“BAZZECOLE, QUISQUILIE, PINZELLACCHERE…”, SCIOCCHEZZUOLE, INEZIE, BAGATTELLE…, COSE DA POCO, COSERELLE O … NUGELLAE CATULLIANE?
Forse, questo libro di Claudio Arcidiaco (“Catullo, quando il poeta si diverte”, Città del Sole edizioni, Reggio Cal. 2023) si sarebbe dovuto intitolare “In memoria del fratello prematuramente scomparso”, se la modesta e naturale riservatezza dell’editore non avesse voluto evitare ogni reminiscenza foscoliana (“In morte del fratello Giovanni”: «Un dì, s'io non andrò sempre fuggendo/ Di gente in gente, mi vedrai seduto/ Su la tua pietra, o fratel mio, gemendo/ Il fior de' tuoi gentili anni caduto…»).
Carme Centouno
Per intenderci, quella che peraltro esplicitamente s’era conformata al modello letterario latino del Carme Centouno di Catullo, - con la fatica del viaggio sottolineata dall'anafora e dal poliptoto (Multas... multa), collegati all'anastrofe (per gentes... per aequora), e l'inutilità d’una sterile cerimonia funebre evidenziata dall'iperbato e dall'ipallage (has miseras... ad inferias) nel secondo verso.
La catabasi di Enea
A «Multas per gentes et multa per aequora vectus/ advenio has miseras, frater, ad inferias» (Per molte genti e molte acque condotto/ son giunto a queste tristi tue, fratello, spoglie mortali) lo stesso Virgilio rende omaggio nell’episodio in cui Enea, nel corso della sua catabasi, incontra il padre Anchise, che gli rivela d’averlo da tempo aspettato e gli illustra la teoria della metempsicosi (Eneide, libro VI): «quas ego te terras et quanta per aequora uectum/ accipio. quantis iactatum, nate, periclis» (per quali terre e per quante distese di mare te trasportato io/ t’accolgo; da quanti pericoli, o figlio, sbattuto).
Il rito della rimembranza
Il rito della rimembranza (“ut te postremo donarem munere mortis”, per portarti l'ultimo dono, un'offerta di morte) non può essere realizzato se non “poeticamente”, perché le ceneri mute (“mutam… cinerem” della sinestesia del quarto verso: “…et mutam nequiquam alloquerer cinerem”), al fine di superare ogni relativa distanza, anche la più centrifuga, non sanno neanche porsi in passivo ascolto (“e parlare, inutilmente…”).
Carme XI
Quel “fior de’ tuoi gentili anni caduto”, rimanda al carme XI (21-24): «nec meum respectet, ut ante, amorem,/ qui illius culpa cecidit velut prati/ ultimi flos, praetereunte postquam/ tactus aratro est» (e non si volti a guardare il mio amore, come prima,/ che per colpa di lei è caduto/ come il fiore dell’estremo limite del prato/ dopo che è appena stato reciso dal passaggio dell’aratro).
Ripreso ancora da Virgilio per l’Euryalus (Eneide: IX, 434-7): «… inque umeros cervix conlapsa recumbit:/ purpureus veluti cum flos succisus aratro/ languescit moriens lassove papavera collo/ demisere caput pluvia cum forte gravantur... » (… la testa rovesciata sulle spalle s'abbandona:/ come quando un purpureo fiore reciso dall'aratro/ langue morente, o sul collo stanco i papaveri/ abbassano il capo non appena gravati dalla pioggia.).
E poi da Dante nell’Inferno: «Quali fioretti dal notturno gelo/ chinati e chiusi, poi che ‘l sol li ‘mbianca/ si drizzan tutti aperti in loro stelo…» (II: 127-9). E dal Manzoni nell’episodio della madre di Cecilia (XXXIV de I promessi sposi), ispirato al De miserandis casibus (VIII: De pestilentia) del cardinal Federigo Borromeo: «... come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccia, al passar della falce che pareggia tutte l'erbe del prato…».
Il papavero del ricordo
L'uso dei papaveri come metafora del ricordo sarà molto più tardo, provenendo dalle suggestioni d’una poesia, in forma di rondeau, scritta nel 1915 da John McCrae, durante la visita alla tomba d’un commilitone sulla quale li aveva visti spuntare: «In Flanders Fields, the poppies blow/ Between the crosses, row on row,/ That mark our place; and in the sky/ The larks, still bravely singing, fly/ Scarce heard amid the guns below.» (Nei Campi di Fiandra fioriscono i papaveri/ Tra le croci, riga dopo riga,/ che segnano il nostro posto; e nel cielo/ Le allodole, ancora coraggiosamente cantando, volano/ Appena udite tra i cannoni sottostanti).
Questo riferimento ai petali rossi che decoravano le tombe dei soldati ha condotto “il papavero del ricordo” ad assurgere a uno dei simboli commemorativi dei caduti del primo conflitto mondiale più riconosciuti nel mondo anglosassone.
Una sproporzione poetica
Il poeta canadese propone una transizione tra la lotta per la vita e la pace che ne deve seguire. Indimenticabile la commozione indotta dal Manzoni, quasi una promessa di redenzione il messaggio dantesco, il coraggio annientato dalla violenza ciò che piange Virgilio, eppure la tenera descrizione del fiore, nell’undecimo carme di Catullo, arriva troppo improvvisa e in sproporzionato contrasto con la cruda invettiva verso l’infedeltà dell’amante: «… riferite alla mia donna poche/ parole non buone:/ “Viva e stia bene con i suoi amanti/ che tutti insieme tiene abbracciandoli in numero di 300,/ nessuno amando davvero,/ sfiancando ininterrottamente le reni di tutti…» (“pàuca nùntiàte meaè puèllae/ nòn bona dìcta:/ cùm suìs vivàt valeàtque moèchis,/ quòs simùl complèxa tenèt trecèntos,/ nùllum amàns verè, sed idèntidem òmnium/ ìlia rùmpens;”).
Carme LVIIIb
Lo stesso squilibrio, riscontrabile con ancor maggiore evidenza nel carme 58b, tra la prima parte altisonante, dai coltissimi riferimenti mitologici, e la conclusione che produce un finale inatteso (aprosdòketon, ἀπροσδόκητον)?
