La “misérable” trilogia “gallica” di Mimmo Gangemi: La revanche…, Le Pacte…, La Vérité du «petit juge»
Come spesso accade, la prima cosa che colpisce nei romanzi del nostro cristinese è la suggestione del titolo, che a volte deriva da denominazioni di libri già letti e a cui ci si è affezionati in maniera morbosa, perché in qualche modo sono ormai entrati a far parte della storia stessa della società o della nostra quotidianità: “Marzo per gli agnelli” (a metà strada tra “Assassinio di marzo” di Dan Turèll, “March Violets” di Philip Kerr e “The Silence of the Lambs” di Thomas Harris), “La signora di Ellis Island” (“La signora dell'isola” di Corrado Alvaro, “Fruen fra Havet” di Ibsen, o “Mrs Dalloway” di Virginia Woolf), “Il prezzo della carne” (non c’è dubbio, la libbra reclamata da Shylock!); molto più originali: “Il passo del cordaio” (troppo vago e distante infatti l’eventuale riferimento a “Corda tesa” e a “Il passo dell’assassino”, due pellicole, rispettivamente, di Richard Tuggle e Sidney Hayers), oppure “L’acre odore di aglio”, anche se di quest’ultimo trovo molto più azzeccata la prima versione (datata 1998), per qualche dimostrazione d’un senso di lontananza spaziotemporale da quanto viene narrato: “Quell’acre…”.
Volodymyr-Džordžo Ščerbanenko diceva che “I milanesi ammazzano al sabato” in quanto gli altri giorni sono impegnati a lavorare; pure dei meridionali la preferenza andrebbe di fatto alle festività, piuttosto che alle vigilie, ma perché c’è tanta più animazione, utile a confondere maggiormente le acque torbide di delitti efferati e cinici. Uguale, a Torino, per Fruttero & Lucentini: “La donna della domenica”, tradotto in francese pari pari: “La femme du dimanche”.
Ai cugini d’oltralpe (Editions du Seuil/Points), di Mimmo Gangemi è arrivata la “trilogia del giudice meschino” (dall'arabo miskīn; inaugurata circa dieci anni fa con il testo poi adattato dalla regia di Carlo Carlei per la miniserie tv sceneggiata da Giancarlo De Cataldo); e, forse, per una qualche maliziosa preferenza mediterranea nei confronti dei britannici, nel senso che intendeva Raymond Chandler quando, nel suo basilare “The simple art of murder”, affermava: «Gli inglesi potrebbero non essere sempre i migliori scrittori del mondo, ma incomparabilmente sono i più noiosi.»?
Letterariamente, in Calabria, ci si trova agli antipodi meridionali della prosa anglosassone, asciutta, veloce ed efficiente, perché Mimmo Gangemi ha bisogno di prendersi tutto il suo tempo, come per rimuginare su una vendetta, concludere un affare, seppellire un caso, o languire in prigione; il suo è uno scrivere di gran gusto, polposo, sapido e ben condito, fino a sfiorare quell’untuoso barocchismo di chi nel versare dell’olio genuino, appena molito e non filtrato, lascia qualche goccia fuoriuscire dal bordo dell’insalatiera, finendo inevitabilmente col macchiare la tovaglia di lino. Impossibile quindi contenere una qualche lungaggine, e ovviamente anche una certa lentezza del ritmo, che a tratti sembra voler virare, per poi perdersi, nella commedia, dal taglio che comunque rimane convenzionale, con personaggi il cui spessore non appare in tutti uniforme. E quel soffermarsi con sarcasmo sui pettegolezzi serve a mantenere un idoneo distanziamento emotivo ed etico o a sottolineare una "ἐποχή" (ossia "sospensione") da qualsiasi giudizio?
Nel titolo alla Andrea da Barberino, da pseudo-eroico, «pauvre Guérin» (in inglese "Wretched", infelice), la riproposizione “petit” indica una diminuzione quantitativa, che potrebbe rilasciare il sentore sulfureo del Peredonov/ Nedotykomka di Fëdor Sologub (sotto forma d’un'esasperante influenza letteraria non riconosciuta da parte di “Melkij bes”, Мелкий бес: "demone meschino", diavoletto o spiritello domestico?), e che l’accosta a uno sprezzante e familiare “giudicicchio”, e probabilmente non coglie in pieno il più profondo significato del popolare “sbenturatu”.
