci affligge, e che ha trasformato il concetto di minoranza in rifugio di un pensiero che non affronta il dibattito. Parlo, naturalmente, delle reti (a)sociali.
Il ragionamento è assai complesso, spero che abbiate la pazienza necessaria per leggere 'sta roba.
Iniziamo da un dato di fatto: il concetto di minoranza viene arricchito dal concetto di appartenenza, e il concetto di appartenenza, filtrato dalle reti (a)sociali, diventa un meccanismo di difesa che ci allontana assai dalla benché minima capacità autocritica.
Sappiamo bene che da dietro lo schermo del computer chi non ha una preparazione specifica, può dire la sua seguendo una certa corrente di pensiero e non approfondendo il tema.
Il contraddittorio richiede ricerca e fatica e, si sa, il nostro essere emozionale preferisce seguire le semplificazioni che rispondono a particolari esigenze più che al contraddittorio, anche perché le argomentazioni complesse e articolate, se non si riducono al “mi piace”, vengono considerate prodotto del potere. Certo, è meglio dar retta a chi dice “mi piace” in un modo o nell’altro che dibattere fino a trovare un accordo, perché dibattere implica non tanto imporre la propria idea, ma accettare le argomentazioni del dibattito: che siano favorevoli o in contrapposizione, se ben esposte e fondate su ragionamenti costruttivi, hanno un valore. Ma il popolo della rete raramente ragiona così, la rete è frettolosa e rispondere a chi espone un ragionamento, in contrapposizione con il proprio, non è ammissibile, meglio dire “è un dialogo tra sordi” oppure “non occorre essere molto intelligenti per capire che…” dando del poco intelligente a chi non è dello stesso avviso e tenta di esporre il proprio punto di vista. Ma di questo si tratta, di esporre punti di vista. Solo che se un punto di vista risponde a un’analisi diversa da quella della minoranza, viene bollato come pensiero “mainstream”. Si ragiona per categorie.
Appartenere a una minoranza ci fa diversi, ci fa sentire di essere la parte rivoluzionaria della società, ci fa sentire speciali e, forse, sovversivi perché gli altri, la maggioranza, rappresentano il pensiero allineato e vengono spesso presi di petto se non addirittura insultati. Essere minoranza vuol dire anche combattere per i diritti umani. Intendiamoci, a volte è vero, ma nella maggior parte dei casi si cerca solo appartenenza da sbandierare nei “mi piace”, e questo non va bene per ché si anima un fenomeno che non favorisce alcuna forma di dialogo, semmai lo impedisce, e alla fine ci si trova a difendere il pensiero senza contraddittorio, perché le reti sociali non hanno contraddittorio e perché il contraddittorio fa paura. Già, per un pensiero che non ha argomenti validi, l’unica risposta è il rifugio, la protezione del pensiero, la chiusura a riccio su una posizione che, invece di essere portata avanti e difesa con la dialettica, si basa su prese di posizione prive di fondamento. Non sempre, ma spesso. E come si difendono questo pensiero o questa posizione? Con la divisione tra “io lo so, loro non capiscono” oppure “la verità scomoda viene censurata, loro fanno il gioco dei poteri forti” se non addirittura all’insulto. La realtà è che un guscio fondamentalista, eretto a protezione di argomentazioni non sempre ben fondate, è il miglior rifugio per un pensiero debole. Lo è anche perché i seguitori di questo pensiero di solito non hanno le competenze per argomentare, né la voglia di discernere tra giusto o sbagliato, semplicemente difendono la posizione a oltranza, come un militare in trincea e, pur se lo fanno in assoluta buona fede, vedono il dialogo come un attacco personale. Alla fine, nel sentirsi parte di una minoranza che ha capito, ci si sente combattenti, ci si sente rivoluzionari incompresi, ci si sente uomini degni della battaglia e… chi non è d’accordo rappresenta il pensiero unico oppure fa parte di un complotto. Già, il complotto. Fosse vero. In realtà è una giustificazione assai grave perché converte quello della minoranza in martire del libero pensiero. Martire, chiaro? E non è così che funziona il fondamentalismo?
Ora, però, invito a una riflessione: sentirsi minoranza è un pensiero che probabilmente oggi appartiene alla maggioranza. Già: tutti, bene o male, siamo minoranza. Ho detto “tutti”, quindi la maggioranza è la minoranza che, essendo maggioranza, smette di essere minoranza!
E come può la minoranza proteggersi dal diluirsi nella maggioranza se non chiudendosi al dialogo?
Quindi la risposta è chiara: bisogna alimentare i micro-fondamentalismi, bisogna fare in modo che ci si senta depositari della verità con la possibilità di diventare autentici rivoluzionari.
Ma attenzione, questi micro-fondamentalismi devono essere contro il potere, e il potere ordisce complotti, altrimenti non vale. Ma, ecco, proprio perché sono “micro”, assistiamo a una disgregazione delle forze intellettuali e a una depredazione delle potenzialità del pensiero, il pensiero forte, nei micro-fondamentalismi, scompare (e questo sì che potrebbe essere il risultato di un complotto del “potere”)!
Quindi ci troviamo davanti a situazioni paradossali, come ad esempio l’associazione che si chiude su se stessa vivendo l’associazionismo come una sorta di centro di potere; oppure l’artista, lo scrittore, il poeta… che si ritiene un martire del sistema perché il suo talento non viene riconosciuto se non da chi lo applaude; il fanatico della rete che, informandosi su Youtube, rifiuta qualsiasi contraddittorio perché lui conosce la verità e il resto è un complotto e comunque, chi tenta di dibattere diventa un avversario. Ecco la parola: avversario, non più persona che contribuisce al dibattito, ma avversario, anzi, nemico da neutralizzare…
Insomma, le micro-minoranze vivono di micro-fondamentalismi. Più semplice: se la cantano e se la suonano tra di loro, vanno avanti a suon di “mi piace”, gradiscono solo approvazioni e arricchimenti della tesi iniziali che concettualmente si esplicano in “anch’io l’ho sempre pensato, ma mi hanno bannato/a” e “la verità è scomoda e noi diamo fastidio, per questo ci censurano”. Baluardi della verità scomoda e vittime del sistema che li censura. È assai comodo argomentare così, la dialettica e l’eloquenza non servono, il dibattito muore, nasce il rivoluzionario fai da te, che spesso è rivoluzionario solo perché si accoda a chi strilla di più (stendo un velo pietoso su quello che negli ultimi trent’anni ha caratterizzato la nostra politica).
E intanto il mondo va a rotoli.
Se ci unissimo veramente per combattere per un obiettivo, per capire e magari per risolvere qualcosa che riguarda tutti, che so, per esempio: l’ambiente, le migrazioni di massa, la distribuzione della ricchezza… Se lo facessimo, non potremmo ottenere qualche risultato? Ma non è possibile, lo dimostra la metamorfosi che abbiamo subito durante questa pandemia, essendo diventati tutti animali da rete sociale, esperti immunologi, epidemiologi eccetera, nessuno ormai in grado di capire le dinamiche dei fenomeni, nessuno in grado di ascoltare voci autorevoli posto che l’autorevolezza è ormai qualcosa di soggettivo, qualcosa che decide Youtube, e non la comunità scientifica mondiale. Risultato? qualsiasi azione si frammenterà in gruppetti sulle varie reti sociali e chi dirà che bisogna piantare girasoli chiuderà il dialogo a chi difende gli ippocastani. Ognuno dicendo di conoscere la verità.