“Se Atene piange, Sparta non ride”
I fatti di Rosarno e di Riace a distanza d’un decennio tra di loro
- dalla xenelasìa alla filoxenìa … - Miti del nostro tempo: Xenofobia, Xenofilia – Razzismo, Esotismo – Nazionalismo, Cosmopolitismo
“Ma esistono davvero le etnie, le identità culturali con le loro inconfondibili radici, lo scontro fra culture dai valori inconciliabili che con tanta frequenza ricorrono nei discorsi della gente, nella propaganda dei politici, sulle colonne dei giornali, nei dibattiti televisivi? C’è qualcosa di vero in queste espressioni, o non si tratta piuttosto di vere e proprie invenzioni senza alcun fondamento enfatizzate per coprire, sotto la maschera della cultura, ben altre spinte e inconfessabili interessi?... A incontrarsi e a scontrarsi non sono mai le culture ma le persone, e … insistere sull’identità locale, nazionale o addirittura sovranazionale significa creare recinti invalicabili che alimentano nuove forme di razzismo” - Umberto Galimberti: “I miti del nostro tempo”, Feltrinelli, Milano 2009 (corsivo mio).
La greca xenìa (ξενία)
In un discorso attribuito a Pericle, Tucidide contrappone la specifica pratica della xenelasía (espulsione dello straniero/estraneo), in uso a Sparta (Tucidide, I.144), all’abituale benevolenza degli Ateniesi: «La nostra città è sempre aperta a tutti e non c’è pericolo che, allontanando i forestieri, noi impediamo ad alcuno di conoscere o di vedere cose da cui, se non fossero tenute nascoste, e un nemico le vedesse, potrebbe trarre vantaggio…» (Tucidide, “La guerra del Peloponneso”, II, 39).
L’istituzione spartana della xenelasía veniva tradizionalmente attribuita al mitico legislatore Licurgo, che l’avrebbe concepita al fine di evitare i pericoli di una rischiosa commistura razziale.
Pure nella tradizione biblica il veicolo privilegiato della contaminazione è la donna straniera, la quale all’estraneità assomma una discriminante sessuale che ne moltiplica la “pericolosità”.
Nel Deuteronomio, la mescolanza del patrimonio genetico viene aborrita per la possibile intrusione di divinità estranee (VII, 3-4) al culto ufficiale proprio del popolo d’Israele, ed il Primo libro dei Re (11, 4-8) nomina specificamente il dio nazionale dei Moabiti, Camos, e Milcom, adorato dagli Ammoniti. Sembra che gli dei, in questo caso, si identifichino con i “geni! portatori di un patrimonio ereditabile da futuri componenti d’una società che teme di rinnovarsi.
Il fascino delle donne straniere, che recano con sé i propri dèi, costituisce una minaccia di esotismo, a causa dell’attrazione per una civiltà diversa dalla propria, insediata però in una località troppo vicina per non essere temibile.
Misura precauzionale contro questo pericolo diviene la riaffermazione del “primato” della propria cultura di appartenenza, con il conseguente rischio di nazionalismo, ove le istanze culturali di pari dignità, rispetto alla propria, vengano ad essa dichiarate comunque incomparabili.
Se da una parte, quindi, con il diniego dello sciovinismo, il grado di coinvolgimento con gli stranieri può arrivare ad ampliare il vincolo familiare, sino a intessere una sorta di “fratellanza universale” che non esclude alcuno (cosmopolitismo), una reazione di repulsione nei confronti di una qualunque differenza, di cui il “diverso” è portatore, determina un’inconciliabile barriera che ne approfondisce l’estraneità sino alle estreme conseguenze dello stigma, del razzismo, o dell’omofobia, ecc.
Sventare la minaccia e prevenire la contaminazione, mediante la “neutralizzazione” delle potenziali valenze ostili del forestiero, è il primo obiettivo delle pratiche di ospitalità, poiché ambiguo comunque rimane, nell’antica Grecia, lo statuto di cui godeva uno straniero, risentendo della sua doppia natura di “ospite” e insieme di “estraneo” alla tradizione del luogo ed emissario/portatore quindi di cultura differente.