Un arzigogolato apparato che tutta quest’elevazione intellettuale impegna, dunque, nell’affannosa ricerca d’un amico imboscato chissà dove, e tutto già sperimentato nel carme 55, dove però i luoghi frequentati risultano tra i più prosaici ritrovi di prostituzione.
«Non custos si fingar ille Cretum…» (Non il guardiano famoso se mi fingessi di Creta…) è Talos, il gigante forgiato da Efesto, donato a Minosse e posto a guardia dell’isola; «non Ladas ego pinnipesve Perseus…» (non Lada io o il pinnipede Perseo): Lada vinse nelle gare olimpiche di velocità, e Perseo porta sandali alati… «non Rhesi niveae citaeque bigae…» (non le nivee e veloci bighe di Reso): il re della tracia, Reso, guidava rapidi destrieri; «adde huc plumipedas volatilesque…» (aggiungici piume ai piedi e volanti): dove plumipedas è apax legomenon, mentre un finale “Tamen” sancisce l’aspettativa delusa nel logorio dell’improficuo tallonamento.
In morte di Gorgitione
Anche il rappresentante della scuola dei “poetae novi” (neòteroi) s’era lasciato, però, influenzare dai classici; in questo caso dalla similitudine proposta da Omero (Iliade: VIII, 306-308) nel descrivere la morte d’un personaggio minore (uno dei 54 figli di Priamo, Gorgitione), colpito per sbaglio da Teucro che invece mirava al petto di Ettore: «μήκων δ᾽ ὡς ἑτέρωσε κάρη βάλεν, ἥ τ᾽ ἐνὶ κήπῳ/ καρπῷ βριθομένη νοτίῃσί τε εἰαρινῇσιν,/ ὣς ἑτέρωσ᾽ ἤμυσε κάρη πήληκι βαρυνθέν. » (chinava il capo da un lato come un papavero che in un giardino/ è carico dei suoi stami e delle piogge primaverili;/ così s’inchinò da un lato la testa, appesantita dall’elmo).
Al seguito del pretore della Bitinia
Il centounesimo carme del Liber catulliano appartiene agli Epigrammata, la terza delle parti in cui viene suddivisa l’intera raccolta. Si tratta d’un’evidente “elegia” funebre, in cui si descrive la visita, avvenuta nel 57 a. C., al seguito dell’amico Gaio Memmio, propretore della Bitinia, alla tomba del fratello, morto improvvisamente qualche anno prima nella Troade, durante un viaggio d’affari in Asia Minore.
Mos maiorum
La repentina necessità di dargli frettolosa sepoltura non aveva consentito un’idonea elaborazione del lutto di famiglia e, soprattutto, non “more parentum”, cioè secondo i tradizionali costumi del mos maiorum. Per cui, è da supporre che i versi stessi siano stati, per un poeta, parte integrante di quell’eccezionale cerimonia funebre: dopo il dono dell'offerta (“ut te postremo donarem munere mortis”), Catullo cerca infatti d’intrattenere un ultimo dialogo con il caro estinto, invitandolo ad accettare le sue esequie (“tradita sunt tristi munere ad inferias,/ accipe fraterno multum manantia fletu”, furono consegnate con un triste messaggio agli inferi,/ accettale, così grondanti di pianto fraterno).
Ave atque vale
Il rituale si chiude con una formula di commiato abbastanza tipica delle iscrizioni funerarie: “atque in perpetuum, frater, ave atque vale” (e per sempre, fratello, salve e addio), anche se non con le caratteristiche del classico epitaffio che obbligatoriamente richiede: nome del defunto, età, sintetica biografia , notizie sulla sua famiglia e circostanze della morte.
Otium e lusus
La gens cui apparteneva Catullo era ricca e potente, con interessi economici che andavano oltre Roma e la penisola Italica ed è probabile che il fratello abbia perso la vita all’estero proprio per curare i cosmopolitici affari di famiglia.
Ciononostante, il poeta non partecipò mai attivamente alla vita politica, che disprezzava perché dominata dalla corruzione e dall’interesse di parte. Preferì fare del suo otium poetico un leggero, e leggiadro, lusus in seno a una ristretta cerchia d'amici letterati, quali Cornelio Nepote, Licinio Calvo ed Elvio Cinna; una sorta, quindi, di circolo privato e solidale per stile di vita e tendenze letterarie, assolutamente dissimili dagli ideali sociali del tempo. Tuttavia, seguì gioco forza, per esempio, i tumulti fomentati dal “leader” dei populares, quel Clodio, fratello della sua celebre amante Lesbia e acerrimo nemico di Marco Tullio Cicerone.
Carme LII
Nel Carme 52 il disprezzo per la politica si fa totale, ed esistenziale, di fronte all’affermazione degli immeritevoli e dei mediocri: «Quid est, Catulle? quid moraris emori?/ sella in curuli struma Nonius sedet,/ per consulatum peierat Vatinius:/ quid est, Catulle? quid moraris emori?» (Che c'è, Catullo? Che aspetti a morire?/ Sulla sedia curule lo scrofoloso Nonio siede,/ per il consolato spergiura Vatinio…). E Publius Vatinius fu nominato nel 47 a. C. console da Cesare, di cui era stato alleato da tribuno della plebe fin dal 59, seppure in precedenza accusato di ruberie e malversazioni pure da Gaius Licinius Calvus. Spesso, il grande veronese ostenta pure disinteresse per le figure di spicco che lo circondano e che sono destinate a fare la storia di Roma: «nihil nimium studeo, Caesar, tibi velle placere» (Non mi sto sforzando affatto, Cesare, di piacerti - Carme 93).
Otium molestum?
«Otium, Catulle, tibi molestum est:/ otio exsultas nimiumque gestis» (L'ozio, Catullo, non ti giova;/ nell'ozio esulti e troppo eccedi), dichiara antifrasticamente nel carme 51. I suoi componimenti, il poeta veronese li recitava in occasioni prevalentemente conviviali, di fronte al pubblico, molto ristretto, dei suoi amici, che era al corrente di quanto in quei versi era contenuto, e di cui poteva ben cogliere allusioni, citazioni e riferimenti culturali, allo stesso modo di quelli prosaici o umoristici.
