“Poste le dovute limitazioni, - sussurra Romolo Rossi, “Sottovoce agli Psichiatri” (Piccin, Padova 2010) - perché non si giunge a caricature della differenza di genere, appunto del tipo Flamengo, o del tipo cresta di gallo o bargiglio del tacchino, rimane il fatto che a maturità genitale avvenuta, e quindi dopo la pubertà, il principio maschile si raccoglie intorno al vissuto di impervietà e protrusione, e il principio femminile a quello di cavità e contenimento…”.
Sul piano conflittuale, l’ipotesi di un plus e di un minus alimenta il sentimento della castrazione, di un vissuto traumatico nel rapporto sessuale e la rivendicazione di una Giuditta che ribalta l’aggressività nei confronti di Oloferne. Tutto ciò verrebbe superato da una permanenza, a questo punto necessaria, d’una sufficiente ambiguità diadica, che permetta più ampi assunti mentali e somatici, comuni ai due generi, soprattutto di tipo inclusivo e contenitivo (gravidico, trattenuto), di cui il primo, in assoluto, concerne l’analità. Un’analità, come abbiamo detto comune a entrambi i generi, che, a sua volta, si può esprimere maggiormente nel senso ritentivo (della raccolta, collezionismo), ovvero più con modalità aggettanti ed espulsive (ordine).
A parte il bisogno anancastico di mantenere schemi rigidi, sarebbero rituali di testardo controllo a far perdurare il piacere dell’evacuazione. Pulizia e precisione provengono dalla formazione reattiva che controbilancia questo caotico piacere di sporcare.
L’attitudine a viaggiare ed esplorare, pur senza sconfinare nella dromomania, apparterrebbe al genere prominenza sporgente dell’aggetto, la disposizione ad accogliere e ospitare (xenofilia) è ovviamente più femminile ed espansiva, in tutti i sensi. In questo modo, l’abbinamento sessualità e turismo, appare molto meno oscuro di quanto potrebbe all’apparenza sembrare. L’allotriorastia (dal gr. allotrios, αλλοτριος, straniero, e da erastes, εράστες, amante), potendo sconfinare nelle parafilie vere e proprie, non è un semplice sinonimo di xenofilia (da xenos, ξενος, ospite, e philein, φιλεῖν, essere bendisposto), anche se poi, in certo qual modo, andrebbe connesso al concetto di promiscuità, in quanto “spazio sociale” privo di relazioni permanenti, e di conseguenza coinvolgente sia parenti stretti (endogamia e incesto), come pure sconosciuti ed estranei (esogamia).
Contenendo una pluralità di registri e di significazioni, emergenti attraverso implicazioni e risonanze, rimandi e circolarità, nell’andare incontro al tempo, questo “spazio sociale”, finisce per costituire l’esito del riconoscimento di valori territoriali, ambientali, umani in un’unica comunità di sentimento (iperluogo).
Qui, non si tratta quindi di scambiare dimensioni distopiche, utopiche, o atopiche, di “non luoghi” della surmodernità, dove ogni singolo costituisce un “codice sostituibile”, in quanto appunto spazi anonimi scaturiti dalla combinazione di restringimento (di spazio), accelerazione (del tempo) e individualizzazione di destini (non sempre) comuni. Infatti, non tutte le località turistiche, che possiedano caratteristiche di unicità, assurgono sic et simpliciter al rango di iperluogo, “un contesto che ne contiene altri – secondo la definizione di Mariano Pavanello (2010) - e in cui è possibile vivere contemporaneamente più dimensioni dell’esistenza quotidiana”.
Il transito tra il disprezzo per un non luogo e l’ammirazione per l’iperluogo necessita d’un’implicita rivoluzione linguistica che contribuisca a modificarne il registro narrativo. Un riposizionamento, dunque, per restare dentro il vocabolario spaziale, un travestimento, per alludere a un rituale mitico, o a preliminari erotici, che gli si equivalgano.
Gli ornamenti qualificanti e tipici sradicano dal contesto per proiettare su di una scena teatrale dove si recita l’ambiguità dell’identità, come del genere. Del resto, la sensibilità estetica del turista, se non priva di capacità critica, va in cerca d’un’alterità che incuriosisca. Nell’ospitante, non all’altezza, per lo più per motivi economici, di svolgere il ruolo di munifico anfitrione, sorge la speranza d’un riscatto, anche grazie al tentativo di emulazione dell’ospitato.