Nella stessa determinazione concettuale del termine xénos si convogliano i significati di estraneo alle usanze del territorio, e dunque straniero, e di ospite beneficiario di accoglienza, specificamente rivolta però a garantire una sorta di immunità di contro al rischio di potenziale sovvertimento che l’estraneità comporta.
E sempre Tucidide (I, 41) spiega la declinazione di tali potenzialità, distinguendo tra gli avversari e gli alleati, i rivali e i contendenti, quelli che polemizzano e coloro che si dimostrano comunque ostili, e poi, anche tra i cosiddetti “amici”, ci sono alcuni che lo sono più di altri!
«E questo si verificò in uno di quei momenti in cui gli uomini, più che mai accaniti contro i nemici (echtroús: avversari del momento, per l’esattezza), di nulla si curano pur di vincere, e considerano amico (phílon: l’alleato provvisorio) chi li aiuta, anche se magari prima era ostile (echtrós: “odioso, che suscita odio”), e nemico (polémion: contendente in un conflitto) chi è loro di ostacolo, anche se prima era amico (philos: tradizionale confederato)».
Amicizia ed inimicizia appartengono allora a una terminologia del tutto relativa e possiedono un carattere strettamente soggettivo che necessita di ulteriori ragguagli e dettagliate spiegazioni, per cui il più delle volte viene specificato: “echtrós moi” (odioso per me). Altre volte la rivalità è “situazionale”, definita come tale dalle circostanze oppure, per così dire, reciprocamente accettata per convenzione.
I latini hostis/hospes
Anche in latino viene prospettata un’analoga suddivisione di significati, in virtù di una scomposizione semantica che allude ad altrettante categorie mentali.
In caso di dichiarazione di guerra, ci si scontrerà con un nemico identificato tale in base a criteri nazionalistici, ispirati a superiori interessi patriottici, l’hostis; chi si oppone pubblicamente, rendendosi riconoscibile siffatto da terzi è adversarius (nemico soggettivo); il rivale in una contesa legalmente regolata (per esempio, le elezioni) è competitor; un maldisposto antagonista, secondo dei criteri puramente soggettivi, è inimicus (non-amico).
Il latino ripropose nell’ambivalenza semantica dei termini hostis/hospes, nemico/ospite, quella “negazione” della distinzione, propria della lingua greca, tra estraneo e convitato, che si ripresenta ancora nella formulazione dello straniero ospitato e del “padrone di casa” ospitante. E sarebbe avvenuta proprio per l’influsso del termine greco xénos l’assunzione da parte del solo hospes di questo duplice valore di "ospitato" e "ospitante", laddove originariamente, nel latino arcaico, hostis/hospes dovevano probabilmente contrapporsi con il valore di "invitato" e di "anfitrione".
L’ambiguità, che potenzialmente può evolversi verso i poli opposti dell’ostilità e dell’ospitalità, lascia sempre quella certa riserva di equivoca alternanza secondo la quale il beneficiario dell’accoglienza nel proprio territorio, in quanto tuttavia estraneo, è suscettibile di trasformarsi in nemico di guerra o avversario in combattimento, oppure, anche più semplicemente, rivale in una competizione.
Mentre la variante pot- (potis) attribuirebbe il significato di despótes (padrone), che accosta alla concezione di possesso l’accentuazione del senso di identità, appunto quell’«ipseità» (ipsimus o ipsissimus) opposta all'alterità, l'aggiunta del deittico pet trasforma hostis in hospes, attraverso hosti-pet-s (signore dell’ospite, padrone di casa, ospitante), quel particolare hostis, cioè straniero, ma amico, protetto dal vincolo dell'ospitalità reciproca, quegli con cui si scambiano regali, anzi colui il quale puntualmente compensa ogni donum (regalo disinteressato) con un doveroso “contro-favore” di ricambio.