Carme XLIX
Il Carme 49, in endecasillabi faleci, è uno dei più celebri e discussi d’una raccolta che segue un ordine legato più alla metrica dei singoli elaborati, piuttosto che alla tematica, e ancor meno alla cronologia degli stessi.
Per un motivo volutamente taciuto, ignoto o forse inesistente, a Cicerone, Catullo rivolge un “insolito” e ingiustificato ringraziamento, che maschera un sottile insulto; anzi, un’interpretazione oculata considererebbe l’omaggio sperticato all'oratore arpinate, non solo insincero, ma falsamente finto, mellifluo, dunque una rude invettiva nascosta dietro un sarcastico elogio dai toni stranamente magniloquenti e pomposi. Cicerone non era, infatti, un estimatore dei “poetae novi”, per i quali coniò appunto tale epiteto, e proprio con significato dispregiativo. E da difensore di Celio Rufo attaccò duramente l’ex amante di Catullo, Clodia, a cui già aveva pubblicamente rimproverato i poco morigerati costumi in una precedente causa contro il di lei fratello Clodio.
«Disertissime Romuli nepotum,/ quot sunt quotque fuere, Marce Tulli,/ quotque post aliis erunt in annis,/ gratias tibi maximas Catullus/ agit pessimus omnium poeta,/ tanto pessimus omnium poeta,/ quanto tu optimus omnium patronus.» (O più loquace dei nipoti di Romolo,/ quanti sono e furono, Marco Tullio,/ quanti saranno negli anni a venire,/ ringraziamenti a te grandissimi Catullo/ rende da peggiore tra tutti poeta,/ tanto peggiore di tutti poeta/ quanto tu migliore di tutti avvocato).
Disertissime Romuli nepotum
La perifrasi 'Romuli nepotum' richiama il dato biografico che rende inferiore l’arpinate Cicerone rispetto agli altri cittadini romani, veraci “figli di Romolo”. Quell’iniziale esagerazione di “disertus” vira al facondo, e non a “eloquens”, un oratore che non poteva vantare neppure origine patrizia, ma andava etichettato homo novus, cioè il membro d’una famiglia, che mai aveva dato magistrati allo Stato, avviato per primo al cursus honorum, come talora gli avevano ricordato gli avversari politici, a cominciare da Catilina, ch’ebbe a definirlo un "inquilino dell’Urbe".
Optimus omnium patronus
Il componimento si chiude con l’ambiguo epiteto "optimus omnium patronus", dal significato, tra l’ironico e il parodistico, di "migliore difensore di tutti", nel senso che, pur di guadagnare, l’avvocato sarebbe disposto a difendere chiunque, anche i più efferati criminali o politici corrotti, e non già di quello positivo di "migliore tra tutti i difensori", come magari avrebbero preferito Karl Pleitner (Studien zu Catullus, 1876) o Robinson Ellis (A commentary on Catullus, 1889).
“Marce Tulli… maximas… optimus”
L’analisi strutturale della Paola Radici Colace (Linguaggio e comicità, 1990) ha evidenziato gli elementi cardini d’un’epigrammatica votiva, in cui il soggetto (Marce Tulli… maximas… optimus…) viene quasi paragonato al “maggiore” e “migliore” di tutti gli dei, quel “Iupiter Optimus Maximus Capitolinus” della riforma etrusca, allorquando, mentre ne innalzavano il tempio (aedes), fu trovata nelle fondamenta una testa umana (caput, da cui Capitolinus e Campidoglio), e nessuno sembra abbia da allora dubitato che per questo incredibile prodigio l’Urbe sarebbe divenuta la “capitale” d’un impero.
Carme IV
Maija Väisänen (La musa poliedrica, 1984), partendo dagli ultimi tre versi del carme 4, dedicati ai dioscuri protettori dei naviganti, ma anche premurosi a soccorrere gli uomini affetti da impotenza sessuale, suggerisce un significato erotico per il phaselus: da navicella pure ex voto fallico: “… sed haec prius fuere: nunc recondita/ senet quiete seque dedicat tibi,/ gemelle Castor et gemelle Castoris.” (Ma questo fu prima: ora invecchia/ in una pace solitaria, e si dedica a te,/ gemello Castore, e al gemello di Castore).
Un ex-voto
Il soggetto del Carme 4 pare, a prima vista, un battello dalle caratteristiche alquanto ambigue, nel senso di reale imbarcazione o non piuttosto di ridotta riproduzione da dedicare ai dioscuri, visto che il legno di bosso (“Cytore buxifer”, bossi del monte Citoro) era risaputo di impiego nel modellismo navale. E il fatto che un ex-voto parli (“ait”) lo paragona ampollosamente alla nave Argo, la prima della storia a solcare i mari con a bordo i più grandi eroi del mondo conosciuto.
Gli Aitia di Callimaco
Nella stesura di questo carme, probabilmente, Catullo avrebbe tenuto presente l’itinerario che, negli Aitia (Αἴτια, questioni, origini, cause), Callimaco fa percorrere ai suoi Argonauti, in netta contrapposizione al tragitto descritto invece da Apollonio rodio. “E questo non può non confermarlo la spiaggia del minaccioso Adriatico,/ e le isole Cicladi e la splendida Rodi, la terribile Tracia,/ la Propontide e il nero golfo pontico,/ dove prima che battello fu/ foresta frondosa; infatti sul monte Citoro/ fischiava spesso la voce delle foglie…” (… et hoc negat minacis Hadriatici/ negare litus insulasve Cycladas/ Rhodumque nobilem horridamque Thraciam/ Propontida trucemve Ponticum sinum,/ ubi iste post phaselus antea fuit/ comata silva; nam Cytorio in iugo/ loquente saepe sibilum edidit coma…).
Tappa a Rodi?