In un periodo, come quello vittoriano, in cui, a causa dei processi d’industrializzazione e urbanizzazione, l’esasperazione del pudore, nei paesi nordeuropei, s’accompagnava a una brusca caduta della natalità, la risposta morale, normativa a questa curva discendente, seguendo il parere dell’assertore del materialismo culturale, Marvin Harris (1981), non poteva che essere un imperativo procreazionista, affiancato dall’assoluto veto nei confronti di tutto ciò che potesse designare atti sessuali (masturbazione, fellatio, cunnilinguo, pederastia) non finalizzati a quello scopo, e pertanto una rigida omofobia.
Nelle leggi che introdussero il razzismo, quale discriminante del regime giuridico italiano, Marvin Harris vede invece quell’ossessione identitaria che si voleva perseguire con l’assillo procreativo e la repressione di tutti quei comportamenti non conducenti alla generazione di prole adeguata allo spirito nazionalista del regime. I paesi mediterranei non coinvolti nei fenomeni di industrializzazione e urbanizzazione mantenevano comunque alti livelli di natalità, costringendo le donne a una drastica separazione dagli ambiti maschili, per un’importanza attribuita al ruolo di madre, alla fedeltà, e alla verginità prematrimoniale, che relegava la sessualità maschile all’interno dell’istituto matrimoniale o alla promiscuità situazionale con altri maschi, se non con le bestie d’allevamento, più che con quelle da compagnia. Zooerastia, masturbazione, omosessualità, o frequentazione di prostitute, andavano affrontate con una progressiva tolleranza, parziale nell’accettare il temporaneo, generazionale, in quanto frutto d’una diversa moralità, farisaica, irretita dall’esclusività e dalla permanenza.
Questa cultura (etico-erotica) mediterranea ammette dunque una pratica omosessuale compatibile con la tradizione locale, il cui elemento più significativo è rappresentato dall’identificazione del ruolo, che non ha niente a che vedere né con quello sociale né con il genere, ma unicamente con il compito svolto nel corso della prestazione in se stessa, la quale, dovendo rendersi complementare, riproporrà necessariamente quell’ambiguità diadica, di un versatile, flexible (switch hitter), da risolvere, per via di cose, o in senso insertivo, oppure ricettivo, con la contrapposizione del top (dominant) al bottom, non per questo del tutto “inattivo”.
“L’elemento più qualificante di tale concettualizzazione – suggerisce Giovanni Dall’Orto (1990) - è la netta separazione tra colui che viene individuato come l’’omosessuale’ in senso stretto (cioè l’individuo che assume il ruolo ‘passivo’ nel rapporto sessuale) e l’individuo che assume il ruolo ‘attivo’. Per indicare il ‘passivo’ esistono parole specifiche (in Italia, arruso o recchione/ricchione, che indicano l’omosessuale passivo che non si traveste, e femmenella, che indica l’omosessuale passivo che si traveste… Al contrario l’’attivo’ non si differenzia, né concettualmente né con un nome a sé, dal maschio/macho eterosessuale…”.
Le differenze che si rilevano da questa singolare, perché geografica, interpretazione dell’omosessualità non sono affatto trascurabili, in specie per l’importanza delle immediate conseguenze. “In primo luogo, solo il ricchione, cioè l’omosessuale passivo sente il bisogno di costruire una sottocultura, di creare un gergo, di favorire la socializzazione coi suoi ‘simili’. La sottocultura omosessuale, nelle aree in cui è ancora vivo il modello dell’’omosessualità mediterranea’, è in realtà la sottocultura dei ricchioni. In secondo luogo, i membri della sottocultura ritengono generalmente inconcepibile avere rapporti sessuali l’uno con l’altro…”, riproducendo, di tal fatta, anche il tipico tabù endogamico nella risultante obbligazione a una ricerca di intrattenimento di rapporti al di fuori della propria cerchia, con estranei, stranieri e turisti (omo-allotriorastia).