In latino sembra che la contrapposizione hostis/hospes sia stata sfruttata anche come gioco di parole e di assonanza linguistica: Tun hospitem illum nominas hostem tuom (Archidemidem)?
(Plauto Bacch. 253); hostis ut hospes init penetralia Collatini (Ovid. fast. 287); hostis pro hospite (Liv. 1, 58, 8)…
Il ricorso poi al poliptoto avrebbe ulteriormente rafforzato l’idea della reciprocità: neque amico amicus umquam gravis neque hosti hostis fuit (Accio trag. 132); hostis hostem occidere volui Mucius (Livio 2, 9, 37, 6); inspicit acceptas hostis ab hoste notas (Ovidio epist. 4, 6); hostes adversum hostem (Apuleio apol. 86)…
La dignità dell’hostis/hospes era stabilita da leggi formali. «Hostes sono coloro ai quali noi dichiariamo pubblica guerra, o loro a noi; gli altri sono ladri o predoni» specifica Pomponio, tramandatoci nel Digesto (L16, 118), attribuendo a quel latrones aut praedones un’accezione molto simile al moderno appellativo di criminali, “banditen”,“terroristi”, “clandestini” (?).
Nel commentare la formulazione delle XII Tavole – aduersus hostem aeterna auctoritas esto – Sesto Pompeo Festo (Epitome di Paolo) definisce l’hostis come quel nemico cui è riconosciuta pari dignità: «gli antichi li chiamavano hostes perché godevano di diritti pari a quelli del popolo Romano (quod erant pari iure cum populo Romano), e hostire aveva lo stesso significato di aequare».
«Ab antiquis hostes appellabantur» quegli stranieri civilizzati, la cui cultura li aveva già dotati di regole tali da renderli potenziali “contraenti” di un eventuale patto di alleanza.
In Plauto hostire vale quale “contropartita” (Asin . 377: promitto hostire contra , «ti prometto di contraccambiare»). E tale valore, che prosegue, per esempio, in quell’hostimentum («compenso di un beneficio») di Ennio (Enn. Trag . 133 J.), citato da Festo, venne perfino istituzionalizzato nel teonimo della Dea Hostilina (Agostino, De civ. d. IV 8), la quale aveva il compito specifico di “uguagliare le spighe”, o meglio di fare in modo che il lavoro compiuto fosse esattamente compensato dal prodotto del raccolto. Un’esigenza “sindacale” divinizzata sulla scia del vecchio adagio: “se vuoi che l’amicizia si mantenga fa’ che un paniere vada e uno venga!”.
La reciprocazione
Lo statuto di hostis è decretato dunque dalla medesima capacità di esercitare, anche da parte sua, una qualche forma di reciprocità, restituendo l’ospitalità ricevuta. Questa corrispondenza del lessema hostis con la reciprocazione verrebbe confermata dalla piena assonanza con hostire, compensare, da cui hostia, la compensazione sacrificale per l’indignazione degli dèi.
La correlazione di hostia con hostire ne pone in evidenza il valore di scambio nel sistema sacrificale romano. Il sacrificio costituisce una modalità di rapporto tra due posizioni che, nel fronteggiarsi dialetticamente, divengono però in qualche modo consapevoli dell’asimmetria nella quale si ritrovano. Il contraente in stato di bisogno inizierebbe così una trattativa di scambio, e, come avviene tra uomini e déi, analoga chance viene offerta al più debole, nel caso di relazioni contrattuali interpersonali o interetnici, consentendo implicitamente di colmare lo svantaggio con una specie di baratto, come il rapporto di hostia con hostis, nel duplice senso di ospite e nemico, appunto dimostra. L'hostia apre una mediazione tra posizioni antitetiche, con l’augurio che l’avvicendamento venga determinato su di una base di reciprocità. Quando Servio (ad Aen. 1, 334) chiarisce il significato di ‘Hostia dextra’ con la definizione di hostiae collegata a quella dei sacrificia non riesce a occultare completamente la rimembranza di come le primitive vittime dei sacrifici umani fossero proprio i nemici vinti in battaglia: “hostiae dicuntur sacrificia quae ab his fiunt qui in hostem pergunt, victimae vero sacrificia quae post victoriam fiunt. Sed haec licenter confundit auctoritas”.
