“I’mbozzichi” d’un chierichetto – A cinquant’anni da “Il Previtocciolo”
“… Un seminarista, tra tutti loro,/ Cammina sempre eretto, con aria decisa./ La nera tonaca disegna il suo corpo/ affascinante e aggraziato, flessibile e snello./ Lui, solo di nascosto e col sospetto/ che i suoi sguardi osservino i sacerdoti,/ poiché per strada intravede in lontananza/ la «salmantina» [donna di Salamanca] dal biondo capello/ la guarda molto fisso, con sguardo intenso./ E ogni volta che succede le lascia il ricordo/ di quello sguardo dei suoi occhi neri./ Monotono e lento va passando il tempo/ e muore l'estate e l'autunno più tardi,/ e arrivano i plumbei pomeriggi d’inverno…”. - El Seminarista de los ojos negros, Miguel Ramos Carrión (1848-1915).
“E i giuochi della luce del sole della luna e delle stelle; e i colori innumerevoli della natura, che cambiano con le stagioni. Si vive sulle colline del Bosco San Leo una vita veramente panica, composta delle armonie e delle luci dell’Universo…”. – Don Luca Asprea
“El ingenioso Hidalgo don Luca …” avrebbero forse tradotto in castigliano il titolo del libro di Carmelo (Carmine) Ragno (24/5/1923-9/3/2005), nel senso improprio di quell’hidalgo (‹idħàlgħo› s. m., hijo de algo, con hijo, quale calco dell’arabo ibn), che in italiano ritornerebbe «figlio di…». Gallimard l’ha reso: ”Le petit prêtre de Calabre” (1973), perdendo un po’ di quella caratterizzazione diminutiva del suffisso che familiarmente verrebbe riferita a un seminarista o a un chierichetto.
Un’opera prima
Il “romanzo”, se di romanzo si tratta, fece gran clamore, mezzo secolo addietro, alla prima pubblicazione per i tipi di Feltrinelli, e venne giudicato una delle migliori tra le opere prime di quel momento, non foss’altro che per quella sua modernità e schiettezza di linguaggio erotico; a ben ragione, quindi, anche «figlio» dell’ingegno letterario, ma forse pure un po’ “Quijote de la Mancha”, per via di quel significato di “macchia” che pregiudica l’onorabilità d’un “sacerdozio” ambito e forse mai ottenuto, se non da parte d’una delle autorità dell’eresia monofisita, nonché episcopi vagantes, internazionalmente definiti appunto “wandering bishops” o “stray bishops”.
Una carriera sacerdotale?
In effetti, Carmine/Carmelo aveva intrapreso gli studi seminariali in seno alla Chiesa Cattolica e, dopo il conferimento degli ordini minori dell’ostiarato e del lettorato, era stato pure ordinato suddiacono, per essere infine ritenuto però privo della sufficiente e necessaria “vocazione”, e dunque realmente “non chiamato alla vita religiosa”. Si risolse, allora, di rivolgersi all’Ortodossia greco-bizantina catanese, all’Esarcato occidentale della Chiesa russa in esilio a Ginevra, e a quello del Patriziato di Costantinopoli a Parigi, per terminare col sostenere d’essere stato “ordinato di passaggio” da un vescovo del Sudamerica; e per qualche breve periodo fu anche istitutore in un seminario a Rossano. In ogni modo, tornato di soppiatto a Oppido, una mattina presto, disse messa di fronte a un uditorio piuttosto modesto di rare vecchine, che non osarono chiedergli di esibire il “celebret”, ovverossia il prescritto nullaosta.
“I’mbozzichi”
Furono queste le uniche opere note e di pubblico dominio del Nostro: una piuttosto disordinata, e discussa, carriera sacerdotale e un lavoro letterario, forse “autobiografico”? Circolerebbero, sia pur in forma dattiloscritta, degli altri titoli come “i’mbozzichi” (i dimenamenti, quasi come sull’altalena, da βαίζω o βαγίζω, piegarsi, incurvarsi), o “Le baracche” (analogo al primo Fortunato Seminara, scritto fra il ‘32 e il ‘34, ma apparso solo dieci anni più tardi, grazie al coinvolgimento di Leo Longanesi).