Sarebbe andata già meglio una traslazione alla Victor Hugo (“misérable”, con quell’implicito alone pure un po’ di perdizione), sulla china di “malheureux”, piuttosto che “méchant”, - nonostante quest’ultimo connotato verterebbe decisamente nel senso negativo, a un’intrinseca, anche se persino involontaria, cattiveria; mentre, quanto vale nella significazione contestuale di questa espressione, richiama in particolar modo una circostanziale indolenza, probabilmente pure inettitudine, o inadeguatezza, financo determinata pure un po’ dalla codardia, anzi ben maggiormente dalla limitatezza e dalla mediocrità, oltre che dall’angustia, grettezza, o certa attitudine al servilismo.
La “meschinità” del cavaliere solitario d’un tempo ha oggi acquistato una preponderante dimensione morale, e riguarda chi ha vedute e sentimenti ristretti ed esigui, con derive seriamente opportunistiche e squallide, tali da approdare per forza di cose a una desolante perdita di dignità. Sicuramente una polisemia molto versatile in italiano, a tratti nebulosa, di difficile misurabilità al di fuori dello specifico ambito linguistico di provenienza. Ma qui la consuetudinaria banalità di questo “antieroe” (non proprio alla Philip Marlowe di Chandler, Philo Vance di S. S. Van Dine, o alla Sam Spade di Dashiell Hammett), viene esternata pure gestualmente: «Enrico leva le nez de sa glace. «Toi, t'es un juge, hein? demanda-t-il à son père. – Ben oui, répondit Alberto. – Mais t'es un juge comme ci comme ça… – Qu'est-ce que ça veut dire, que je suis un juge comme ci comme ça? – C'est maman qui dit que t'es un juge comme ci comme ça.» Et il fit pivoter la paume de sa main ouverte, imitant certainement un geste de sa mère.».
La rivelazione della misera opinione che di lui ha suo figlio, in aggiunta alla sincera commozione per aver perso un collega, e caro amico, finisce per trasformare quella sua accidia in sdegno. Le ragioni del rancore lo indurranno a fare tutto il possibile per trovare il colpevole. E la sua vita privata non interferirà più con la vicenda giudiziaria, anzi l’indagine diverrà l’ambiente più idoneo per scoprire di possedere delle reali qualità da provetto investigatore; innanzitutto, nel riuscire a decifrare con la necessaria disinvoltura quegli strani codici, di non detto e di indicibile, ancora in vigore in una piccola cittadina dell’estremo sud della penisola.
Esemplare, dunque, la traduzione di Christophe Mileschi nei dialoghi e nelle parti descrittive del testo: «Même s'ils étaient radicalement différents. Alberto pétillait, faisait la ribouldingue, les quatre cents coups, toujours en quête de sensations fortes, de nouveautés, de moments qui mettent de l'effervescence dans la vie de tous les jours. Presque tous les matins il arrivait au tribunal les yeux gonflés pire qu'un crapaud des marécages, sa tête manquant de s'écrouler brusquement de sommeil. Et des bâillements à n'en plus finir.».
L’espressione francese “faire les quatre cents coups” in italiano sarebbe priva di senso, neppure figurato, se non quello specifico d’evocare il film di François Truffaut del 1959. Nel caso in cui intendessimo “coups” come “trucchi”, piuttosto che “mosse” (e fino a che punto scacchistiche?), l’indicazione acquisterebbe il valore d’un che di selvaggio, e pure disordinato, nel senso della baraonda infernale, appaiandosi con quel “ribouldingue”, che è un godersi la vita, facendo le ore piccole, diremmo noi.
Ottima pure quella sua idea di rendere il dialetto calabrese quasi concretamente orecchiabile ai francofoni, ricorrendo all'artificio dell’accentazione occitana, nella sua variante provenzale, il che consente di coglierne approssimativamente il significato senza dover consultare un apposito dizionario o delle note a piè di pagina.