La tappa a Rodi, assente nelle altre scaturigini leggendarie, diventa così un esplicito omaggio proprio ad Apollonio, che a Rodi aveva trascorso parte della sua vita, mentre iI riferimento all'Adriatico sarebbe stato motivato dall’intenzione d’un altro tributo, magari non mitografico (e forse alle guerre illiriche per debellare anch’esse la pirateria), come quelli a Tracia, Ponto e Cicladi, zone occupate da Mitridate VI, sconfitto da Licinio Lucullo, al quale Cicerone dedicò una lode.
L’importanza delle citazioni, in una poetica che non escludeva la contaminazione (polyèideia, πολυείδεια, in latino contaminatio), in base a un preciso ordine di idee di carattere letterario, si faceva lusus (gioco) tipico dell’esibizione di quella “doctrina” che in generale caratterizzava i “poetae novi”.
“Phaselus ille, quem videtis, hospites,/ ait fuisse navium celerrimus,/ neque ullius natantis impetum trabis/ nequisse praeterire, sive palmulis/ opus foret volare sive linteo…” (Quella navicella che vedete, miei ospiti,/ dice d’essere stata la più veloce delle navi,/ e che lo slancio di nessuna barca l’abbia/ mai battuta, sia che volasse/ sui remi o con la vela….).
Tutta una finzione
La ripresa dei “topoi” (τὸποι) della poesia del passato include quell'uso del termine “volare” riferito a un’imbarcazione che solca a vela le onde, e proviene da una lunga tradizione che risale addirittura a Ennio. Se allora Catullo ricorre a un linguaggio epico per riproporre i viaggi argonautici, dunque sommamente avventurosi ed eroici, e lo fa per una nave finta, l'effetto voluto è di generare una sproporzione tra materia e stile che fornisca un risultato comico. E la presa in giro degli stilemi epici, realizzata attraverso il loro utilizzo per dei contenuti di livello inferiore, corrisponde a quanto intendiamo oggi per una sottile parodia.
L’arguzia si mantiene nel distacco dell’uso ripetuto della formula “dice” (“ait”) con cui si mettono in dubbio le vanterie d’un falso battello, ed ex-voto vero, che millanta d’essere un oggetto reale, a sua volta, disposto a falsificare pure il proprio racconto. Le parole d’un bugiardo a garanzia di veridicità sottolineano ulteriormente l’aspetto ironico delle affermazioni riportate.
La pratica del “vertere”
A riprova del fatto incontestabile che i suoi sono versi particolarmente elaborati, Catullo ebbe a definire “expolitum” (levigato: “… arida modo pumice expolitum…” – I, 2) il loro insieme, per via di quella ricercatezza formale, del Liber quel labor limæ, grazie al quale, con estrema cura, ha raggiunto straordinaria raffinatezza.
Il ricorso alla pratica del “vertere” mostra l’intenzione d’evocare sentimenti ed emozioni d’una certa profondità, nel rielaborare quei pezzi di particolare intensità emozionale o rilevanza lirica e tematica, come in particolare nel carmen 51 (“Ille mi par esse deo videtur”), con cui emula la Saffo del fr. 31 Voigt (Ode del sublime o della gelosia: «Φαίνεταί μοι κῆνος ἴσος θέοισιν… », Pari agli dèi m’appare quello…), o anche i carmina 61 (Per le nozze di Lucio Manlio Torquato e Vinia Aurunculeia) e 62 (Vesper adest), ispirati agli epitalami della musa di Lesbo.
Carmen LXVI
Preceduto da una dedica a Ortensio Ortalo, il carme 66, è un mero esercizio di traduzione dal greco della “Chioma di Berenice” (Βερενίκης πλόκαμος, Bereníkes plókamos) di Callimaco, eseguita per dimostrare in che modo si possa aderire all’elaborazione linguistica d’uno stile elegante sia nel trattare tematiche mitologiche che geografiche, rispettando al contempo quella preziosa brevitas del componimento ideale.
Catasterismo
Questo 66mo rientra nei “carmina docta”, e, sotto diversi punti di vista, potrebbe essere un testo problematico, in quanto interamente dedicato al processo metamorfico, proprio della tradizione ellenistica, per cui, collocandosi appropriatamente sulla volta celeste, un’entità subisce una trasformazione in stella, o “catasterismo” (da κατά, "in prossimità", e ἀστήρ, astro): Andromeda, Dioscuri (Gemelli), Ganimede (Aquila e Aquario), e così via. A Roma, nel I sec. a. C., una tale fenomenologia rappresentava ancora una qualche novità e come tale transitava al suolo latino proprio grazie all’intervento di Catullo che costruisce questo carme su quel fortunato sostrato letterario sul quale Ovidio avrebbe impostato le celebri sue “Metamorfosi” (Giove ed Europa, Diana e Atteone, Naiadi/ Echinadi, ecc.).
“Carmina docta” o Epitalami?
Un certo criterio d’uniformità inscrive questo Carme 66 nella sezione dei carmina docta, e tale criterio può ravvisarsi, oltre che per la predilezione di argomenti mitologici, nel fatto che tutti e otto siano incentrati su d’una medesima tematica, quella nuziale.
Il carme 61 è un epitalamio, in onore di due amici di Catullo, Manlio Torquato e Vinia Aurunculeia, che stanno coronando il loro sogno d’amore. Pur non dedicato a personaggi ben precisi, il 62 è pure un carme nuziale in esametri. Il 63 è invece dedicato ad Attis. L’argomento sponsale ritorna nel 64 con l’epillio che celebra le nozze di Beleo e Teti, in cui però si mette a confronto la fides su cui dovrebbe imperniarsi il contratto matrimoniale e il monito suggerito dal mito d’Arianna, tradita da Teseo e da questi abbandonata sulle coste di Naxos; mito che insegna come la fiducia possa andare irrimediabilmente perduta. Il 65 è un carme breve, d’accompagnamento al successivo. Il 66 ha pur sempre una qualche attinenza al matrimonio felice. Mentre di questa tradizione il 67 rappresenta una caricatura. Alla vicenda di Protesilao e Laodamia è dedicato l’ultimo, il 68 di questa sezione.