Il Contraltare
In antitesi, qualche detrattore avrebbe fatto circolare pure un anonimo e polemico pamphlet, “Il Contraltare”, assai critico circa la narrazione e la vita del Ragno. Questi avrebbe potuto rispondere come fece Henry Miller per difendere la sua trilogia “The Rosy Crucifixion” (Sexus, 1949; Plexus, 1953; Nexus, 1959) dalle accuse di sudiciume mossegli dall’amico e collega Lawrence G. Durrell?
“Sto cercando di riprodurre a parole un blocco della mia vita che per me ha il massimo significato, in ogni sua parte. Dal 1927 mi porto dentro il materiale di questo libro. Credi sia possibile che io possa avere un aborto spontaneo dopo un tale periodo di gestazione?... Ma Larry, non posso mai tornare indietro su quello che ho scritto. Se non era buono, era vero; se non era artistico, era sincero; se era di cattivo gusto, era dalla parte della vita”.
“La fiora”
“La Maistra ricamava insieme a Paolina, una ragazza di Delianova a diciott’anni, fidanzata, controvoglia di sua madre, con un autista senza automobile; era bella come un fiore e calda come una cagna in caldo. Parlava sempre d’amore, sempre di maschi… «Dov’eri? In Chiesa? Ti sei divertito oggi?»”. Chiede la ragazza a Nannuzzo, che non ha “ancora iniziato lo sviluppo” ed è al primo anno di seminario. Stando bocca a bocca gli morde l’orecchio, lo bacia, lo stringe frenetica, lo butta sul letto: “Mi mise le mani sotto, mi sbottonò, mi tirò fuori la fiora, che già era in posizione e, ansimando spaventosamente, se la ficcò (già era senza mutande, preparatissima) e mi s’adagiò sopra. Ansimava, ansimava, ansimava! Ad un certo punto spense di botto l’ansimare e mi sussurrò all’orecchio: «Te ne esce?» «Sì», risposi io. «Ufsss!» risucchiò tra i denti, spaventata. «Allora mi avvisi quando ti viene?» «Sì», risposi con un filo di voce. Anch’io la strinsi e la baciai con furore di vecchia fame. Ohimé! Di nuovo avevo perduto il sole della grazia.”.
Spregiudicatezza d’un automatismo di linguaggio o d’un linguaggio di circostanza?
A un passo dall’animalità più spontanea, il franco confronto con una rude “realtà” genitale fa implodere persino l’intimità del “linguaggio di circostanza” che, paradossalmente, diversifica i generi in netta contrapposizione ai sessi, cosicché il pene maschile diventa “la fiora”, mentre la vulva assume le ali per prendere il volo del “palombello”.
“… Ridendo un sorriso che sembrava l’affogasse, mi prese la manina e se la ficcò nel palombello, strofinandolo velocemente con essa. Quindi contorcendosi, stirando le gambe, e risucchiando aria tra i denti con le labbra semi aperte quasi per spasimo, mi prese la fiora e se la ficcò nel palombello…”.
Sembra d’assistere così a una continua epifania di suggestioni, quasi nell'atmosfera di visioni meridiane, evocatrici d’una “demonologia” mitica e tentatrice, nella sensuale esecuzione del rito primigenio della “scena capitale” di psicanalitica memoria, o d’una fortissima pressione ludica a una pur superficiale, perché infantile, mimesi d’accoppiamento, capace, secondo lo schematismo di Roger Callois, di far provare l’ebrezza della “vertigine (Ilinx) e, tra “i’mbozzichi”, la totale perdita di controllo.
Una confessione?
Il vero tema di quella “confessione” s’imponeva con tutta la forza che soltanto l'assoluta sincerità può conferire ad essa. Ma l’ostentazione dell'innocenza, di fronte a degli espliciti atti d'amore carnale, potrebbe nascondere dietro l’impetuosità o l’irruenza d’un'esposizione pseudo-antropologica dell’arretrata comunità mediterranea, o la semplice cronaca d’un “piccolo mondo antico” in cui l'erotismo regna sovrano.