A proposito di Enea definito hostem superbum, Servio (Aen. 4, 424) commenta: non nulli autem iuxta veteres 'hostem' pro hospite dictum accipiunt. E prosegue Herodotus Persas qui erant Graecorum hostes xènous a Lacedaemoniis appellatos refert, inde nostri 'hostes' pro hospitibus dixerunt: nam inimici perduelles dicebantur.
Nel De Lingua latina (V, 1, 3), Marco Terenzio Varrone chiarisce: «con questa parola (hostis) si indicava prima lo straniero che aveva leggi proprie, ora si indica colui che allora si chiamava perduellis [= nemico di guerra, nemico dichiarato]». Il termine perduellis , formato da un per accrescitivo/intensivo e duellum (duello, battaglia), è chi proprio non desiste dalle ostilità: «Perduelles dicuntur hostes; ut perfecit, sic perduellis [a per] et duellum: id postea bellum» (Varrone, De Lingua latina, VII, 49). Quel per accrescitivo, come nei cosiddetti superlativi del tipo perfacilis intensifica a tal punto il valore di partenza fino a esasperarlo totalmente in negativo, provocando addirittura un ribaltamento di significato, come nel caso del perfidus, che unito a hospes, descrisse Enea nei confronti di Didone quando venne meno ai doveri imposti dal sacro vincolo dell'ospitalità (Virgilio, Aen. 4, 305).
L'antico legame linguistico tra hospes e hostis Virgilio lo raffigura in quella eloquente sequenza terminologica relativa ai rapporti del suo eroe con Didone, cha va da coniugium (4, 172), a hospes (v. 323), per finire ad hostem (v. 424).
Indigeno/allogeno
Tito Maccio Plauto ci spiega scherzosamente quali siano state le aspettative sulle prestazioni interpersonali che caratterizzavano la consuetudine “contrattuale” fra le genti. In una delle sue commedie, la schiava Ampelisca chiede al servo Scerpanio: “Cur tu aquam gravare, amabo, quam hostis hosti commodat?”, mentre questi le risponde “Cur tu operam gravare mihi quam civis civi commodat” (Rudens 434 ss.). Dunque, tra hostes vigeva l'uso di scambiarsi dell’acqua (“dar da bere agli assetati” delle evangeliche opere di misericordia), mentre le “prestazioni erotiche” (“il da farsi”, operam) sarebbero state precipua prerogativa di un rapporto tra cives.
In origine civis denota infatti proprio il “concittadino”, colui il quale condivide diritti politici e habitat, valori questi di una reciprocità compresa nella nozione collettiva di civitas. La condizione d’indigenato presuppone rapporti scambievoli tra i membri, tali da sospingerli verso il concetto di amicitia, in opposizione alle differenti varietà di hostes, appunto, advenae, nel senso di sopraggiunti, intrusi appena arrivati (da advenio), o di peregrini. Difatti un qualunque forestiero, nella lingua latina, sarebbe stato indicato quale semplice peregrinus (colui che si è approssimato all’agro, al [nostro] territorio), mentre un'ostilità interna alla civitas, verrebbe designata da una litote, quale negazione dunque di quel contratto che riposa sullo scambio tra concittadini, “non amicizia” e quindi inimicitia.
È dal rapporto di reciprocità, dal legame di uguaglianza tra questo straniero “rispettabile” e il cittadino (dell’Urbe) che si arriva a una più precisa nozione di ospitalità?