… Et Epigrammata
I “carmina docta”, conteggiati dal 61mo al 68mo, sono i più lunghi e quelli che presentano la più forte attenzione formale e stilistica rispetto agli altri; per lo più, in esametri e in distici elegiaci. Segno di forte sperimentazione metrica il primo di essi, il 61, in strofe di gliconei e feregratei; in esametri il 62; in verso galiambo il 63; un epillio in esametri il 64; 65, 66, 67 e 68 in distici elegiaci. Per gli epigrammi, che vanno dal 69mo al 116mo, il metro è il distico elegiaco (anche se in Marziale si ritrovano epigrammi in falecei).
Cornelio Nepote
Dato che proprio a lui si rivolge nel primo Carme «Cui dono lepidum novum libellum/ arida modo pumice expolitum?/ Corneli, tibi» (A chi dono il mio grazioso libretto,/ appena levigato con la ruvida pomice?/ A te, Cornelio - I, 1-3), molto probabilmente, Catullo, aveva previsto almeno una piccola sezione del Liber da dedicare a Cornelio Nepote, in quanto autore d’una sorta di compendio di storia universale, dall'età mitica fino a quella contemporanea, sulla falsariga dell'omonimo lavoro del greco Apollodoro (I, 5-7: «ausus es unus […] / omne aevum tribus explicare chartis / doctis […] et laboriosis», Tu solo osasti spiegare tutta la storia in tre libri pieni di cultura e duro lavoro).
Nugae
Assieme ai successivi 59, anche questo dedicato a Cornelio lo si fa rientrare nelle cosiddette “nugae” (sciocchezzuole): brevi componimenti polimetrici, in cui prevale il faleceo, come pure trimetri giambici nella forma coliambica, che trattano leggere e leggiadre fantasie. La matrice callimachea del gusto per la poesia breve, erudita e stilisticamente tesa alla perfezione, si amplia poi nell'alessandrinismo dell'epigramma, dell'elegia erotico-mitologica, di generi quali l'epillio, ricalcati su Arato, Asclepiade, Teocrito e Fileta di Cos, tanto apprezzati dai latini.
Arcaismi e diminutivi
Se, tra i componimenti brevi, nugae ed epigrammi, non vi sono rilevanti differenze di lingua e di stile, i “carmina docta” appaiono appunto più elaborati e ricchi di riferimenti allusivi, grecismi e arcaismi (per esempio ai vv. 42 e 75 del carme LXI). Anche se non mancano elementi provenienti dal linguaggio colloquiale, come i diminutivi (LXV, v. 6; LXI, v. 193; LXVI, v. 16), in essi risultano particolarmente preponderanti gli influssi dei poeti ellenistici, dell'epica e della tragedia arcaica, nonché della poetica di Ennio, considerato il padre della letteratura italica, in quanto il primo poeta a impiegare la lingua latina in competizione con la greca, almeno in letteratura.
Sermo familiaris
Per creare una lingua letteraria che comprenda tanto forme colte quanto locuzioni "volgari", più proprie del “sermo familiaris” (III, vv. 14-15; V, vv. 7, 13), il poeta veronese fonde assieme diversi registri glottologici, per cui anche il lessico ne risulta talmente ampliato da mescolare insieme formulazioni idiomatiche e proverbiali (III, v. 5; XIV, v. 1), od onomatopeiche (III, v. 10; LXI, v. 13; LI, v.11), interiezioni (I, v. 7; VIII, v.15; CI, v.6), grecismi ( XI, v. 17; I, v.6), vezzeggiativi (IV, vv. 4, 17; I, v. 1) ed espressioni oscene ( XXXVI, vv. 1, 20; LVIII, v. 5).
I carmi sconci
Sono una trentina i carmina caratterizzati da aspri contenuti di dubbia morigeratezza, dal turpiloquio o da linguaggio scurrile; tutti rientrano nella sezione delle nugae, occupandone l’esatta metà, in un’alternanza con poesie d’amore ed elogi al nobile sentimento dell’amicizia.
Carme LXXX
Il bersaglio del carme 80 è, per esempio, un amico dalle tendenze omosessuali (“grandia te medii tenta vorare viri? - di quell’enorme arnese virile provetto divoratore?), le cui “labbrucce” rosse, come quelle delle donne, vengono contrassegnate dal “latte” che ha succhiato (“emulso… notata sero”).
Carme XVI
Nel carme tradizionalmente intitolato “Ad Aurelio e Furio”, il 16, due “rivali” che l’hanno rimproverato d’eccessiva mollezza per aver espresso il desiderio di volersi abbandonare ai famosi “mille baci e poi altri cento” (milia multa basiorum) del Carme 5 (Vivamus… atque amemus), vengono accusati d’essere lettori di tali versi “languiducci” (versiculis meis… molliculi), dal momento che sono poi pronti a vituperarlo (“Vos quod milia multa basiorum/ Legistis, male me marem putatis?- Voi, per il solo fatto che avete letto/ Di molte migliaia di baci, mi avete reputato poco maschio?) per averle scritte: «Pedicabo ego vos et irrumabo,/ Aureli pathice et cinaede Furi… che pei miei versetti pensate,/ sol perché son teneri, ch’io sia poco pudico./ Giacché è appropriato per un poeta onesto esser casto/ con se stesso, ma nulla è dovuto dai suoi versetti;/ i quali hanno ora e per sempre arguzia e grazia,/ quando son tenerelli e un poco spudorati,/ e riescono a risvegliar un certo prurito,/ non dico nei fanciulli, ma in quei pelosi/ troppo induriti per essere ormai capaci d’inarcar la schiena... » (… Qui me ex versiculis meis putastis,/ Quod sunt molliculi, parum pudicum./ Nam castum esse decet pium poetam/ Ipsum, uersiculos nihil necesse est,/ Qui tum denique habent salem ac leporem,/ Si sunt molliculi ac parum pudici/ Et quod pruriat incitare possunt,/ Non dico pueris, sed his pilosis,/ Qui duros nequeunt mouere lumbos…).