Dopo l’ondata d’inquietudine svedese alla Kurt Wallander (il protagonista della serie ideata da Henning Mankell), e la “nouvelle vague” italica (dei vari commissario Bordelli di Marco Vichi, ispettore Lojacono di Maurizio de Giovanni, avv. Guerrieri di Gianrico Carofiglio, Rocco Schiavone di Antonio Manzini…), il neologismo francese “polar”, nella fusione tra policier e noir, avrebbe identificato a ben ragione il nostro “petit juge” in quel particolare genere introspettivo, cupo, sinistro ed equivoco, coinvolgente, in un qualche processo di evoluzione del loro percorso soggettivo, ed etico, personaggi appartenenti alle forze dell’ordine o del magistero giuridico; assolutamente distante dalla definizione anglo-americana “police procedural”; mentre il “giallo”, italiano postmoderno, inteso come tale, non consentirebbe ancora delle vere e proprie etichette predefinite.
In che senso possiamo allora azzardare una tale decisa collocazione? Non tanto per la trama d’indagine, relativamente classica, che ricorre alle consolidate strutture di questo peculiare tipo di thriller, quanto per la descrizione psicosociale d’una piccola città di provincia assoggettata allo stretto controllo della ‘Ndrangheta? E qui quel tanto di emozionante e da brivido, insito nel poliziesco, scompare in gran parte dietro lo studio delle ataviche norme comportamentali e il ritratto d’una regione in cui il senso della giustizia è reso molto di più attraverso vecchie usanze e parlate affettate e retoriche, dirottate a proprio favore dal crimine organizzato, piuttosto che da sentenze e procedimenti d’indagine isolati e incapaci di radicarsi in alcun modo nella popolazione locale. Ciò che consente al “giudicicchio” di andare avanti per la sua strada, interiormente tormentata, è proprio il fatto che egli stesso, essendo del luogo, conosce già in anticipo ed è in grado d’interpretare gergo e formule da combinare insieme, quasi a incastro, giocandoseli poi al momento più opportuno, in barba alle “Twenty Rules for Writing Detective Stories” di S. S. Van Dine.
Un intrigo intelligibile, e pur tuttavia non appassionante, da districare con l’aiuto di infingimenti e simulazioni, a mo’ di tacito patto con un capo bastone locale, "vecchio stile", retaggio del tempo in cui i mafiosi avevano ancora un certo codice d'onore da rispettare (tipo padrino alla Mario Puzo?), che s’inserisce a gamba tesa nella trama, con parsimoniose e istruttive parabole enigmatiche, ma a volte inverosimili oppure tirate forzatamente per i capelli, sulla falsariga del dico e non dico, o del qui l’affermo e qui lo nego, onde non trascendere in esplicita denuncia, che per gli affiliati costituirebbe un’infamia; ma sempre in seno a tutt’un sistema colluso di elementi di spicco dell’economia e della politica, il cui ruolo si sfilaccia a più riprese all’interno dell’intero racconto; insieme con una prosa ricca di metafore, piena di spirito d’osservazione e diffuso “sense of humour”, si rendono i personaggi abbastanza credibili, ma non del tutto accattivanti, e ciò in fin dei conti non giova più di tanto al fine di modificare sostanzialmente questo “genere” seriale da semplicemente gradevole a davvero avvincente.
Ma se il segmento, non del tutto inconscio, dell’istinto di narrare spinge alcuni magistrati a raccontare vicende criminali sotto forma di romanzo (forse, per meglio controllare una realtà difficile e ostile per dei “giudicicchi”; quanto distratti, quanto menefreghisti, quanto impotenti?), cosa dobbiamo pensare dell’impulso, questa volta non del tutto consapevole, da parte d’un ingegnere (qual è Gangemi), all’elaborazione di intrighi che si strutturano come impalcature innalzate a sostenere artificiosi, anche se plausibili, manufatti di finzione?
No, questi non servono tanto “per disintossicarsi dal troppo lavoro”, quanto piuttosto per dichiarare il proprio amore, forse non sempre del tutto condivisibile: “riconosco a questa mia terra, gravata dal pregiudizio molto oltre i suoi reali demeriti, valori umani altrove in via d’estinzione…”; e pure quando in essa “è più difficile far rimbalzare la propria voce… più complicati [sono] i contatti con il mondo della cultura… [dove] si paga anche il prezzo dell’appartenenza a luoghi che la nazione, ingiustamente e con cinica leggerezza, considera perduti e irredimibili”.