La beatitudine dell’erotismo infantile
“Nuda, tutta nuda era! Il suo piccione sembrava un bocciolo di rosa in una valletta candida…”. I relitti d'una comunità dominata dal sesso straripante e spontaneo a un tempo, quando riescono a riemergere in qualità di beatitudine infantile, eludendo quel senso di peccato che prima non esisteva, e che venne introdotto dalla “fobia della castrazione” da parte paterna, o da un generale e unilaterale divieto sociale del bigottismo degli adulti? O è proprio il “disagio della civiltà” a generare la paura dell’istinto provocata d'emblée dalla repressione degli impulsi naturali?
Una descrizione d’obbligo apre la narrazione: «Il mio paese è Oppido Mamertina. (…) che oggi forma un immane aeroplano adagiato fra gli ulivi…», fertile terra di ciclopiche piante secolari. «Il paese della mia infanzia, invece, era l’espressione tragica del recente cataclisma, con tutte le derivanti miserie. (…) diviso in luridi e piccoli quartieri.». Sopravvissuto alle successive distruzioni dei terremoti, è ora «formato dai ruderi caotici della cattedrale, del seminario e dello scomunicato e diroccato palazzaccio del Grillo», proseguendo poi in un putrido cumulo di informi catapecchie tra loro disordinatamente abbarbicate, in mezzo a cancrenose superfetazioni, dove «gli abitanti di una baracca sentivano tutto e, se volevano, vedevano tutto quello che nell’altra si faceva».
La “scena capitale”
Una non voluta, e costretta, promiscuità, stracolma e folta di bambini, in cui «il corpo non solo mangia, lavora e dorme, ma deve fare all’amore e, al momento giusto (…), deve defecare e orinare»; e non è insolito che, dove tanti s’affollano in un vano, l’adolescente figlia, ancora ignara, si svegli di soprassalto, allarmata dai gemiti materni: «“Padre, padre, la mamma ‘inguscìja!”», sentendosi apostrofare: «”Dormi e lasciala fottere!”». L’esito comico rivela che la dodicenne da quell’ansimare aveva appena intuito lo svolgersi della “scena capitale”.
Se non si ama non si è riamati
Ci troviamo in un minuscolo borgo calabrese, durante il ventennio fascista, per cui un po’ tutti gli elementi della società subiscono un duplice degrado socio-politico, alla cui corrosione nessuna classe riesce a sfuggire, neppure quella del clero d’una sede episcopale con una qualche importanza. L’abbrutimento e la corruzione sono per molti versi differenti, ma non meno rozzi d’una volgarità di base. Ed è questa la traumatica scoperta del protagonista, che, in seminario vede finalmente i preti per quello che sono piuttosto che per quello che si aspettava che fossero; uguali agli altri in una media di meschinità, e terrestrità, che non li esclude dalla dilagante sporcizia morale. A loro è negato l’amore e per questo motivo si prodigano a negarlo anche a quanti vivono loro succubi, e sempre insofferenti, senza mai avere il coraggio di ribellarsi.
Un’autobiografia?
Se si tratta d’un'autobiografia, questa tipologia contiene qualcosa di quella sperimentazione di diaristica impostata sull'analisi e la critica sociale, percorsa da Fortunato Seminara pure ne “Il Vento nell'oliveto” (1951), come anche e soprattutto di quella narrativa memorialistica, orientata a sviluppare delle innovazioni nello stile della scrittura che, prediligendo le rappresentazioni esplicite e crude della condizione umana, rifiuta le norme imposte, tipica quindi di quel periodo di “beat generation”?
Sempre se si tratta d’un'autobiografia, essa ci parla d’un uomo “problematico”, che ha trovato tante difficoltà e tanti ostacoli sulla sua strada travagliata; ci suggerisce che qualcuno ha forse volutamente scelto per sé la strada più ardua, immerso com’è in una situazione conflittuale, e combattuto tra due “vocazioni” che, nel suo ambiente, non possono risolversi, perché quella del seminario si trova in aspro dissidio con quella dell’istinto libertario, incautamente indistinto dalla pulsione libertina. La soluzione, se c’è, l’intravede nell’ortodossia greca che offre sicuro rifugio per ogni prorompente e naturale concupiscenza nell’agognato matrimonio «… Abbiamo nella provincia di Cosenza un altro rito, il rito greco-ortodosso… (…) I preti vestono la riarsa e il colbucco: sono un po’ buffi: portano anche la barba. I preti (…) si maritano! ...».
