Parto da una premessa per analizzare il comportamento delle reti (a)sociali e di un certo tipo di giornalismo, che trovo assai poco utile per la nostra evoluzione.
Quando iniziò questa storia della pandemia la Cina allertò tutti e, anche se non l’avesse fatto, mise al confino cinquanta milioni di persone. Intanto la comunità internazionale, invece di preparare piani pandemici o altro, continuò come se il resto del mondo fosse invulnerabile agli attacchi del virus. Dopo tre mesi da quei primi allarmi, iniziò la tragedia. Le teorie sull’origine del virus erano, se ben ricordo, tre:
- Esercitazione militare di ottobre proprio in quei territori, arma biologica americana (se ne parlò per un paio di mesi)
- Fuoriuscita del virus da un laboratorio di massima sicurezza (si disse che era poco probabile dati i protocolli di sicurezza di quel laboratorio, tra l’altro abbastanza nuovo, e finanziato con soldi americani e francesi, non solo cinesi)
- Mercato di Wuhan (divenne l’ipotesi più accreditata)
Tre ipotesi molto interessanti, ma pur sempre ipotesi.
Oggi si parla della Cina come il colosso che ha nascosto le origini del virus (forse è anche vero), e sembra tenda ad ammettere che l’ipotesi più credibile sia la seconda. Purtroppo si tende anche a dimenticare che le indagini richiedono tempo e passano attraverso muri di gomma per cui, finché non vengono concluse, le tre ipotesi restano tali.
Così facendo, si riduce l’esito di queste indagini a una questione politica, legata agli accordi presi tra USA e Cina.
Certo, l’arrivo di Biden alla Casa Bianca cambia molte cose, ma credo che si trascuri un aspetto della vicenda che, a mio avviso, è assai grave: la Cina avvertì tutti, ma nessuno reagì. Evidentemente questo non ci interessa, l’importante è trovare un colpevole.
Fino a qui i commenti sulle recenti notizie. Ora vediamo come questa storia si sta sviluppando in rete o sulla stampa, dove siamo tutti esperti: c’è chi ricorda che alcuni scienziati dissero che questo virus era uscito da un laboratorio (lo ricordo anch’io, del resto era una delle ipotesi), e quindi si rievocano le loro dichiarazioni. Non solo: alcune testate scandalistiche riportano notizie che non sono notizie si grida allo scandalo, come ad esempio quando uscirono articoli in cui si diceva che in quel laboratorio c’erano pipistrelli vivi (trovate strano che in un laboratorio che studia i virus si lavori con animali vivi?). Insomma, ciò che conta è trovare il colpevole e, come se assistessimo a una serie TV, ciascuno deve dire la sua prima che la serie finisca.
E qui inizia l’analisi.
L’uomo contemporaneo è stato condizionato moltissimo dalla TV: stando seduto ha vissuto emozioni, pensato, approfondito, viaggiato, tifato e… ha assorbito passivamente uno schema spaventoso proposto da quelle serie e quei film dove buoni e cattivi si confrontano, dove si ama e si odia, dove si spara e si insegue, dove si indaga e si mettono bombe. In altre parole, stando comodamente seduto ha subito un bombardamento di violenza e pubblicità senza che ci si possa difendere. Poi, finita la strage, ci si rialza dalla poltrona, si guarda l’ora e si va a letto con quelle immagini in testa che, inevitabilmente, continuano a lavorare nella mente.
Tornando al discorso iniziale: trovato il colpevole, tutto risolto? No, bisogna mugugnare, bisogna dire “noi l’avevamo detto”, bisogna trovare altri colpevoli come, ad esempio, il governo che ci vuole controllare o, ahimè, il vaccino “sperimentale” (virgolettato, perché lo si dice molto in rete e, pur se si dimostra il contrario, ha ragione il virgolettato e il contrario non esiste).
Torniamo al fenomeno: prima la TV, ma lì la sola interazione possibile è l’interruttore, ora il PC o lo smartphone che hanno la grande virtù di consentirti di dire la tua, di trasformarti in “protagonista” della serie o del film, di illuderti che con un banale “mi piace” o con un post, con una foto o con un commento sulle reti (a)sociali, sei parte della serie, partecipi al grande videogioco che è diventata la vita. E lo fai anche se sei in autobus o in una sala d’attesa, con i tempi ristretti che non ti consentono di fare eventuali verifiche. L’importante è dire la tua. Solo che in gioco rientrano molti fattori come il tempo, la vita stessa e le relazioni umane per le quali si delega una rete che, messi in moto i suoi algoritmi, ti mette in contatto con quelli che la pensano come te e ti consente di dare dello scemo, insultare o addirittura “bannare” (atto di violenza estrema e manifestazione di coraggio) quelli che non la pensano come te.
Questo riduce anche la memoria perché si dimenticano le notizie, il percorso storico e l’evoluzione degli eventi che ci hanno portato dove siamo oggi.
È paradossale: la rete contiene tutto, ma proprio tutto, la rete è la memoria dei fatti, ed ha la grandissima virtù di rendere accessibile l’informazione che contiene, ma l’utente della rete dimentica e, pur avendo a disposizione la memoria, non si cura di cercare risposte. La memoria dei fatti è inutilizzata, importa solo il “click” di quel momento di protagonismo, per cui la memoria dell’utente della rete diventa come quella dello scoiattolo che non ricorda dove ha nascosto le ghiande.
Siamo partiti da un’analisi di una notizia per approdare al nostro comportamento sulle reti (a)sociali, ma tutto questo ha un filo logico che si svela nella terza parte dell’articolo.
Sarebbe opportuno considerare la stampa e le reti (a)sociali, se usati male, come una sorta di generatore di confusione che, approfittando dell’ignoranza e della pigrizia che ci impediscono di approfondire titoli, citazioni o notizie, non fa bene alla comunità.
Qui entra in gioco l’individuo (utente della rete, giornalista o altro): prima di prendere per buona una notizia (o una non notizia, come quella sui pipistrelli vivi), dovrebbe cercare informazioni sul tema. È difficile, anzi, utopico, ma è così. Inoltre, dato che il lettore ha la tendenza a isolare una frase da un discorso per poi riportarla spacciandola per verità assoluta, si dovrebbe ricordare sempre che questo comportamento comporta una grande responsabilità perché qualsiasi intervento nella rete può diventare bacillo di disinformazione.
In conclusione, isolare una frase da un discorso più ampio è un errore, ma oggi è anche una patologia, ormai divenuta endemica, che si manifesta nelle reti (a)sociali, e che porta a dire a chi pubblica e condivide quella citazione, “questa è la verità, il resto sono fesserie”. Per questo credo che le reti (a)sociali andrebbero frequentate solo dopo aver fatto un vaccino contro il giudizio affrettato.
Questo vaccino forse è l’educazione, o forse lo studio, ma sembra che sia stato perforato da una variante assai aggressiva, quella che oggi ci fa dire “adesso te lo spiego io perché tu non hai capito una mazza” o anche “noi siamo bravi, loro non capiscono” invece di dire “sentiamo cosa hai da dire e discutiamo”.