“L’alternativa proposta alla società è chiara: da un lato vivere in modo esclusivo e aperto i propri desideri, ma abbassandosi al livello di un essere caricaturale, la ‘checca’. Dall’altro vivere i propri desideri e mantenere egualmente il ruolo privilegiato di ‘maschio’, a patto di rinunciare a viverli in modo esclusivo. Per dimostrare la propria virilità il ‘maschio’ deve infatti assolutamente sposarsi e produrre figli. L’adesione all’istituzione matrimoniale è insomma il prezzo da pagare per vivere i propri istinti omosessuali senza essere stigmatizzati…”.
In quest’ottica sottoculturale, assumono significato solamente quelle relazioni intercorse tra individui complementari, maschio e ricchione, attivo e passivo, insertivo e ricettivo.
“…Paradossalmente, l’esistenza del ricchione è socialmente utile. I rapporti sessuali con i ricchioni costituiscono infatti un’utile valvola di sfogo delle tensioni sessuali, specie per quel che riguarda gli adolescenti. Nelle società contadine e patriarcali mediterranee la donna è (o era fino a pochi anni fa) in genere strettamente sorvegliata e segregata fino al matrimonio, mentre la condizione economicamente debole degli adolescenti non concede(va) un facile accesso alle uniche donne non off limits, cioè le prostitute. Impossibile in questo contesto ottenere uno sfogo sessuale senza infrangere uno dei tabù basilari di questa società: la seduzione di donne vergini o sposate”.
L’atto omoerotico rappresentava un’alternativa ben valida a un più elevato rischio calcolato di contravvenire a una proibizione sessuale ancor più pericolosa.
L’incontro tra omosessuali nordeuropei e “maschi” del sud era, per tanti motivi, inevitabile, ma non scevra di fraintendimenti. A disturbare l’armonia d’un’assonanza estetica ed emotiva che si concretizzava in amicizia, permaneva lo squilibrio tra stranieri turisti e locali, ma non ospitanti, per meri problemi economici. L’equivoco ampliava il divario tra la pratica del rapporto e l’ideale della relazione, che per i più colti trovava fondamenta nell’arte, nella letteratura o più semplicemente nel buon gusto, forse addirittura in quel medesimo, misterioso richiamo del sangue (“Call of the Blood”, 1905) descritto da Robert Smythe Hichens. In qualsiasi incontro proficuo che non si voglia degradare a scontro, però, un eventuale adattamento riguarda entrambe le parti, e persino in caso d’innamoramento, l’attrazione non può che essere reciproca, anche se basata su presupposti di diversità piuttosto che di affinità culturale. Da una parte esigenze da soddisfare, dall’altra aspettative che non andrebbero disilluse.
Un’inestimabile gratificazione può procurare una sindrome da dipendenza, mentre il disinganno potrebbe rivelarsi analogo alla perdita dell’individualità, o di autostima, una sorta d’incoscienza. Hiroaki Ota ha identificato, nel 1986, una sindrome di Parigi (o di Notre Dame), quasi diametralmente opposta alla fiorentina “Stendhal”, in cui nausea e deliquio sono provocati da un impatto deludente con la cruda realtà tanto distante da ciò che ci si aspettava (Le Fabuleux Destin d'Amélie Poulain, il Café de Flore di Sartre e Beauvoir, i baci alla Robert Doisneau "davanti all'hotel De Ville" e altri romantici fantasmi sotto la Tour Eiffel e Mont Martre). Provenendo da una società formale, come la nipponica, molto educata e poco abituata ad alzare la voce, l’incontro con la vita caotica, e uno stile che può rivelarsi talvolta sgarbato, assume i contorni d’un insopportabile rissa.
Agli stereotipi turistici, che fanno da corredo preliminare alla visita di un certo luogo, si contrappongono altrettanti stereotipi relativi a quanti vi arrivano in cerca d’accoglienza, prodotti dalla cultura del posto sulla base di una diversità della nazionalità di provenienza di quanti sono destinati inconsapevolmente a diventare variopinti “tipi da spiaggia”. Così, giusto nel paese che procura loro quel disagio derivante dalla differenza tra visione idealizzata ed effettiva della capitale francese, di cui prendono atto solo durante il soggiorno (sindrome di Hiroaki Ota), i giapponesi sono criticati perché fanno troppi inchini, vengono considerati rupofobici, e negativamente censori, se il servizio non è all’altezza delle loro aspettative. I cugini d’oltralpe non risparmiano gli italiani che sono ritenuti eccessivamente portati a stringere la mano e a rivolgersi facilmente con il “tu” e direttamente in italiano, pretendendo che tutti conoscano la loro lingua o divengano loro amici; impazienti e amanti delle escursioni, amano stare in famiglia e porre al centro dell’attenzione i loro bambini. Gli americani prediligono il by night, preferiscono un servizio personalizzato e completo. I tedeschi richiedono chiarezza e precisione; gli spagnoli son soliti tirar tardi a cena; i brasiliani cercano poesia ed entusiasmo, mentre i belgi rimangono i più prosaici.