“Remedium concupiscentiae”
Nessuno avrebbe ancora ipotizzato una connessione possibile, quanto improbabile e suggestiva, tra lo pseudonimo scelto per mascherarsi dietro “Il Previtocciolo” (il cui cognome si distribuisce maggiormente sulla fascia jonica della Locride), e quella singolare figura di prete di campagna, don Antonio Asprea, che, dall'inizio del secolo scorso fino alla metà degli anni '60, ha svolto il suo ministero sacerdotale tra Bova, Gallicianò e Condofuri, nel bel cuore dell'area grecanica, tuttora contestualizzata in una realtà grandemente influenzata dalla tradizione greco-bizantina della chiesa orientale, in cui è del tutto normale consuetudine che il clero, quale preventivo “remedium concupiscentiae” (uno scopo del matrimonio, definito “secondario”, ancora nel Codice di Diritto Canonico del 1917), venga regolarmente “uxorato” (come testimonia lo stesso titolo del libro di Angelo Labrini, “Il clero uxorato nella Calabria greca. Il clamoroso caso di don Antonio Asprea”, 2021).
Cristo s’è fermato a… Oppido, per fare un inchino al boss di turno?
Libertino per impulso e forza della natura, e non per atteggiamento o coscienza di volerlo essere? Nello svolgimento di quell’antico duello tra elevazione dello spirito e carnalità dei sensi, sessuofobia e anti-puritanesimo, paradiso e inferno, continuamente ondeggiando tra misticismo e sesso, le “vocazioni” contrastanti ed entrambe esasperate, ostinata l’una esuberante l’altra, s’immergono in una prosa assolutamente naif, disordinata e apparentemente pure frammentaria, per via anche delle divagazioni socio-antropologiche di sapore demartiniano.
La sua Oppido sembra, a tratti, quell’Eboli dove “Cristo si è fermato” (1945) di Carlo Levi, o la Brescello dei racconti (1946-7) di Giovannino Guareschi, altre volte, la non tanto immaginaria Nofi, o meglio Nocera Inferiore, di “Una vampata di rossore” (1959) di Domenico Rea, oppure Malo, il paese natale di Luigi Meneghello, e infatti “Libera nos a Malo” (1963) è un gioco di parole.
Romanzo di de-formazioni professionali da prete libertino?
L’amore, la “Morte e pianto rituale” (1958), l’Eros e Thanatos del Bataille di “Histoire de l'ceil” (1928) assumono, tuttavia, toni granguignoleschi, nell’episodio della Sarinella che finisce accidentalmente bollita per colpa dell’ingordigia di sanguinaccio. «Su questa terra/ alcuni di noi scopano più di quanto/ si muoia/ ma i più di noi muoiono/ meglio di quanto si scopi…», da “Love is a Dog from Hell” (1977) di Charles Bukowski.
Non memorialistica di testimonianza, né solo un romanzo, neppure di mera (de-) formazione, ma un’audace e sbalorditiva esposizione di contorte esasperazioni, quasi precorritrice delle provocazioni d’un Houellebecq (Les particules élémentaires, 1998; Plateforme, 2001), oppure parvenza della minimalistica anticipazione alla Salinger (“The Catcher in the Rye”, del 1951) di quello che si sarebbe costituito come “dirty realism”?
Di quel meridione caratterizzato dall’estrema indigenza, miserabile, primitivo, ferino, trapela l’impronta arcaica dall’incancellabile retaggio linguistico, in cui, alla confluenza tra natura e cultura, dialettismi e petrarchismi alla Aretino Pietro, s’aggrovigliano a radici lontane d’animismo tribale, come da saga familiare, dove palpitante scorre l’emanazione del primigenio richiamo fascinoso d’odor di femmina, d’inconscio collettivo, o di quel momento panico della dimensione agreste, in cui è Zagreo Bromio (da βόόμος, fremito) che arriva a scuotere le membra degli uomini.