Delle parole vanno compresi pure quegli aspetti fondanti di un sistema di valori; e l'etimologia
ripercorre il tragitto in cui sono stati designati concetti in grado di organizzare il sapere e il vivere dell'uomo. L’esercizio linguistico la dice lunga sulle dinamiche psicologiche che per molti secoli hanno operato nelle menti dei nostri antenati, dove gli “oggetti” del discorso, della comunicazione verbale, rinviano all'immagine ideica elaborata dai parlanti. Straniero/nemico, estraneo/ospite sono delle concezioni globali dell’alterità e della diversità da precisare in maniera molto specifica, poiché suscettibili di interpretazioni differenti a seconda del loro contesto storico e sociale.
Un mutato codice culturale cancella quell'ambivalenza arcaica, perché con l’abolizione delle relazioni dirette tra uomo e uomo, tra gruppo familiare e gruppo familiare, tra clan e clan, ormai la primitiva comunità si è data statuto di nazione e a sovrastare gli interessi dei singoli è ora la distinzione tra ciò che é interno e ciò che é esterno alla civitas. Hostis si stacca da hospes, assume un'accezione di ostilità, e va a sostituire perduellis che viene relegato al ruolo di arcaismo o di termine giuridico.
Con molta probabilità, insomma, dapprincipio hostis non sarebbe neppure stato coniato quale nozione di “ostilità”, bensì sarebbe partito da quel rapporto di “reciprocità” attestato dalla definizione di “colui che ha pari diritto” per approdare di conseguenza alla contrattazione o, contemporaneamente, alla scaramuccia. Allorquando le relazioni di scambio sono divenute relazioni di esclusione tra civitas e civitas, e non più tra gruppi familiari, si sarebbe rafforzato il senso della competitività e, con essa, dell’ostilità.
Più tardi hostis denoterà l'esercito, i soldati e negli scrittori cristiani il diavolo in persona. Satana, in ebraico, letteralmente significa oppositore, avversario, aggressore, cospiratore, “complottista”.
Seguendo lo schema degli avvenimenti che contrapposero alla compagine romana un nemico organizzato militarmente, nel tardo impero, l'esercito avversario e poi l'esercito in genere, si appropriarono della trasformazione semantica subita da hostis, riflettendo in essa l’ormai avvenuto cambiamento, e di cultura e di valori sociali, di fronte a forze “esterne” inglobate come mercenarie (“straniere”) che si possono rivolgere contro, sino alla definitiva distruzione. Hostis divenne quindi sinonimo di milites.
In Agostino, Tertulliano, Cipriano o Gregorio Magno hostis assunse i contorni demoniaci dell’avversario per eccellenza. In gotico, poi, sarebbe divenuto gasts ed in antico slavo gasti.
Negoziazione della negazione
Non avendo legami di parentela con alcuno, lo straniero, privo di focolare domestico, potrebbe non sentirsi vincolato a nessuna legge e dunque comportarsi di conseguenza (Omero, Iliade, IX, 63). Occorre dunque, ad ogni buon conto, l’istituzione di uno spazio neutro di interazione che consenta l’espressione delle intenzioni più “negoziali”, che comprendano sia quelle utili alla comunicazione di ambascerie, anche tra eventuali contendenti, sia quelle orientate a uno scambio commerciale, più o meno proficuo per entrambi i contraenti. Qualora uno straniero dovesse “invadere il territorio” percepito come proprio, verrebbe immediatamente sottoposto a una sbrigativa procedura di “neutralizzazione”, finalizzata a circoscrivere quel potenziale eversivo alimentato dal suo costituire possibile negazione dell’identità prestabilita.
La stessa comprensione dell’estraneo viene affidata a una definizione d’identità da contrapporre per negazione al riconoscimento: identità-identico, non identità-non identico= straniero= altro=non-come…. Sarebbe un’asimmetria “locale” a restringere il campo semantico dell’estraneo, il cui significato si produce in base a un’esclusione (“non”) da riconoscere in relazione a una proprietà già data per specifica (“come…”). Ma l’asimmetria/negazione non sempre può intendersi come locale/specifica. In caso di totale e assoluta impossibilità di comparazione, qualunque evenienza di riconoscimento verrebbe esclusa con la conseguente inconoscibilità, e invisibilità di quello che risulta totalmente alieno.