Come le stereotipizzazioni, anche le rappresentazioni sono reciproche e spazi d’azione s’aprono a ogni idonea manipolazione. Eppure, a dominare su qualsiasi scambio è sempre la banalità della legge di mercato. Quelli che ritengono d’essere i procacciatori d’una qualsiasi virtù (artistica, sessuale, paesaggistica, turistica, che sia), si sforzano d’essere ammirati e reclamati, oltre che reclamizzati. Quelli che invece tendono a creare una relazione privilegiata un po’ più garbata e sensibile, inesorabilmente cadono nella trappola dello sconfinamento nella pretesa d’esclusività affettiva e passionale, o ancor più facilmente in un attaccamento morboso.
Essendo valido l’assioma che vuole che il cliente abbia sempre ragione, il potere lo esercita dapprima il raro viaggiatore, lo straniero ricco, l’anziano dominante, pur se in fase di senescente arrenoidia (da ᾰ̓́ρρην, arren, maschio, e òiς, ois, ovino, ossia gagliardia del montone). Poi prende il sopravvento l’elemento strutturale del commercio, con un inequivocabile valore di scambio (affettivo ed economico), strettamente connesso alla prestazione d’opera e a quanto essa venga deliberatamente richiesta, secondo il bilanciamento della domanda e dell’offerta. Più fascino suscita l’oggetto in vendita, maggiore sarà il suo consumo!
La reazione d’una certa popolazione potrebbe essere di tipo “etico”, consistente nel rifiuto di mercificare i sentimenti, ma, d’accordo con Mario Bolognari (“I ragazzi di von Gloeden. Poetiche omosessuali e rappresentazioni dell’erotismo siciliano tra Ottocento e Novecento”, Città del sole edizioni, Reggio Calabria 2013), viene spesso confusa con timidezza, se non con vera e propria limitazione psicologica nella capacità di porre in atto atteggiamenti destinati a restare sempre latenti.
Quella di tipo “orientalista”, con transito temporaneo nelle relazioni omosessuali, non trascurerebbe sostanzialmente la propria eterosessualità, o meglio ambierastia (bisessualità), anzi addirittura la confermerebbe in una versione febbrilmente proiettata verso la molteplicità di oggetti erotici. E, nel frattempo, il ruolo attivo e la temporaneità avrebbero ridotto la trasgressione a conformismo.
Se l’ambiguità (dal lat. ambigere, dubitare, essere indeciso) contraddistingue, in ambito sessuale, chi non sia dichiaratamente omosessuale, ma presenta elementi di comportamento caratteristici del sesso opposto al proprio, l’attribuzione dell’orientamento sessuale resta quanto meno dubbia. Ma, nell’amfigenesi (da amphi, αμφι, ambiguità e genesis, γένεσις, che genera), l’omosessualità non è assoluta e si hanno per lo più rapporti sessuali con membri del proprio sesso, mentre se ne intrattengono di eterosessuali, magari anche solo sporadicamente (bisessualità).
Il terzo tipo sarebbe quasi una normale prosecuzione del precedente con ribaltamento dello stereotipo ed evidente distinzione di trasformismo e abilità di adattamento. Sia per contiguità che per contrapposizione, il “fimminaro” s’è quindi spesso intrecciato e sovrapposto all’altro profilo. In sostanza questo soggetto si tramuta in un oggetto di desiderio di “fimmini”, e perciò fimminaro, e non corrisponde con diretta immediatezza alla definizione di donnaiolo. L'adescamento compulsivo di questa forma di dongiovannismo s’esprime nello scopo deliberato di raccogliere, collezionare e aggiungere nuove conquiste al proprio disegno di caccia seduttivo, in un costante rastrellamento del territorio, mirato alla ricerca di prede estranee (etero-allotriorastia).