Al di sotto del più epifanico piano di lettura, quello della manifestazione dell'istinto primordiale e animalesco, si scorge un sotto-testo che s’ammanta, persino suo malgrado, d’una “grazia” che, riesce sia pur forzosamente, a restituire, quasi all’incrocio di salubrità, purezza e mancanza di pregiudizi, un alone d’incolpevole spensieratezza alla sessualità infantile.
“Annina come tutte quelle della sua età quando hanno un maschietto tra le braccia, ridendo quasi isterica (…) mi prendeva il membro con tutte le palline, se lo metteva in bocca e succhiava ridendo e schiamazzando. Anch’io ridevo felice e sentivo un gusto soave a contatto con la sua lingua; e il membro mi si addrizzava duro duro…”.
Partecipazione è Iniziazione
Ancora sotteso al primo, v’è un livello sociologico, abituato ai vari tipi di ordinamenti legali e obbedienti, o semplicemente rispettosi, delle convenzioni e dell’arroganza dei prepotenti. Il nostro protagonista, che si possa o meno far coincidere con l’autore, dichiara d’essere un privilegiato da questo punto di vista; avendo il padre emigrato in America per conto d’una “Società Onorata”, anch’egli è stato iniziato anzi tempo da Peppe Ballotta: «Dapprima risi vergognoso e timido per il fatto che un malandrino di quel calibro si degnasse d’insegnarmi cose misteriose, segrete, che mi avrebbero elevato alla sua stessa importanza. Poi ascoltai con disinvoltura. In seguito, anche con fascino.»
Partecipazione è Confessione
Il piano religioso vede la partecipazione cerimoniale che rinnova passivamente un dato tradizionale di funzione scenica, quale misura di repressione visiva; mentre la confessione resta elemento imprescindibile di predominio e di controllo, dapprima uditivo e subito dopo vocale, nelle penitenze da espiare ripetendole: «Erano decine di devozioni. Dopo ognuna di queste recitavo tre Pater, Ave e Gloria. Poi recitavo le tre Ave Maria alla Madonna degli Abitini (…). Dicevo tre Ave Maria anche alla Madonna della Porta di Santa Cristina e un Pater Ave Gloria a San Sebastiano dello stesso paese (…). Terminavo con tre Ave Maria alla Madonna della Catena di Vorijia, affinché guardasse dal pericolo degli sbirri me e tutta la mia famiglia e tutta l’umanità.»
La scelta del protagonista non può che essere contraddittoria, tra il provocatorio-trasgressivo e il restrittivo rattristato: «In vero, nessuno sapeva niente delle mie cose; o meglio, ciascuno conosceva i rapporti che aveva con me; ma nessuno sapeva i rapporti che avevo con gli altri.»; ma sembra destinato a incontrarsi con la conclusione crociana: “… l'erotismo si mostra alla fine come egoismo a due, lontananza, indifferenza o inimicizia di anime nel contatto di corpi: solitudine". Anche se, piuttosto superficialmente, prevale in ogni caso la difficoltà di trovare una qualche minima possibilità d’equilibrio tra l’esigenza del divino e il desiderio della carne: “Ohimé! Di nuovo avevo perduto il sole della grazia. Paolina ancora mi dava ebbrezza col velluto delle sue morbide carni, delle sue sinuosità duramente molli per giovinezza, ed io mi sentivo già abbattuto, affranto di paura e di tristezza…”. Beh, si sa: “Post coitum omne animal triste est, sive gallus et mulier”. Amen!
Se vogliamo, il linguaggio di tutta la natura è improntato al sesso persino nelle sublimi vette delle descrizioni poetiche: “Il bel cielo d’estate, lontano e indifferente, garrulo di rondini in amore”; ma in questo Cantico dei Cantici mamertino, tutta la realtà vi ruota attorno e vi ritorna sin nei comuni adagi popolari che ribadiscono “tutto morto… l’uomo senza denaro” e “mezzo morto… l’uomo senza moglie”; ogni gesto viene riconosciuto immediatamente allusivo a quella che risulta una vera ossessione: gli amanti s’avvinghiavano tra loro come l’edera sta «attaccata alle querce, o ai castagni», e non c’è obbligo o impegno, che sia processione funebre o coro gioioso, a distrarre mai da questa impellente pulsione.