In quanto tale, l’estraneo, mette in crisi l’originaria totalizzante autonomia d’un’identità, attraverso la palese dimostrazione della sua parzialità. Se “altro” esiste “non tutto” è “come” dovrebbe.
Distanziamento spaziale-distanziamento morale
La presenza dell’estraneo solleva dei dubbi sulla certificazione dell’identità posseduta, la quale, almeno in parte, potrebbe non essere riconosciuta, perché lo scarto asimmetrico è instaurato lungo un’asse di continuità, costituito a partire dall’identità “negata”.
Poiché la negazione è pur sempre “locale”, non necessariamente conduce a una qualche determinazione definitiva, e una differenza potrebbe finire per convertirsi in “distanza”. E la distanza “spaziale” si fa distanza “morale” per tutto ciò che riguarda la differenza dei costumi (mores). E in un passo (Storie, I.134) relativo alle credenze attribuite ai Persiani, Erodoto lo dimostra nel ricondurre tutto a prossemica: «Tra tutti, stimano in primo luogo se stessi e quelli che abitano le regioni loro più vicine; in secondo luogo, quelli che sono a una lontananza media; poi, gradualmente, misurano la stima in proporzione al distacco. All’ultimo grado della loro considerazione tengono quelli che abitano i luoghi più remoti, convinti di rappresentare essi il massimo della perfezione sotto tutti i rapporti fra gli uomini [ritengono anche] che gli altri onorino la virtù secondo la corrispondenza citata e che i più discosti siano certo i peggiori di tutti».
Unheimlich
Se quindi, assoggettato a regole di demarcazione rispetto alla comunità, lo straniero, in quanto tale, può divenire “ospite”, mentre, qualora appaia particolarmente dissonante rispetto ai criteri della cultura di appartenenza/identità, resterebbe sempre “estraneo”, e in quanto tale “nemico”, eventualmente qualificabile non più come oggetto di semplice curiosità, ma persino di disgusto per le sue usanze più incomprese, semplicemente insolite, e comunque “barbare”. Ed è proprio in questa dinamica basata sul contrasto tra prossimità e lontananza, che vanno ad acquisire un rilievo speciale tutte quelle dialettiche incentrate su quanto viene riconosciuto l’elemento essenziale della personale identità.
Il corpo, nel momento in cui manifesta l’identità, costituisce segno di sé stesso. Quanto rimane dell’assoluta intangibilità della condizione di natura è integrità, per cui ogni deturpazione che determini modificazione dell’assetto corporeo viene avvertito quale inequivocabile ed eloquente segnale di totale estraneità. Ebbene, proprio il corpo dei popoli “barbari”, tinto, tatuato o comunque alterato, siano essi Traci (Erodoto. Storie, V.6), Assiri (Luciano, Sulla dea Syria, 59), Illiri (Strabone, Geografia, VII, 5, 4), Mossineci (Senofonte, Anabasi, V.4.32), Agatirsi (Pomponio Mela, Chorographia, II, 10), o Daci (Plinio, Storia Naturale, XXII, 2, 1), si formula quale indice di quella inconciliabile differenza, che, con la contraffazione o il “colore”, arriva ad alludere a turpitudine, degradazione, deformità, perturbamento.
La diversità suscita sentimenti di insicurezza, l’insicurezza ricorda l’inferiorità e genera la paura, perché spiana il varco al territorio dell’ignoto, dell’insolito, del non familiare ("unheimlich").