Infine si scopre il fanciullino nascosto più in profondità: “Vengo dal mondo contadino, dalla tradizione orale. Allora la fantasia si sviluppava attorno al braciere, nei frantoi. Perciò mi sento più narratore che scrittore”; e un po’ torchiatore, magari in un trappeto all’antica, dove ancora la pressa è comandata a mano da un meccanismo a due viti; da qui l’associazione d’idee conduce, "ça va sans dire", all’interrogatorio e all’indagine…
Nella sua stesura vivace e colorita, cosparsa di espressioni volutamente prese in prestito dal dialetto locale, Mimmo Gangemi descrive lo scenario incancrenito d’una società fatalmente assoggettata alle regole non scritte, ma decisamente dettate con rigore e intransigenza, dalla 'Ndrangheta, che beneficia enormemente della rilassatezza, trascuratezza e abbandono in cui versano le varie amministrazioni del “Belpaese”, nonché dei diversi compromessi istituiti come sistema a tutti i livelli della società. Per abitudine o per vigliaccheria, tale stato di cose viene ampiamente, e talvolta colpevolmente, tollerato. Questa specie di rassegnazione collettiva a una sorta di “meritata” (per atavico karma?) sopportazione si concentra principalmente negli incontri al circolo culturale di Vincenzo Spatò (un omaggio all’Andrea Camilleri de “La scomparsa di Patò”?), in cui i notabili del paese trascorrono il loro (non) utile tempo a chiacchierare del nulla, giusto per riempire il vuoto delle loro esistenze infruttuose; un mondo misogino, cocciuto, spesso codardo, sostenuto da primitive gerarchie e tanta ambiguità. E, nel limitarsi a commentare le notizie e impegnarsi a rielaborarle criticamente, costituiscono una sorta di escamotage apologetico che viene fortuitamente in soccorso del lettore, il quale può così farsi un’idea un po’ più tangibile del “backstage” narrativo del professionista che soprintende alla realizzazione d’un progetto con la stessa disinvoltura con cui partecipa alla conversazione in famiglia.
Cosa di queste storie affascina i francesi? Un paese in cui la mafia regna sovrana, in cui le faide e i regolamenti di conti si concatenano all’infinito, dove la giustizia è spesso sospesa, dove si gioca d’azzardo con rifiuti inquinanti, o dove la corruzione è di casa, e delinquenti e politici vanno a braccetto tra loro? O, invero, soltanto un po' d’umorismo senza false pretese, senso delle situazioni e delle apparenze ingannevoli, e un pizzico di spontanea simpatia sono senz’ombra di dubbio sufficienti a produrre un successo letterario ben oltre i confini nazionali.
Bibliografia essenziale:
Chandler R. The simple art of murder, Houghton Mifflin, Boston 1950
Chesterton G. K. How to Write a Detective Story, G.K.’s Weekly, October 17, 1925
Gangemi M. La revanche du petit juge, Points, Paris 2015
Gangemi M. La Vérité du petit juge, Editions du Seuil, Paris 2015
Gangemi M. Le pacte du petit juge, Points, Paris 2017
Ierace G. M. S. Interesse postumo per F. S. in Francia a quasi settant’anni dalla prima pubblicazione de Il vento nell’oliveto, ovvero il boudoir del Nechljudov maropatese, 262/265, 38-44, gennaio/dicembre 2019
Ierace G. M. S. Les deux anglaises et le in-continent, 270, 59-62, gennaio/marzo 2021
Ierace G. M. S. Fimmanuni, fimmanazzi & Tragediaturi, https://calabriapost.net/cultura/una-femmina-film-di-francesco-costabile
Highsmith P. Plotting and writing suspense fiction, The Writer, Boston 1981
Toscano P. Scritti per la mia terra, Gattopardo, 14/9, 32-6, dicembre 2016
Tuzzi H. Come scrivere un romanzo giallo o di altro colore, Bollati Boringhieri, Torino 2017
Van Dine S. S. Twenty Rules for Writing Detective Stories, The American Magazine, September 1928