«Le devozioni, le preghiere, la soddisfazione d’una giornata passata bene, le gioie e le bellezze della natura non riuscivano ad addormentare in me il gusto dell’amore, il rapimento della carne. E tutto mi richiamava a questa legge, questa tendenza invincibile, questo bisogno prepotente: il garofano che ficcavo all’occhiello, i bottoni che si infilavano nelle asole; le chiavi che penetravano nelle toppe; i turaccioli che soffocavano le bocche delle bottiglie e tutti gli oggetti che agivano in penetrazione. L’edera attaccata alle querce, o ai castagni, o ad altri alberi, mi dava la viva sensazione di una donna pazza d’amore, che strozzava con le sue braccia l’innamorato. La vite legata al palo mi svegliava il senso di dolce intimità, che ci può essere tra un uomo e una donna, quando son soli e si vogliono bene. (…) I fianchi pingui e sinuosi degli ulivi annosi, grossi e giganti; i bozzoli di essi, simili a floride mammelle; le loro braccia elevate al cielo in segno d’invocazione amorosa, mettendo in mostra le concavità ascellari, mi richiamavano la donna nuda che si offre desiosa, che invoca d’essere presa (…). Fra gli animali domestici non c’era giorno che non vedessi realizzare l’amore. I conigli impregnavano le loro femmine e pestavano le zampe anteriori con autorità da mariti. ( …). Il gallo, quanto invidiavo il gallo! Le galline a sua disposizione; ed anche le pollastre da primo uovo, belle, bianche, a fior di fave, rosse, nere-lucide, screziate, castane, bionde, ardite come bandiere! E il gallo le amava a giornata, dalla mattina alla sera, ora l’una ora l’altra. Ed era sempre gagliardo e spavaldo. O fortuna, nascere gallo! E nessuna gli diceva di no; e tutte si acquattavano e scansavano le piume dalla coda, per dare strada facile alla fiora di esso che entrava pistolettando. Il gallo aveva gli stessi desideri miei e li realizzava tutti, in ogni ora del giorno. La mattina, quando scappava fuori dal pollaio, sembrava che non avesse visto galline da cento anni e ne cavalcava quattro, cinque, sei, una dopo l’altra! E poi si guardava all’intorno regale e soddisfatto. Sì, un vero re, il gallo! Il vero re! Ah, essere gallo! E invidiavo la vita al gallo, e desideravo di essere gallo! Oltre ad avere tante femmine, non ci sarebbe stata paura d’inferno.».
Solo una prima parte!
Delle tantissime pagine manoscritte di quella che sembrava un'autobiografia, allora considerata molto scandalosa, offerte nei primi anni ‘60 all'editore Feltrinelli, la parte edita (nella sua compiuta interezza sarà pubblicata più di trent’anni dopo a cura di Antonio Piromalli e Pasquino Crupi) corrisponde, grosso modo, ai primi quindici anni di vita del narratore, che avrebbe iniziato a praticare l'atto sessuale alla precocissima età di cinque anni e, indistintamente, con vogliose bambine della sua età, adolescenti procaci, adulte lascive, fetide matrone, e persino dopo essere entrato in seminario al tempo della scolarizzazione media, intorno agli undici anni circa.
Se non un vero e proprio eccesso, quanto meno un’eccezione, soprattutto per la letteratura del meridione, escludendo Vincenzo Ammirà, Domenico Piro, detto "Duonnu Pantu", o i siciliani Domenico Tempio e Giuseppe M. Calvino.
Una “moglie” per il prete
Il latore del plico si spacciava per un qualsiasi comune parroco calabrese, dal nom de plume Don Luca Asprea, istigando i lettori a sbizzarrirsi, almeno per qualche periodo, sulla sua reale identità. I reggini, comunque, si sarebbero presto orientati ad andarlo a smascherare nella sua naturale diocesi vescovile. Del resto, erano quelli gli anni in cui si metteva in discussione il celibato ecclesiastico – e coevo fu il film “La moglie del prete” di Dino Risi.