Nella lingua tedesca, la lingua nella quale è nata e si è sviluppata la dottrina psicoanalitica, v’è la possibilità di attribuire, con dovizia di particolari, speciali gradazioni di significato a diverse declinazioni dell’estraneità, Fremde. Cosicché, se di genere neutro: “das” Fremde, indica qualcosa di indeterminato, di oggettivabile, ovvero di trascendente, come il male, per esempio, l’animale, l’altro sesso; al femminile, “die” Fremde, darà il senso della distanza, come terra lontana; e solo al maschile, “der” Fremde, equivarrà al diverso che viene da fuori, l’alienus, il selvaggio, il mercante, l’ebreo, l’immigrante… Figure queste tutte accomunate però da un certo non so che di perturbante, perché “non familiare”.
«La parola tedesca unheimlich [perturbante] è evidentemente l’antitesi di heimlich [confortevole, tranquillo, da Heim = casa], e quindi familiare, abituale, ed è ovvio dedurre che se qualcosa suscita spavento è proprio perché non è noto e familiare» (S. Freud, Das Unheimliche, 1919).
Freud si avvale di una definizione di Schelling: «È detto unheimlich tutto ciò che dovrebbe restare … segreto, nascosto, e che è invece affiorato» (F.W.J. Schelling, Philosophie der Mythologie, 1846), per individuare l’elemento perturbante nel riconoscimento di qualcosa che non ci è del tutto sconosciuto, ma che ci fa inorridire. «Se la teoria psicoanalitica ha ragione di affermare che ogni affetto connesso con un’emozione… viene trasformato in angoscia qualora abbia luogo una rimozione, ne segue che tra le cose angosciose dev’essercene un gruppo nel quale è possibile scorgere che l’elemento angoscioso è qualcosa di rimosso che ritorna» (S. Freud, Il perturbante, 1919). A suscitare spavento forse non è semplicemente l’estraneità, ma quel “fantasma” di noi stessi che l’altro evoca. Non c’è realmente “niente di nuovo sotto il sole”, perché l’unheimlich è piuttosto qualcosa che appartiene già alla nostra vita psichica, che il processo di rimozione ci ha reso avulso e che l’incontro con l’altro ha fatto riaffiorare poi da profondità abissali e terrifiche. Spaventoso semmai è giungere a riconoscere, e per negazione, un tratto che ci dovrebbe essere familiare.
«Noi siamo […] abbozzi di quella individualità e unicità di noi stessi la quale circonda, quasi disegnata con linee ideali, la nostra realtà percepibile. […] Lo sguardo dell’altro integra però questo materiale frammentario in quel che noi non siamo mai puramente e interamente» (Georg Simmel: “Das problem der Soziologie”, 1894). Perché la nostra identità si fonda su quanto l’Altro ci rimanda di noi.
Aggressione etero- o autodiretta
Nella letteratura classica il più celebre “riconoscimento” è quello che avviene, tra nostalgia del protagonista e speranze del figlio e della moglie, al ritorno del “reduce”/disperso per eccellenza, emigrato/immigrante di ritorno, ormai straniero in casa propria, Odisseo/Ulisse.
L’identità a Ulisse viene restituita a poco a poco, con le tessere di un puzzle che man mano si va assemblando, sommandone i vari tratti specifici un pezzo per volta, fino alla definitiva agnizione. Per la vecchia nutrice Euriclea è sufficiente la vista della cicatrice, per il padre Laerte la giaculatoria ricognitiva del patrimonio, per la moglie Penelope, in odore di vedovanza, vale la vicenda del talamo nuziale, al fido Argo basta sentire la voce del padrone, mentre le aspettative di Telemaco, nel timore di una paventata destituzione da parte dei Proci, sono talmente impellenti da accogliere comunque quello che per lui resta un perfetto sconosciuto.
Se “altri” non dimostrano di accettare le determinazioni sociali del “non estraneo”, l’immagine pubblica rischia di sbiadirsi. Ma quando è il soggetto, confrontandosi con il proprio Sé, a percepirne un’alterità “per difetto”, si giunge alla più drammatica e assoluta forma estrema di negazione dell’identità, quel rifiuto di sé che si esprime nel suicidio, poiché nel definire altro-da-sé, e come estraneo, il proprio Sé, lo si giudica nemico e meritevole di aggressione violenta. Attraverso l’annichilazione di sé si nega il riconoscimento dell’estraneo/altro, oggettivato come angoscia dalla riemersione di istanze rimosse.