L’adagio: “Tutte le donne sono puttane tranne mia madre e mia sorella”, dal Bonaparte veniva spregiudicatamente completato da un: “ma visto che anche loro sono donne!”, mentre l’appendice: “non vado nei bordelli per non incontrarle” viene attribuita a Gabriele D'Annunzio; entrambi però riflettono un complesso inconscio maschilista (Agar-Sarah), in cui persiste un parallelismo con netta cesura nell’attitudine sessuale di quegli uomini che vivono una profonda scissione, sublimando il sentimento per la moglie (Sarah), in cui convogliano l’affetto per i propri figli, mentre, nel contempo, destinano a diversa persona (Agar) gli aspetti meno "nobili" d’un rapporto dalla forte ed esclusiva connotazione erotica.
La tendenza psicologica dell’uomo che divide le donne in categorie, popolarmente dette della “santa” e della “puttana”, idealizza quelle della prima classe, adatte alla devozione, venerazione, “Amore”, con l’iniziale maiuscola, senza però venire mai coinvolte in attività sessuali, considerate “sporche”, per quanto piacevoli. La seconda categoria é composta dalle “femmine” carnali, non idealizzate e non idealizzabili, quindi, nient’affatto adatte all’affetto, bensì alla reificazione come oggetto di piacere, con le quali poter dare sfogo alle più perverse fantasie.
Secondo la psicodinamica, tale visione dicotomica deriverebbe da una, non integrata nella forma, interiorizzazione della figura materna, scissa cioè fra il polo positivo della trasfigurazione e il negativo della crudezza terrena. La persona che detiene questo complesso però non risente di alcuna conflittualità e vive in maniera egosintonica quello che ritiene un modo condivisibile di intendere il rapporto intimo. Sovente quindi, per quanto amata, la partner viene regolarmente tradita con un’amante, o ancora meglio una prostituta, che non si ama, ma con cui sembra meno difficile ottenere gratificazioni sessuali, pur non estreme.
Il complesso riscontrabile fra le donne, per le quali esiste un compagno su cui riversare tenerezza e stima e un altro per godere dell’aspetto erotico, non sarebbe proprio complementare quanto il “complesso di Brunilde” (la guerriera sedotta da Sigfrido, invece che dal marito Gunther), molto più di quello della ribelle Lisistrata, dell’Ape regina o dell’apatica e narcisista “Bella addormentata nel bosco”.
In ogni caso, considerare in un certo modo qualsiasi donna con cui si desideri fare sesso, qualsiasi donna con cui lo si faccia, lo si sia fatto o lo si farà, è abbastanza prossimo all’estendere questo pensiero a chi dimostra di aver voglia di, o sia disposta a farlo. Si è comunque di fronte a una predisposizione infantile verso la perversione polimorfa, quale parte integrante delle proprie attività sessuali. A fini professionali, la prostituzione sfrutta questa stessa disposizione polimorfa, infantile, che, in fondo, non è che una caratteristica generale fondamentale, e umana, fin troppo umana.
Anche linguisticamente l’antitesi mamma prostituta, santa puttana, madonna meretrice, viene ripresa nella formulazione dialettale di quel “fimmini”. La differenza chiaramente tra queste ultime e le donne è riposta nella relazione, che con le prime è di natura esclusivamente sessuale, mentre con le seconde si mantiene affettiva, familiare, o comunque sottoposta a un qualche controllo sociale, in quel rinnovato contrasto tra domestico ed estraneo, straniero e locale, che sancisce lo scambio di favori e di prestazioni, destinando i primi al sentimento e i secondi al commercio. Da cui poter far facilmente derivare il mercimonio sessuale e turistico, mentre ben altro è simpatia, amicizia e ospitalità.
Bibliografia essenziale:
Bolognari M. I ragazzi di von Gloeden. Poetiche omosessuali e rappresentazioni dell’erotismo siciliano tra Ottocento e Novecento, Città del sole edizioni, Reggio Calabria 2013.
Dall’Orto G. Mediterranean homosexuality, in Dynes W. R. (ed.) Encyclopedia of homosexuality, Garland, New York 1990, vol. 2, pp. 796-798,
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