“I ricchi e i disperati protestavano insieme, con donne e bambini in prima fila”.
E’ una delle frasi più incisive dell’interessante reportage di Giuseppe Smorto, giornalista reggino, apparsa recentemente su il Venerdì di Repubblica, dal titolo “ Ritorno a Reggio C.” con una splendida e significativa foto di copertina del luglio 1970, con blindati della polizia nelle strade di Reggio e la cattedrale sullo sfondo. Una drammatica sintesi di una vicenda che 50 anni fa infiammò la Calabria, ma che rimane una delle pagine più sconcertanti e, purtroppo, non sufficientemente indagate, della storia del nostro Paese. Una storia di intrecci incredibili tra istituzioni, apparati infedeli dello Stato, piccola e grande criminalità, massoneria, organizzazioni terroristiche neofasciste, costruiti sulle macerie di un forte sentimento popolare, alimentato sul legittimo bisogno di riscatto di un territorio martoriato e strumentalizzato da una classe politica mediocre e opportunista. Una vicenda che ha aperto una ferita per l’intero tessuto sociale e civile calabrese, mai più rimarginata e su cui finora la politica ha girato lo sguardo in modo pavido e ottuso. Al punto che un protagonista coraggioso di quelle sanguinose giornate, Renato Meduri, può ancora oggi affermare “Lo Stato parlò solo con i fucili e gli ordini di comparizione... Riconciliazione? Mai”.
Dopo mezzo secolo queste parole risuonano laceranti nel cielo plumbeo di una Calabria ancora frantumata dalle divisioni dei mille campanili, su cui ormai è calata l’ “ombra del vento”, come scriveva il grande Carlos Ruiz Zafòn.
E non meno laceranti sono le quasi cinquecento pagine del bel libro di Gianfrancesco Turano “Salutiamo, amico” edito da Giunti, che mi interessa segnalare per una prospettiva abbastanza inedita che caratterizza il lavoro del giornalista calabrese dell’Espresso. Innanzitutto la scelta del romanzo per cercare di ricostruire le tormentate vicende, che la cronaca ha tramandato come la rivolta per il capoluogo negato alla città di Reggio, ma che Turano, con notevole abilità tecnica di scrittura, restituisce ad una dimensione più ampia, di intrigo almeno nazionale. Servendosi del punto di vista, a volte incantato, a volte disinibito e arguto anche per le trovate linguistiche in cui viene piegato l’immaginifico dialetto reggino, di due giovani protagonisti, Nunzio e Luciano, che in uno scambio di lettere, a volte esilarante, spesso dolente, ci accompagnano in una saga familiare calabrese moderna. In cui tra le molotov rudimentali, i cingolati dei blindati militari, le fosche trame dei capibastone, in contrasto violento ma uniti nelle scelte strategiche contro lo Stato, tra droga, contrabbando e sequestri, scoppia l’amore violento di Rosalba, figura controversa e libera nelle sue scelte di madre e di donna, con Giovanni, giovane carabiniere scaraventato in una lotta non sua sia per il capoluogo sia tra i padrini sanguinari e famelici della ndrangheta. Il libro di Turano apre sicuramente uno spiraglio importante nella ricostruzione puntuale del ruolo della ‘ndrangheta nella rivolta, in cui si incuneò con il devastante potenziale criminale e tenta anche una rilettura dei conflitti generazionali all’interno della Santa, di cui peraltro disegna l’ampia e condivisa penetrazione all’interno di tutti i gangli vitali dello Stato, dalla Magistratura alla Chiesa, alla politica, ai Servizi, alla massoneria. Ovviamente Turano da per scontato che Reggio subì un grave e insanabile torto, in quanto alla città fu “tolto” il Capoluogo di Regione. Confermando così quanto ci sia ancora da scrivere e approfondire su quelle torbide giornate.
I Moti di Reggio hanno fatto segnare una grande sconfitta per tutto il Paese e, forse, aveva ragione l’anonima scritta apparsa nell’ateneo messinese in quei giorni afosi di luglio 1970, che prevedeva che “sullo Stretto ha inizio la fine della democrazia ”. Sicuramente da quelle tragiche giornate è uscita sconfitta l’intera Calabria, non solo Reggio, che ha pagato un inaccettabile tributo di sangue e la sua devastazione civile, tradita dalle sue istituzioni, dalla classe politica, dallo stesso clero e strumentalizzata dalla ‘ndrangheta, che sperimentava proprio in quel tempo il suo spregiudicato attacco al potere, in una partita strategica e senza esclusione di colpi. La stessa città di Catanzaro, che pure vedeva riconosciuto il suo diritto a ricoprire il ruolo di Capoluogo di Regione, sia pure dimezzato, grazie all’opera di mediazione controversa di Mancini, Misasi e Pucci e alle promesse miracolistiche del “Pacchetto Colombo”, ha perso il suo appuntamento con lo sviluppo e la modernizzazione, avendo scelto la strada asfittica di città degli uffici, della burocrazia parassitaria o “della carta bollata ” , come lucidamente la definitiva un amministratore illuminato come Aldo Ferrara.
Su queste pagine ancora aperte dalla sofferenza e dal rancore, dopo cinquant’anni e a mezzo secolo dall’elezione della prima giunta regionale, sarebbe necessario aprire una grande discussione, con spirito laico, a cuore aperto e a mente libera da pregiudizi, opportunismi e da rigurgiti di rivalsa. Che coinvolga l’intera società civile, politica e culturale per tentare di superare definitivamente le ragioni di quei drammatici avvenimenti e tentare di ricucire una Calabria non più prigioniera della paura e delle barricate ideologiche, dietro cui, proprio i fatti di Reggio dimostrano che si annidano gli interessi più cupi dell’eversione e della cultura mafiosa più bieca e devastante.
Occorre fare un salto di qualità nel costruire un’immagine diversa da quella che finora è presente nel racconto nazionale della Calabria. Credo che questa immagine vada ricostruita non solo attraverso le sue indiscusse e poco propagandate bellezze naturali, o attraverso le storie dei grandi personaggi e delle grandi figure dell’arte e della letteratura calabresi, che pure non appartengono ad una storia minore della cultura del nostro Paese, ma anche attraverso una rilettura delle pagine più amare della nostra storia recente. Per il peso che hanno avuto sul nostro presente e ancora di più potranno avere per la Calabria che vuole ripartire senza preconcetti, dopo 50 anni da quei tragici avvenimenti e dopo lo sconvolgimento globale della pandemia.
Perchè sulle barricate di Reggio sono cadute vite umane innocenti, ma anche pezzi importanti della democrazia di questo Paese e, quindi, della nostra libertà.