Lungo la linea di demarcazione del dis/identico, possono venire riconosciuti diversi gradi di distanza alle categorie dell’alterità, le quali dall’aggressività del rigetto xenofobico si articolano fino all’incondizionata accettazione dell’estrema xenofilia/esotismo, che per certi versi potrebbe rivelarsi quasi un equivalente suicidiario, una resa incondizionata di un tipo di civiltà nei confronti di un’altra invadente.
Dalla classica προξενία al moderno prossenetismo
Nelle antiche Elladi, la “grande” e la madrepatria, vigeva lo statuto di poter ricevere, da parte di persone abitanti in altre città, l’onore di intrattenere con loro delle relazioni privilegiate (προξενία, proxenía). Carica ambita questa prossenía in molte città (sicuramente ad Atene, certo non a Sparta), e per il prestigio, e per i vantaggi economici, ma anche e soprattutto per l’elogio pubblico che si guadagnava con l’attribuzione del titolo di benefattore, l’euergesía. Era cura del próssenos sostenere le intenzioni dell’ospite rendendosene garante. Del resto, per stabilire da amico “di casa” (Oikos, Heim) una qualche relazione con una comunità, era requisito indispensabile l’inserimento in quella rete di legami e di consuetudini che la contraddistinguevano, mediante un tramite. E già all’interno della stessa comunità d’appartenenza, per ogni singolo individuo, la mediazione doveva essere assicurata dal genos mallevadore della famiglia d’origine.
Col tempo, gli abusi perpetrati sembra abbiano profondamente modificato in senso spregiativo tale, per altro encomiabile, mediazione, rendendo il prosseneta alla pari d’un qualsiasi ruffiano sfruttatore.
Dalla lettura dell’Essai sur le don. Forme et raison de l'échange dans les sociétés archaïques di Marcel Mauss (1925), Émile Benveniste ha avvalorato il fondamento dell’ospitalità «sull’idea che un uomo è legato a un altro dall’obbligo di compensare una certa prestazione di cui è stato beneficiario» (Le Vocabulaire des institutions indo-européennes, 1969).
Assumendo come originario. l’aspetto relazionale dell’incontro col prossimo, che sia però quel forestiero al quale si riconoscano pari diritti e dignità, un’evoluzione di questo rapporto che ponga limiti o non li rispetti rimetterebbe in discussione la base stessa dell’ospitalità, quel principio cioè che assicuri reciprocità negli scambi e che non faccia di tutti gli accolti nella dimora di Ulisse dei Proci. La dea Hostilina non avrebbe mai sopportato che il lavoro non venisse remunerato, ma neanche che non venisse svolto!
«Così la storia di hostis riassume il cambiamento che si è prodotto nelle istituzioni romane. Allo stesso modo xénos, così ben caratterizzato come ‘ospite' in Omero, è divenuto più tardi semplicemente lo ‘straniero', il non-nazionale […]. Ma xénos – conclude Benveniste - non è passato al senso di ‘nemico' come hostis in latino».
La Calabria di oggi non eguaglia certo la Grecia di Pericle né la Roma di Virgilio, ma, di fronte ai fatti di Rosarno e di Riace, sembra ancora rimasta a un’epoca ben anteriore alla Megale Ellas. Tucidide ribadirebbe ancora, con la medesima convinzione, la sostanziale differenza tra Atene e Sparta, o non rimanderebbe piuttosto agli esiti tragici dell’«Aristodemo» (1784) di Vincenzo Monti, sintetizzati nel proverbiale: "Se Messenia piange, Sparta non ride"?
Bibliografia essenziale:
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Freud S.: “Opere”, Bollati Boringhieri, Torino 1989
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