Carme XXXIX
L’aggressività verbale la rivolge “Ad Ignazio”, nel Carme 39, dove sagace ironia ne rimarca l’abbondanza del riso inopportuno (“Quidquid est, ubicumque est,/ quodcumque agit, renidet: hunc habet morbum,/ neque elegantem, ut arbitror, neque urbanum…”, Per qualunque cosa, ovunque si trovi/ In qualunque momento che sia grave, ride: ha questo difetto,/ inelegante, giudico io, e neanche cortese…); e ciò al semplice scopo di mettere in mostra il candore della dentatura (“Egnatius, quod candidos habet dentes,/ renidet usque quaque” - Ignazio, perché ha i denti bianchi/ Ride fino in fondo), resa tale dai particolari lavaggi con “quod quisque minxit” (l’acido urico che uno rilascia): “ut quo iste vester expolitior dens est,/ hoc te amplius bibisse praedicet loti.” (così più questa vostra dentatura è pulita/ tanto più si palesa quanto te ne sei bevuto).
Carme XXXVII
In una taverna di basso bordo si danno ritrovo alcuni spavaldi bellimbusti a vantarsi delle loro doti sessuali e proprio in essa s’aggira Lesbia con l’intenzione di concedersi con l’estrema facilità che le è consueta. L’Ignazio celtibero, che si sfrega i denti sciacquandoseli con il piscio (“…dens Hibera defricatus urina.”) ricompare nel carme 37, che è un’invettiva contro i frequentatori dell’immonda bettola (“Salax taberna vosque contubernales…”), dove “puella nam mi, quae meo sinu fugit,/ …consedit istic.” (la donna fuggita dalle “sue” braccia/ è lì seduta): “namque totius vobis/ frontem tabernae sopionibus scribam.” (sul muro fuori della taverna/ scriverò che siete tutti delle “teste di minchia”).
Carme XLII
Al centro del carme 42, di nuovo Lesbia, a cui Catullo richiede la restituzione dei versetti a lei dedicati, mediante lo sfoggio dei più raffinati pregi lirici, però allo scopo dichiarato d’offenderla. “Adeste, hendecasyllabi, quot estis/ omnes undique, quotquot estis omnes./ Iocum me putat esse moecha turpis/ et negat mihi nostra reddituram/ pugillaria, si pati potestis.” (Accorrete, endecasillabi, quanti voi siete/ da ogni luogo tutti, ovunque voi siate, tutti quanti./ Una disgustosa puttana pensa ch’io sia il suo zimbello/ e si rifiuta di ridarmi ciò che ho scritto/ di mio pugno, se poteste tollerarlo.). Ma per raggiungere lo scopo poi pensa di dover cambiare strategia: “Mutanda est ratio modusque nobis,/ si quid proficere amplius potestis:/ 'Pudica et proba, redde codicillos'. (È ragionevole per noi cambiar metodo,/ se vogliamo sperare in qualcosa di più:/ O casta e pura, ridammi le “tavolette incerate degli appunti”).
Carme LVIII
Nel carme 58, a uno degli amanti di Clodia, Marco Celio Rufo, citato pure nell’epigramma 69, confida rassegnato d’aver scoperto come suole divertirsi la sua Lesbia girovagando per i vicoli, con l’intenzione di “glorificare”, allietandola, “la meglio” gioventù latina: “Glubit Magnanimos Remi Nepotes”.
Carme XXXII
La storia tra Catullo e Clodia non era affatto idilliaca, bensì travagliata dal tradimento e, in questo carme 32, infatti, anche Catullo, per pareggiare i conti, mostra interesse per qualcun altro. “Amabo, mea dulcis Ipsitilla,/ meae deliciae, mei lepores,/ iube ad te veniam meridiatum…” (T’amerò, mia dolce Ipsitilla,/ mia delizia, mia incantatrice,/ dimmi di venir da te a fare un riposino pomeridiano…); “… ne quis liminis obseret tabellam…” (del tuo nido non sprangare la porticina…), “…paresque nobis/ novem continuas fututiones.” (e prepara per noi/ nove serie consecutive): “nam pransus iaceo et satur supinus/ pertundo tunicamque palliumque.” (giacché dopo pranzo giaccio sdraiato e satollo/ a pancia all’aria sfondo tunica e mantello).
Carme XXX
Con “Alfene immemor atque unanimis false sodalibus,/ iam te nil miseret, dure, tui dulcis amiculi?” (Alfeno, irriconoscente e sleale agli amici,/ a questo punto nemmeno per l’amico a te più caro avrai compassione?) il tema dell’amico/ “amante abbandonato” si propone autoparodia ispirata alla vicenda mitica di Arianna trattata nei Carmina docta (il 64 precisamente) e qui, con altra sensibilità, reimpiegata in un pathos ridicolo, tale da rendere difficile pensare seriamente a una condizione di disperazione determinata dall’incomprensione/ slealtà d’un “semplice” amico. L’enfasi del “tu” all’undecimo verso viene esasperata dal contrasto (“Si… at”) tra apodosi e protasi della condizionale: “Si tu oblitus es, at di meminerunt, meminit Fides…” (Se tu hai scordato, non scordano gli dei; ricorda Fedeltà). Il metro, a un tempo, difficile e ricercato dell’asclepiadeo maggiore avvalora questa raffinata operazione autoironica in relazione al carme colto 64.
Carme XXXVI
Dietmar Korzeniewski (Elemente hymnischer Parodie inder Lyrik Catulls, 1978-9) inserisce nell’elenco della “parodia innografica”, oltre al carme 17, 31, e 44, anche il carme 36: “Annales Volusi, cacata carta,/ votum solvite pro mea puella.” (Annali di Volusio, carta imbrattata da sterco,/ sciogliete il voto fatto dalla mia ragazza.”. Scherzosamente s’immagina di dar fuoco a “electissima pessimi poetae/ scripta”, agli scritti scelti del peggior poeta, consegnandoli a Efesto, “dio sbilenco,/ da ardere con legna funesta (“… tardipedi deo daturam/ infelicibus ustulanda lignis.”), onde poter slegare un presunto giuramento della “ragazza peggiore di tutte,” che “si persuase con scherzo e delicatezza a impegnarsi col voto agli dei.” (Et hoc pessima se puella vidit/ iocose lepide vovere divis).