Il tema era stato trattato da Bernardo Guimarães, all’epoca della cosiddetta “questione religiosa” brasiliana, nel romanzo “O Seminarista” (1872), penalizzato da pesanti interventi editoriali, tanto da sconvolgerne scrittura e stile letterario. Oltre che al celibato clericale, le critiche sociali erano rivolte al patriarcato dell'epoca e all'autoritarismo delle famiglie ottocentesche, che impedivano ai giovani di seguire in piena autonomia una diversa strada prescelta.
Spretato prim’ancora d’essere ordinato…
Certo, quella mattina che un trentenne visibilmente stanco, poiché reduce da un viaggio in treno durato l’intera nottata, si presentò alla sede milanese d’una casa editrice divenuta celeberrima in meno d’un lustro, per chiedere con insistenza di venire ricevuto dal responsabile del settore editoriale, in grado di decidere dell’opportunità o meno di stampare un’opera, si trattava per tutti d’uno sconosciuto, spretato od ordinato sacerdote che fosse.
Opus pistorum in Oppido
La Feltrinelli era allora il principale polo d’attrazione di folte schiere di grafomani rimasti inediti, che ritenevano d’essere stati incompresi dagli altri editori, e questo perché era stata la sola ad aver dimostrato il coraggio di pubblicare due capolavori letterari di rilievo internazionale rifiutati da altri (Il dottor Živago di Boris Pasternak, perseguitato in patria, ebbe la sua anteprima mondiale nel 1957; nel 1958, Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa), oltre ad autori del terzo mondo, nonché letteratura politica e, di lì a poco, quei primi esperimenti di tecniche scritturali d'avanguardia, quali il flusso di coscienza o l’automatismo di linguaggio di matrice surrealista, che avrebbero scatenato un vero putiferio, come nel caso di Henry Miller (Tropic of Cancer, 1934/ Tropico del Cancro, 1964; Tropic of Capricorn, 1939/ Tropico del Capricorno, 1967; Black Spring, 1936/ Primavera nera, 1968).
Un Portnoy cattolico (od ortodosso?)
Cinquant’anni fa, a quell’avventore venne dato comunque ascolto, perché ben raccomandato, sia da un vaticanista come Carlo Falconi, che da uno scrittore famoso per essere altrettanto spregiudicato sessualmente, con un’infarinatura di psicanalisi, forse un po’ troppo a buon mercato, mischiata a quel sartriano esistenzialismo tanto in voga in quel periodo. Alberto Moravia (“Agostino”, 1944; “La disubbidienza”, 1948; “L'attenzione”, 1965) avrebbe vinto il Premio Viareggio per “La noia” (1960), mentre “Io e Lui” sarebbe uscito quasi in contemporanea con “Il Previtocciolo”, poco dopo “Portnoy's Complaint” (1969) di Philip Roth, in cui l’umorismo dei temi d’una lussuria sboccata è palese prodotto di letterarietà del tutto consapevole.
Bibliografia essenziale:
Almansi G. L'estetica dell'osceno. Per una letteratura "carnalista", Einaudi, Torino 1994
Asprea D. L. Il previtocciolo, (prefazione di Franco Cordero), Feltrinelli, Milano 1971
Asprea D. L. Il previtocciolo, (2. ed. riveduta e ampliata, con introduzione di Pasquino Crupi e saggi di Antonio Piromalli e Franco Cordero), Pellegrini, Cosenza 2004
Claypole O. (ed.) Sicilian Erotica. A Bilingual Anthology of Erotic Poems by Giovanni Meli, Domenico Tempio and Giuseppe Marco Calvino, (translated into english verse by Onat Claypole, introductionby Justin Vitiello), Legas, New York 1997
Labrini A. Il clero uxorato nella Calabria greca. Il clamoroso caso di don Antonio Asprea, Città del Sole Edizioni, Reggio C. 2021
Reim R. Il corpo della Musa. Erotismo e pornografia nella letteratura italiana dal '200 al '900. Storia, antologia, dizionario, Editori Riuniti, Roma 2002