Carme XLIV
L’intenzione parodistica del carme 44 venne invece ravvisata da Christopher P. Jones (Parody in Catullus 44, 1968) nell’ambiguità del termine “frigus”, freddura che raggela metaforicamente la convivialità della cena e della tavola imbandita (alla stregua del Marziale III, 25, 4: “Neroniana is refrigerat thermas”, che, a proposito dell’eloquenza di Sabineio, dice che: ghiaccerebbe le terme di Nerone). Il metro scazonte di Ipponatte ne sarebbe una spia ulteriore. L’arcaico “autumant” è apax catulliano, relativo alla scelta di riconoscere tiburtina, e non sabina, l’ospite della villa suburbana che l’ha aiutato a rimettersi dai malanni procuratigli dalla lettura del discorso di Sestio contro Anzio. “O funde noster seu Sabine seu Tiburs/ (Nam te esse Tiburtem autumant quibus non est/ Cordi Catullum laedere: at quibus cordi est/ Quouis Sabinum pignore esse contendunt)… - Compagna mia, che tu sia Sabina o Tiburtina/ (poiché che tu sia Tiburtina ritengono coloro che non vogliono/ in cuor loro nuocere a Catullo: mentre darebbero qualsiasi cosa per dire/ che tu sei Sabina coloro che vogliono farmi del male).
Quis est editor?
Questa disposizione interna (I-LX nugae; LXI-LXVIII carmina docta; LXIX- CXVI epigrammata) non la si può attribuire all’autore, bensì a un rimaneggiamento da parte d’un membro della sua intima cerchia d’amici e sodali che ne avrebbe presuntivamente interpretato le volontà (forse lo stesso Cornelio Nepote a cui è stata dedicata la prima parte dell'opera?). Tutto il Liber è dunque una raccolta di complessivi 116 carmi, a cui però s’aggiungono i tre frammenti che non facevano parte dell’edizione originale, ma provenienti dai brani dei poeti neoterici e pre-neoterici (Levio Melisso, Quinto Lutazio Catulo, Valerio Edituo, Porcio Licino…). In ogni caso, l’opera di Catullo viene identificata come un Liber perché è lui stesso a definirla così.
Da Verona a Roma
Gaio Valerio Catullo visse nella prima metà del I sec. a. C., nascendo, forse, intorno all’80 (87-84), almeno in base al Chronicon di Gerolamo, da cui s’evince anche che presumibilmente morì intorno ai 30 anni. Nei carmi del Liber si possono leggere dei precisi riferimenti storici che non vanno, comunque, oltre il 54 a. C.: nel Carme 113 (v. 2) si fa riferimento al secondo consolato di Pompeo dell'anno 55 a.C., e in altri tre alla spedizione di Cesare in Britannia (11, 12; 29, 4; 45, 22).
Il gruppo dei Cornificiani e dei “poetae novi”
A Roma era riuscito a inserirsi bene nella società galante, frequentando personaggi di spicco come Quinto Ortensio Ortalo, Gaio Memmio, Cornelio Nepote e Asinio Pollione, forse anche il gruppo dei Cornificiani (da Cornificio, retore dialettico), e certamente i cosiddetti neòteroi (νεώτεροι), “cantores Euphorionis”, o “poetae novi” (Gaio Licinio Calvo, Publio Valerio Catone, Marco Furio Bibaculo, Publio Terenzio Varrone Atacino o Gaio Elvio Cinna, l’autore di Zmyrna), letterati così etichettati, un po’ spregiativamente, da Cicerone (capitolo 161 dell'Orator, e III, 45 delle Tusculanae disputationes), perché portatori d’una ventata alla moda, ma ancora ancorati alla tradizione del circolo degli Scipioni e, sostanzialmente, imitatori degli alessandrini.
Oligóstichos
Secondo Callimaco, di cui i neoteroi erano seguaci, la poesia doveva essere di breve estensione (oligóstichos, ὀλιγόστιχος), ma estremamente raffinata e attentamente rifinita; insomma una creazione lieve e delicata, che rifiutasse la magniloquenza e la grandiosità dell'epos (έπος), come quello omerico. Cosicché la lirica alessandrina era composta in forme molto più agili e sicuramente meno impegnative: epigramma, giambo, elegia… Callimaco, anzi, aveva tentato pure di rinnovare l'epica tradizionale proprio con quella specie di “poemetto mitologico”, o epillio.
Biblioteca di Alessandria
Dall’esperienza di catalogare i testi della Biblioteca di Alessandria, fondata da Tolomeo II Filadelfo, il battiade Callimaco di Cirene trasse un’opera enciclopedica di tutti gli scrittori in lingua greca, Pinakes (Tavole), suddivisa a seconda del genere, e ripresa da Varrone Reatino nelle sue Imagines. Quando la sua conterranea Berenice II lo accolse alla corte del consorte, Tolomeo III Evergete, compose la famosa elegia in cui si narra dell'assunzione in cielo, sotto forma di costellazione, del ricciolo sacrificato dalla regina quale voto per auspicare un lesto ritorno del marito dalla campagna militare in Siria.
Polyèideia e poikilìa
Tra i suoi contemporanei, Callimaco spicca per l'efficace concisione e per la formale levigatezza; rende sistematica l’eterogeneità, più che la contaminazione (polyèideia, πολυείδεια, in latino contaminatio) e la mescolanza (poikilìa, ποικιλία, in latino varietas, varietà, intesa tanto in senso tematico e metrico quanto linguistico) dei generi, arrivando ad affermare nel giambo XIII che non esiste nulla che obblighi il poeta a seguire un solo genere letterario. Altre volte sembra più consapevole d’essere un innovatore incredibilmente sperimentale, e prova quasi a trovare delle giustificazioni a quest’insolita metaletteratura. Anche se non manca della prolissità, propria dell'epica antica, il ricorso a giochi di parole, neologismi ed etimologie orientano al puro diletto e a un divertissement contrario alla concezione platonica dell'arte. Il risultato è comunque sempre elegante, arguto, vivace, ironico e sebbene conciso, molto espressivo.
Zmyrna
Il programma poetico dei neoteroi emerge abbastanza chiaramente nel carme 95: «Zmyrna mei Cinnae nonam post denique messem/ quam coepta est nonamque edita post hiemem …» (La Zmyrna del mio Cinna dopo nove estati e nove inverni/ che è stata cominciata infine è stata pubblicata…). Il titolo stesso del componimento di Cinna è una più rara variante per Myrrha ed è indice d’un’esagerata ricercatezza formale; e il mito, poco conosciuto, risulta così oscuro, astruso e talmente dotto da sconfinare in quella pedanteria che, per essere compresa, richiede approfonditi commenti filologici.
Catullocalvos
Allo scopo di inscenare una tenzone poetica tra Licinio Calvo e Catullo, redigendo direttamente in latino un testo compreso nella raccolta “Liber de poetis”, il cui titolo è una crasi dei due nomi latini, Catullocalvos, nel 1897, Pascoli trasse ispirazione da una consuetudine attestata tra i preneoterici di cui vi sono esempi negli Erotopaegnia (Scherzi d'amore) di Levio Melisso, come Sirenocirca (combinazione tra Sirene e Circe), o Protesilaudamia, che narra la vicenda dell’amore di Protesilao e morte di Laodamia oggetto del carme di Catullo, in distici elegiaci, 68, - “Quod mihi fortuna casuque oppressus acerbo/ conscriptum hoc lacrimis mittis epistolium…” (Quello che mi mandi, colpito dalla sorte e da acerbo frangente,/ questa lettera composta di lacrime…), - dove l’analogia con il mito irrobustisce un bel po’ di apporti eruditi quell’esigenza personale di spaziare dal tema dell’amicizia al dolore per la scomparsa del fratello, dal ricordo della giovinezza trascorsa a quello della perduta serenità dei primi momenti felici suscitati dall’infatuazione per Lesbia.
La disavventura con Clodia
Catullo accompagnerà Gaio Memnio nella spedizione in Bitinia, non solo per far visita alla tomba del fratello (carme 101), ma pure, molto probabilmente, per dimenticare Lesbia. La relazione era sorta intorno al 60, e terminata nel 59 a. C., e l’appellativo attribuitole dall’amante in onore di Saffo serviva a mascherare il nome altolocato della spregiudicata Clodia, la seconda delle tre sorelle d’un personaggio molto in vista, anche se avversato da Cicerone, che testimoniò contro di lui nel 61 a.C., durante il processo per lo scandalo della Bona Dea (il proditorio tentativo di partecipare a riti interdetti agli uomini).
Publio Clodio Pulcro
Il tribuno della plebe Publio Clodio Pulcro era un esponente eminente dell'importante gens aristocratica dei Claudii, eppure si fece adottare da una famiglia plebea appunto allo scopo di poter essere regolarmente eletto per il 58 a. C. proprio grazie a questa transitio ad plebem. Da tribuno della plebe propose e fece approvare una serie di plebisciti che contribuirono nel complesso a indebolire il Senato a favore delle assemblee popolari.
Quinto Metello Celere
Clodia era inoltre sposata con Quinto Metello Celere, discendente del fondatore di Preneste, Ceculo. Nel 63 a. C. venne eletto pretore e ottenne la più prestigiosa delle cariche: quella di praetor urbanus, nel 62 a. C. ricoprì il consolato e due anni dopo l'imperium di proconsole per la Gallia Cisalpina; morì improvvisamente, forse avvelenato dalla consorte fedifraga, tanto da essere definito nel carme 83: "haec illi fatuo maxima laetitia est/ mule, nihil sentis?" (questa per quello sciocco è la gioia più grande/ mulo, niente senti?".
Probabilmente, quell’incarico di Metello in Gallia Citeriore fu l’occasione per conoscere la famiglia di Catullo e per Catullo di frequentare e subito invaghirsi di quella bellissima donna intraprendente, con cui era inevitabile intrattenere una turbolenta passione. Alla morte del marito, nel 59 a. C. (Apuleio, Apologia: 10), Clodia inizia, però, con l’allievo di Cicerone, Marco Celio Rufo, un’altra torbida relazione, destinata a durare un paio d’anni, dato che, già nel 56 a.C., fu proprio lei ad accusare l’amante d’aver partecipato ad atti di violenza compiuti ai danni degli ambasciatori di Tolomeo XII Aulete.
Le strofe saffiche
La fine di quest’amore il poeta lo sugella con il carme 11 in strofe saffiche, mentre l’incipit viene emblematizzato dal carme 51, anch’esso in strofe saffiche e di Saffo una puntuale traduzione. Con questo tipo di strofa Catullo inaugura e chiude quindi la sua storia d’amore con Lesbia, e, secondo questa precisa scelta programmatica, all’interno del Liber, in strofe saffiche sono presenti soltanto questi due unici carmi.
Bibliografia essenziale:
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Jones C. P. Parody in Catullus 44, Hermes, XCVI, 379-83, 1968
Korzeniewski D. Elemente hymnischer Parodie in der Lyrik Catulls, Helikon, 18-19, 228-257, 1978-1979
Pleitner K. Studien zu Catullus, Kolb, Dillingen an der Donau 1876
Radici Colace P. Il poeta si diverte. Orazio, Catullo e due esempi di poesia non seria, Giornale italiano di Filologia, XXXVII, 53-71, 1985
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Radici Colace P. Linguaggio e comicità: il comico della retorica nella letteratura greca e latina. Metodologia di lettura della poesia non seria antica, in Didattica del classico. Nuovi orientamenti tra continuità e innovazione, a cura di Vincenzo F. Cicerone, pp. 620-7, Atlantica, Foggia 1990
Väisänen M. La musa poliedrica: indagine storica su Catullo carme 4, Suomalainen Tiedeakatemia, Helsinki 1984
Väisänen M. La musa dalle molte voci. Studio sulle dimensioni storiche dell’arte di Catullo, «Studia historica», n° 30, Societas Historica Finlandiae, Helsinki 1988